Appartengo a una generazione intrisa di Fellini, che ha amato Fellini, ma che ha cercato in tutti i modi di liberarsene, senza accoglierne e capirne la lezione. Fellini calò sotto i nostri occhi, una dopo l’altra, tutte le sue carte. Anche i meno felliniani tra noi attesero ogni suo film con una specie di apprensione, come una tappa, un accadimento per la cultura del Paese. Si sa che, degli avvenimenti importanti che hanno toccato la nostra vita, ci ricordiamo esattamente dove eravamo quando li abbiamo vissuti o quando ne abbiamo appreso notizia. A me succede con i film di Fellini.
Il primo che vidi fu uno shock: da piccolo qualcuno mi portò in una sala parrocchiale del quartiere Mazzini, il cinema Pax, a vedere La strada (1954). Poltroncine di legno a seduta ribaltabile, sala con soffitto basso e nebbia di fumo fumato: questo, per molti anni, fu per noi il cinema, una specie di prolungamento al chiuso dello spazio urbano, dove si entrava e si usciva in qualsiasi momento. Non importava che il film fosse già cominciato, perché si poteva rivedere, anche interamente, anche più volte, dall’inizio.
Dentro questo mondo nel mondo, in quella buia e libera città parallela costituita dalla miriade di sale cinematografiche di allora, c’erano i film di Fellini, che già allora erano da tutti percepiti come qualcosa di diverso. Era l’epoca in cui un’opera poteva ancora essere popolare e di qualità allo stesso tempo. Ma questo lo diciamo oggi, perché allora questo dualismo non si poneva e anzi un’opera era tanto più di qualità quanto più riusciva ad arrivare alle masse, ma senza indulgere a compromessi. Il cinema lo faceva spesso, Fellini ci riuscì almeno fino a 8½ (1963) escluso, e poi ancora con Roma (1972) e Amarcord (1973).

sul set di La strada (1954)
Avrò avuto 10 o 11 anni quando vidi La strada e ne restai sconvolto. Al punto che non ho mai più voluto rivederlo. Per molto tempo il tema musicale mi rimase dentro come apice di una strana malinconia, un qualcosa di nuovo, un piacere ambiguo di desolazione mai provato prima. Anthony Quinn-Zampanò che vaga col carrozzone tra paesi montani semideserti e a torso nudo riesce ogni volta nel gelo ad aprire un anello della catena che lo avvolge, mentre la tromba del clown Gelsomina suona le note fatali, è tutto quello che mi resta del film. Avevo dimenticato che ci fosse anche Richard Basehart [che fu Ismaele nel Moby Dick (1956) di Huston], presente anche nel Bidone (1955), altro film straziante, ma che vidi solo nel ’62 in una saletta d’essai a Parigi, trascinatovi da una amica fiamminga di allora. Frequentavamo entrambi un corso di francese all’Alliance, eravamo ragazzini, privi di difese e di senso critico. Anche quella volta furono lacrime difficili da nascondere. Vorrei rivederlo, ma ho paura che non mi piaccia, oppure che mi coinvolga di nuovo, come allora, in quell’atmosfera di malinconia ineluttabile che faceva tutt’uno con quella presente nella Strada e di cui era probabilmente una continuazione con gli stessi mezzi.
Malinconia che, assieme a una totale e ragionevole sfiducia nel genere umano, si ritrova nelle Notti di Cabiria (1957), che vidi molti anni dopo al cinema Nuovo Olimpia, dove ogni tanto davano anche Lo sceicco bianco (1952), vero capolavoro di tristezza truffaldina, provinciale e poveraccia, poi percolata e accuratamente perfezionata nei Vitelloni (1953), visto anch’esso tardivamente, credo in Tv, quando ero abbastanza grande da reggerne la botta emotiva e riconoscerne la grandezza. Lì scoprii Franco Fabrizi, che restò uno dei miei idoli assoluti del cinema italiano.

Il cinema Nuovo Olimpia, nel centro di Roma, situato nel palazzo sotto cui fu ritrovata l’Ara Pacis di Augusto, fu per molto tempo forse la migliore fonte di cultura cinematografica generale esistente nella capitale. Stampavano un programma mensile, con titoli che non ho mai più ritrovato da nessuna parte, pellicole che forse si sono perse, di cui probabilmente la versione italiana non esiste più, come Il dio nero e il diavolo biondo (1964), di Glauber Rocha – ero talmente sotto lo schermo che lo vidi tutto il tempo in anamorfosi –, come i meno noti Harakiri di Masaki Kobayashi (1962) e L’isola nuda, di Kaneto Shindō (1960) o La donna di sabbia, Hiroshi Teshigahara (1964) e gli altri giapponesi che all’epoca furono per me una rivelazione. E ovviamente Rashomon di Kurosawa, che era del 1950.
