Test di contatto

16/03/2020

Se è vero che ogni testo è un test, come era solito dire Edoardo Sanguineti, poche immagini come la camicia insanguinata di Aldo Moro ci sottopongono a quello che – per la brutalità dello choc – assomiglia piuttosto a un crash test. E certo viene in mente il romanzo fantapornofunebre di J.G. Ballard (specie nella sua algida, memorabile versione “neoclassica”, portata al cinema da David Cronenberg), Crash appunto, guardando altre immagini di Gigi Cifali: i dettagli della Fiat 130 di Via Fani e della Renault 4 di Via Caetani. Dettagli che, così crudelmente decontestualizzati e oltretutto (fa notare l’artista) riprodotti a colori, sia pur freddi e bruscamente denotativi – così resi quasi irriconoscibili, in ogni caso, rispetto alla vulgata mediatica d’epoca, forse l’ultima coatta al bianco e nero –, richiamano irresistibilmente (almeno alla mia memoria perversa) certi Ferri di Alberto Burri. Così come ai Sacchi fa pensare l’altro dettaglio insostenibile: quello della coperta traforata dal proiettile che mise capo all’actus tragicus esposto, infine, il 9 maggio in Via Caetani.

Devo ammettere che in prima battuta, quando Riccardo Venturi ci ha mostrato queste immagini che non avevo mai visto, ho avuto un moto di repulsione. Non sono mai stato al Vittoriale degli Italiani, ma tanto tempo fa rimasi costernato nel vedere esposto nella mia città, in una qualche improbabile mostra su d’Annunzio, l’highlight emotivo della sua incredibile raccolta di paccottiglie («ninnoli e soprammobili da aeroporto e da “suk” anche nelle stanze più personali e vissute… mai, proprio mai, un oggetto “bello” o “importante” sotto il naso!» si raccapricciava Alberto Arbasino, lui sì andato in visita al Luogo Deputato): il tricolore zuppo di sangue nel quale l’Imaginifico aveva avvolto – si può immaginare con quale liturgico, voluttuoso ralenti – il cadavere del commilitone lungamente (e, va aggiunto, magnificamente) compianto nel Notturno, la Medaglia d’Oro della Grande Guerra Giovanni Randaccio, che durante l’Impresa di Fiume, poi, il Comandante sbandierò come vessillo a fomento dei Legionari; e che ora fa bella mostra di sé (si fa per dire), appunto, a Gardone (agli altri reduci del ’17, i suoi «Lupi», aveva invece scelto di solennemente donare la «Croce del Sangue»: un pesante crocifisso, cioè, nel quale aveva fatto incastonare non meglio identificate «reliquie», del Randaccio, e appunto il sangue del quale erano rimaste intrise divisa e mostrine del disgraziato). D’Annunzio l’ho letto forse troppo e talora, temo, con compiacimento un filo perverso; ma nulla quanto questo suo macabro feticismo mi pare risulti impari – si pensi, dell’uomo, ciò che si vuole – alla sua statura d’artista: se è vero che concepì il Vittoriale, nel suo complesso, come proprio Gesamtkunstwerk, questa sua Bayreuth personale resta un fallimento inappellabile.

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Il cortocircuito fra storia collettiva, memoria personale (sebbene intercorra, fra la generazione di Cifali e Venturi e la mia, un décalage esile quanto cruciale) e ossessione per il «piccolo» (mica tanto piccolo, nella fattispecie…) «fatto vero» – di appunto sanguinetiana memoria – mi pareva proprio lo stesso, in queste foto, dell’oscena pañolada del Vate. A dirla fuori dai denti: ad apparirmi osceno (alla lettera dell’etimo tragico, voglio dire), di queste immagini, era appunto il “vero”. Se la paccottiglia letteraria, teatrale e cinematografica in cui si è per lo più sgangheratamente trasposta, da noi, la vicenda storica più importante, il singolo punto di svolta decisivo del secondo Novecento italiano (con l’eccezione, fra le poche, del Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, appunto per l’ostentato irrealismo della rappresentazione: sino al colpo di genio finale di un Moro che se ne esce bel bello a passeggio fuori del «carcere del popolo», in una fresca mattina di primavera, sulle note del più lieve Schubert immaginabile) è semplicemente irrilevante, qui si fa un giro di vite che costringe al salto di piano.

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Una censura simile alla mia – restata inespressa, sino almeno alla preterizione presente – era stata comminata in passato, imparo da quel gran libro che è La somiglianza per contatto di Georges Didi-Huberman, all’impronta: la quale, agli occhi dell’estetica classica, pecca di meccanicità ma anche, appunto, di oscenità. Proprio perché il contatto di quelle maschere era, in traslato o alla lettera, col cadavere dal quale era stato impresso, sulla materia, il calco: nel quale ogni volta dunque, in un modo o nell’altro, «tocchiamo una morte». Non diversa l’oscenità delle fotografie, del pari di matrice “giudiziaria”, del cadavere di Pasolini (ancorché proditoriamente diffuse dai media, all’indomani dell’«atroce fait divers» – quale lo definì Gianfranco Contini – del Poeticidio all’Idroscalo di Ostia): che infatti ben di rado, da allora, si son potute vedere (io le ho viste la prima volta, l’anno scorso al WEGIL di Roma, alla mostra di Giuseppe Garrera Resi superbi dall’amicizia): l’attrazione ambivalente provata in vita da Pasolini nei confronti di Francis Bacon (col suo impiego per esempio in Teorema) trovava ex post – in quei colori sommari, e proprio per ciò intollerabili, della Polizia Scientifica del ’75 – un compimento di atroce, appunto, ironia.

Un’inquietudine simile mi aveva attratto e respinto, insieme, nell’installazione con la quale Christian Boltanski, nel 2007, aveva inaugurato il Museo della Memoria della Città di Bologna: dove sono conservati, sul traliccio del disegno originario dell’aereo, i frammenti che pian piano, in questo ormai quarantennio, sono stati restituiti dal Tirreno dopo l’«incidente» che in quelle acque, a Ustica, vide precipitare il DC-9 dell’Itavia il 27 giugno 1980. Attorno a questo monumento madornale – che, è bene precisare, non è stato allestito con intenti artistici: nel Museo è stato semplicemente trasferito il materiale probatorio raccolto e studiato dalla Polizia giudiziaria e dalla Magistratura, nel corso delle indagini, in un hangar di Pratica di Mare; qualcosa dunque che ha, in origine, la stessa funzione dei reperti fotografati da Cifali negli archivi del Ministero degli Interni, della Giustizia, e dell’Arma dei Carabinieri – Boltanski ha collocato dieci grandi contenitori neri, chiusi, i quali ci si dice contengano gli effetti personali delle 81 vittime, ripescati insieme ai cadaveri dall’Ifremer: oggetti “veri”, dunque, che nell’installazione sono (o sarebbero) fisicamente presenti; ma che sono sottratti alla nostra vista. Mentre nel Museo possiamo consultare un piccolo libro con l’elenco di questi oggetti, e loro fotografie piccole e sfocate. Vi sono poi, una per ciascuna delle vittime, 81 immagini: immerse nella luce fioca e intermittente alla quale ci ha abituati l’arte della memoria di Boltanski. A differenza della fissità liturgica che è appunto la sua consueta cifra stilistica, però, a Bologna queste immagini variano nel tempo: dal momento che sono, in realtà, 81 specchi. È il volto di ciascun visitatore che di volta in volta viene raffigurato: l’atto del ricordare diviene così più propriamente – e più responsabilmente – un commemorare. E viene così aggirata, appunto, l’oscenità in cui consisterebbe la feticizzazione delle vittime.

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Prendiamo, a titolo di paragone, l’opera d’arte più nota fra quelle che all’Evento sono state dedicate: 3,24 mq di Francesco Arena, realizzata nel 2004 e già assurta a piccolo “classico” della nostra contemporaneità. Arena ha riprodotto, esattamente nell’ampiezza riportata dal titolo, il «carcere del popolo» di Via Montalcini, in cui venne tenuto prigioniero Moro fra il 16 marzo e il 9 maggio 1978. Tra Via Fani e Via Caetani appunto. All’interno sono riprodotti l’organizzazione del minimo spazio a disposizione del recluso (tre metri di lunghezza, meno di uno di larghezza), e gli oggetti – gli effetti personali – a sua disposizione, in quelli che furono i suoi ultimi 55 giorni di vita: una risma di fogli formato A4, una bottiglia d’acqua minerale, un rotolo di carta igienica, un WC chimico, una catinella di plastica, una ventola elettrica, due lampadine. Come ha fatto notare Stefano Chiodi, però, «la cella non è una ricostruzione fedele. Nulla vi è “autentico” e neppure si tratta di un set, di una scenografia»; lo spazio del titolo «si presenta in forma neutra, anonima, definitivamente compiuta: se ne sta appartata, immobile. Non serve, non dimostra, non sostiene, non invita all’azione. Ha il pudore degli oggetti nuovi. La loro strana pulizia. E incongruenza. Sta in attesa».