In mezzo a tutto questo tantissimo cinema – ci andavamo ogni sera, ultimo spettacolo alle 22.30, stipati in 4 o 5 dentro una Fiat 500 lanciata a manetta per le strade di una Roma notturna a quel tempo quasi deserta –, in mezzo a tutto questo nutrimento per il nostro immaginario di allora, c’era quello di Fellini che apparentemente, da Giulietta degli spiriti (1965) in poi, e per un certo tempo, non fu per noi importante. «È ‘na fellinata», dicevamo. Ci piacevano il cinema terzomondista, il cinema francese e soprattutto quello americano della New Hollywood. Ci piaceva tutto ciò che rispecchiava la nostra condizione giovanile e ciò che poteva proiettarci in una dimensione più ampia di quella peninsulare. Non immaginavamo che proprio in quegli anni la cultura espressa dal Paese, in tutti i campi, stava toccando apici che in seguito non avrebbe mai più raggiunti. Per noi le tematiche felliniane erano troppo “italiane”, a-politiche e, se non aristocratiche, certamente ego-centriche. Ci sbagliavamo, come sbagliavamo su alcune altre cose. Ma tutto questo venne dopo i miei primi fortissimi impatti col suo cinema. Prima da bambino, poi da ragazzo, Fellini mi travolgeva.
Nei suoi film iniziali c’è tutto quello da cui mi sarebbe bastato fuggire per prendere le distanze dalle tristezze della Penisola – ben evidenti in forma di disagio anche fuori dei suoi film – e diventare nuovo & moderno. In poche parole si trattava per me di isolare criticamente la devastazione di quell’Alberto Sordi da cui Fellini seppe subito trarre la purissima essenza italico-romanesca di cui era fatto. Ma Sordi ci consolava facendoci ridere: percepivo la sua tragica miseria – che Fellini vedeva benissimo, sapendola mostrare altrettanto bene –, ma in me restava in secondo piano. La necessaria ripulsa di Sordi (di cui forse non si è ancora capita l’importanza culturale per il secondo Novecento italiano) fu una cosa che mi riuscì soltanto verso la fine dei Settanta, quando la commedia all’italiana – di cui, prima di prenderne le distanze, fui per molto tempo un adepto – si stava estinguendo e Fellini, lungo il cammino intrapreso dopo la cesura che non saprei se coincida con La dolce vita (1960) o con 8½ (1963), aveva girato tre o quattro capolavori prima del magnifico Casanova (1976): quindi era già ormai da tutt’altra parte.

I colpi che assestò con La dolce vita e subito dopo con 8½ facevano parte di un “uno-due” rivolto a tutto e a tutti: ferma restando la malinconia, ma in una forma sempre più controllata e cerebralizzata, e acuendo lo sguardo feroce con cui osserva sé stesso e il proprio paese, i temi della Dolce vita furono ripresi e messi a punto nel capolavoro successivo. Lo vidi che era appena uscito, alle 3 del pomeriggio, cinema Barberini, con mia cugina Brunella, che aveva due biglietti omaggio. Non avevamo nemmeno diciott’anni, 8½ ci affascinò e ci stordì, ma ci sforzammo di capire. Era la prima volta, mi pare, che mi trovavo al cospetto di un film che esigeva un’interpretazione, il cui senso cioè non fosse evidente e di cui non potessi dire è bello o è brutto, mi è piaciuto o non mi è piaciuto, già all’uscita del cinema.
Appena fuori dalla sala restammo in silenzio storditi dalla luce meridiana di piazza Barberini, che al tempo era un unico grande parcheggio con una fontana al centro. Cominciammo a scendere il Tritone e fu soltanto all’altezza dell’incrocio con via Francesco Crispi che pronunciammo qualche cauta valutazione. Non so se lei l’avesse seguito e capito meglio di me, ma è probabile, perché io ero completamente confuso: come poteva, un film che mi aveva affascinato, essermi anche incomprensibile? Dalla tristezza conclamata della Strada, a quella che in 8½ mi appariva come una chiusura narcisistica (ma all’epoca non avrei usato questo termine), Fellini colpiva di nuovo duramente.