Francesco Arena. 3,24 mq, MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma

Cosa, chi, attende? Il nostro sguardo, certo, come ogni opera. Ma quello spazio non siamo invitati a sbirciarlo dall’esterno attraverso uno spioncino, à la Duchamp (lo spioncino c’è, ma è quello
che utilizzavano i carcerieri per tenere d’occhio la loro preda
preziosa); quanto dobbiamo fare, se intendiamo “fruire” dell’opera, è al contrario introdurci al suo interno e, sia pure per pochi minuti, vivere nelle medesime condizioni sperimentate, per quasi due mesi, dal Prigioniero. Due anni fa, nel quarantennale dell’Evento, 3,24 mq è stata esposta, per 55 giorni naturalmente, al MAXXI. Sicché, alla solita maledetta vernice, non ho resistito alla tentazione di fare la mia piccola (c’era la fila, si capisce) Aldo Moro Experience. Proprio per la strana pulizia forse che, chissà perché, al suo interno ci sorprende, in quei pochi istanti e quanto mai banalmente, mi sono sentito un voyeur. Ma so di reazioni molto meno neutre della mia; reazioni anche estreme. Segno dell’efficacia del lavoro: il quale – insieme «ready made e unità plastica minimalista, oggetto pop e dispositivo concettuale», dice sempre Chiodi – “funziona” in effetti come un reagente: allo stesso modo del famigerato pezzo silenzioso di John Cage, 4’33” (di cui chissà quanto consapevolmente parafrasa il titolo), è uno spazio di latenza che si riempie, di volta in volta, dei nostri pensieri, dei nostri dubbi, delle nostre vociferazioni; e forse, soprattutto, della nostra vergogna. Perché, attirandolo dentro di sé e colorandosi delle sue proiezioni, l’opera fa sì che (conclude Chiodi) «lo spettatore è sempre complice».

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Francamente ignoro l’attendibilità della tesi sostenuta – spettrografia computerizzata e carbonio 14 alla mano – fra gli altri da Lillian Schwarz, la quale ha dato per certo che la Sacra Sindone conservata nel Duomo di Torino sarebbe stata realizzata nientemeno che da Leonardo da Vinci: il quale si sarebbe valso nella circostanza di una tecnica pre-fotografica, impressionando il telo con la proiezione delle proprie stesse fattezze (Schwarz è anche la più convinta sostenitrice dell’ipotesi, questa circolante da almeno un secolo peraltro, secondo la quale sarebbe un autoritratto, debitamente en travesti, pure la Gioconda…). Ma certo è proprio quel telaccio medievale la matrice prima, l’architesto di ogni somiglianza per contatto: l’origine del feticismo, della riprovazione e del culto, che questa si è nei secoli attirata. Non c’è dubbio, in ogni caso, che a quest’oggetto pensasse Fabio Mauri quando alla Galleria Comunale di Bologna – la città del loro lontano sodalizio – chiese a Pier Paolo Pasolini di prestarsi a Intellettuale, installazione ma anche performance nel corso della quale le immagini del Vangelo secondo San Matteo vennero proiettate sulla camicia, bianca come uno schermo, del suo autore. Era il 31 maggio 1975: e, di nuovo, chissà cosa pensò Mauri quando sei mesi dopo vide inopinatamente realizzato, sul corpo di Pasolini a Ostia, il teatro sadico di quella nuova Passione crudele. In uno dei suoi tanti ricordi dell’amico dirà, il cristianissimo Mauri, che «quando si andava a cenare con Pasolini, sembrava di cenare con Cristo»; e certa è la valenza psicoanalitica del suo gesto concettuale più ricorrente: la proiezione appunto.

https://www.artslife.com/wp-content/uploads/2019/01/Pier-Paolo-Pasolini-durante-Intellettuale-la-performance-di-Fabio-Mauri-realizzata-nel-1977-presso-la-GAM-di-Bologna.-Scene-del-film-Il-Vangelo-secondo-Matteo-vengono-proiettate-sul-suo-corpo..jpg

Non c’è dubbio che l’opera di Pasolini, e prima ancora la sua persona, fossero venute a portare scandalo e contraddizione (tanto più lascia basiti, dunque, l’anodino santino in cui negli ultimi anni è stata trasformata la sua icona); non so se davvero si volesse, come ci lascia capire l’amico Mauri che lo conosceva bene, un Alter Christus; di certo, era Uno Venuto Con La Spada. L’arte di provocare reazioni, soprattutto nei lavori di quegli ultimi anni e mesi (basti pensare a Salò, a Petrolio, soprattutto a Scritti corsari e Lettere luterane: testi questi che letteralmente vivono del contraddittorio che scatenavano), era il motore primo delle sue retoriche (nonché il movente, forse, del suo nuovo interesse per l’arte sua contemporanea in precedenza vituperata, dal vecchio allievo di Longhi, con sacro terrore). La sua interpretazione della società del suo tempo, il suo rivivere le tragedie del passato (basti pensare che gli adolescenti Mauri e Pasolini si trovarono a dover partecipare, nel maggio del ’38, ai Ludi Juveniles che salutarono, a Firenze, la visita di Adolf Hitler), le sue cosiddette “profezie” del tempo a venire – che sarebbe poi il nostro –: tutto in Pasolini è inattendibile, provocatorio, controverso. Per questo Mauri non poteva che usarlo come schermo: per appunto proiettare quello che, in lui e attraverso di lui, ci vedeva lui (con non diversa spregiudicatezza ha usato a più riprese lo stesso PPP, la sua icona e i suoi attributi terreni, una degna erede di Mauri come Elisabetta Benassi; e da ultimo lo stesso ha fatto, di nuovo coi fotogrammi del Vangelo, Abel Herrero). Per dirlo con una parola sola, lo schermo-Pasolini era parziale.         

Ed è proprio questo il punto. Le immagini della nostra memoria collettiva (non a caso Cifali cita Halbwachs) non sono ancora quelle “panoramiche”, più o meno attendibili, che chiamiamo Storia. La loro conoscenza per contatto risulterebbe davvero oscena ove pretendesse di raccontarci, colla superstizione della sua presenza, Tutta La Storia: di fatti che viceversa restano tuttora, a più di quarant’anni di distanza, interrogativi inevasi, cioè ferite aperte. Al contrario Cifali ci presenta dettagli, scorci, frammenti: inquadrature soggettive, fantasmi percettivi, «oggetti parziali» (proprio nel senso psicanalitico di Melanie Klein): i quali sbalzano dalla cornice con un di più di violenza, è vero, ma il cui senso ultimo resta sospeso, ambiguo, appunto parziale. Come nel Bianco di Mauri, nelle Facce di Boltanski o nel Vuoto di Arena, il suo lavoro funziona davvero come un test. In quello specchio ci scrutiamo: sospettosi, indignati o solo assorti. E siamo costretti, ancora una volta, a farci delle domande.

Sono citati:

Stefano Chiodi, Senza paura del buio. Una conversazione con Fabio Mauri [2007], in «doppiozero», 18 giugno 2012
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi 1986; ora in Id., Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, ivi 2016
Alberto Arbasino, Il meraviglioso, anzi, Garzanti, 1985
Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta [2008], traduzione di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri 2009
Andrea Cortellessa, L’assenza, la paura, la macchina. Pasolini e l’arte contemporanea, in Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi tra società delle lettere e solitudine, atti del convegno di Casarsa della Delizia, 11-12 novembre 2016, a cura di Angela Felice e Antonio Tricomi, Marsilio 2018
Stefano Chiodi, La cella, in Francesco Arena, 3,24 mq, Roma, Nomas Foundation, 7 maggio-10 settembre 2008, s.i.e., 2008

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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