Da quel film in poi mi interessai molto al suo lavoro. Ma Giulietta degli spiriti – episodio del sogno a parte – mi deluse e per circa 3 anni Fellini mi divenne marginale. Fino al Satyricon (1969), “fellinata” estrema, essenzialmente visiva, vista alla sala Arlecchino in via Flaminia, di cui mi colpì lo sforzo disperato di re-inventare il mondo di Roma antica, che al cinema era sempre risultato, anche nei casi migliori, posticcio scolastico finto, spesso ridicolo. Il tentativo non era del tutto riuscito, ma accidenti che lezione. Era come ci stesse dicendo qualcosa di fondamentale sul procedimento dell’inventare, e ce lo diceva in forza del potere artistico che si era conquistato in decenni di fatiche e a seguito dei suoi, perfettamente coscienti, tentativi di mantenere la mente libera di associare: «…vorrei far questo: inventare un mondo romano come fosse evocato da una stregonesca operazione ectoplasmatica […] una forma scheggiata, incompleta, mutilata…» (Fare un film, 1980).

Un’altra re-invenzione totale e quasi del tutto magistrale (non mi piacque l’episodio romano), sfacciata nell’esibirsi come finzione e tuttavia molto attenta nello sforzo di restituirci anche qui una visione del passato, e in particolare del Settecento, europeo & cosmopolita, è il Casanova (1976), forse il suo film più preciso e intransigente, spietato e livido, invaso di una malinconia astratta, molto diversa da quella di cui grondano i lavori della sua prima fase, ma altrettanto critica. Perché tra le costanti di Fellini c’è sicuramente quel sentimento di «sconsolato e pessimistico abbandono», come lo definisce il Devoto-Oli, ma sempre espresso in modo critico, cioè lucido, distante, politico.
Dicevo che noi post-sessantottisti sbagliavamo nell’obliterare – per fortuna fu una cosa temporanea – i suoi film in quanto a-politici, anzi reazionari, anzi egoistici, perché Fellini è sempre politico. Ma il suo non è mai un giudizio diretto e semplificato, come a quel tempo esigevamo noi, né di teoremi e dimostrazioni, ma sempre dell’esposizione narrativa di uno stato antropologico peninsulare, su cui non nutre alcun ottimismo e verso cui non prova alcuna simpatia, ma nel quale si sente completamente coinvolto, avvoltolato e soverchiato.
L’homo italicus felliniano trascende la lotta di classe e la politica di qualsiasi colore e l’infradicia di sé, impregnandola di quel qualcosa di meta-storico, cioè di oscuramente culturale, che ha trovato nel tempo molte disperate definizioni, alcune più precise e rivelatrici di altre, un qualcosa che ritroviamo, declinato da ciascuno a modo suo, in alcuni suoi attori-icone. In Alberto Sordi come in Franco Fabrizi, genio dimenticato, ma anche in Mastroianni, in Leopoldo Trieste, in Mario Pisu. Qualcosa di intrinseco che queste figure mi sembra portino con sé nei suoi film, come un personale, non-eliminabile, default peninsulare.
Poi ci fu La nave va (1983), visto anch’esso al Barberini, ma da solo e con ansiolitici in corpo, per far fronte ad alcune traversie personali di allora. Mi addormentai al secondo tempo, prima e unica volta in vita mia. Devo aver russato, ma nessuno mi svegliò. Ciò che avevo visto prima di dormire mi era piaciuto. Vorrei tanto ri-vederlo, ma non lo trovo. Di quel film mi restano impresse vaghe immagini di una grande sala macchine – possibile? – e di una corazzata piena di cannoni, lontana all’orizzonte, completamente re-inventata rispetto alla nostra idea corrente di nave militare.
I successivi due film non ricordo dove li ho visti, quindi non devono avermi efficacemente colpito. Di Ginger e Fred (1986) rammento l’ennesima insorgenza della malinconia felliniana, che ritorna in forma nostalgica e auto-celebrativa anche nell’Intervista (1987). La voce della luna (1990) l’ho rozzamente visto in tv, l’altro ieri per la prima volta, e mi piaceva talmente poco che ho interrotto a metà. L’altra metà attende, registrata, che trovi la forza di riaprirlo.
Mi sembra che oggi Fellini sia presente nella cultura italiana come La nave va è presente alla mia mente: qualcuno o qualcosa che è stato importante in un’altra epoca. Che ci ha fatto discutere, che ci è piaciuto, ci ha soverchiato e ci ha insegnato, ma di cui abbiamo ormai una memoria vaga e frammentaria, come di un sogno prodotto da un misterioso Inconscio Nazionale, di cui lui si sentì interprete e forse davvero riuscì ad esserlo.
In copertina: La dolce vita (1960)