Distanza tra noi da rispettare

14/03/2020

Città tramortita scolorita
nell’abbaglio della grigia luce pomeridiana. Striscia il vuoto
per le piccole strade che, cucendola, la tengono assieme
come dopo un’autopsia una disgraziata sacca di corpo
emaciato. Non ci si mette naso in queste cose,
nessuno ce lo mette, si sorvola,
non conviene. L’elicottero trincia un petto
implume di cielo da laggiù a qui tutto attorno con
le pale furibonde. Ho visto, e ve ne parlo,
gabbiani grandi quanto battelli fantasma andare
per mari di tegole vogliosi di saccheggio. So,
hanno fatto una battitura nel carcere i dannati –
nessuno se li fila – hanno fatto fuochi
e addobbati con urla per farsi sentire.
Non vogliamo però sentirli, noi, restiamo
indifferenza e pregiudizio, blindati nelle case;
ci chiediamo se da una parte all’altra della tavola
ci sia si o no il metro di distanza da osservare
per evitare il contagio. E mentre andiamo alla pancia,
evitiamo attentamente di calcare la via del cuore, troppo ci coinvolgerebbe

– anche la città acquattata preferisce questo:
bestia pietre e mutismo nel cui sciabordio interminabile
ci contiamo, compitiamo precipitosamente nomi,
parole, le prime che vengono. Potrebbe darsi
che ci si dimentichi uno dell’altro domani.

© Vanessa Milan

IERI SERA PENSAVO al decreto emergenziale e allo stesso tempo all’articolo 11 della nostra costituzione interrogandomi su come il potere politico possa disporre di masse di persone in stretta veduta di idee con i vertici del sistema sanitario.

Mi sono tremate le vene ai polsi quando ho sentito che a un certo punto bisognerà decidere chi curare e la risposta era: chi ha più speranza di vita – subito mi è risuonata vibrante la frase per lo più degli innamorati “questo minuto con te, amore, è valso tutta la mia vita” – e mi è passato nella mente il termine “eugenetica”, quando in America, prima ancora che nella Germania nazista, i deboli di mente, ma gli incapaci in genere, i disadattati, venivano rinchiusi in ospedali, poi in seguito chiamati lager, e ciò avveniva in concomitanza all’estendersi di una forte depressione economica.

In TV, nel frattempo, passavano le poche immagini delle guardie carcerarie, credo, in divisa antisommossa mentre entravano nei reparti – braccia – armati di bastoni e scudi per reprimere le rivolte che in queste ore animano le carceri italiane, dove i derelitti, i dannati della terra, virus sì virus no, chiedono diritti da sempre calpestati.  

Immagine di copertina: carcere di Stateville, dal film Call Northside 777.

Francesco Giusti

(Venezia 1952) scrive poesie e disegna fin dagli inizi degli anni Ottanta. Ha pubblicato “Accanto ai denti dell’eterno” (Di Felice 2012), “De un dir apocrifo” (Campanotto 2014), “E torna l’autunno” (The Writer 2016), “Senza nome” (Campanotto 2017). Ha inoltre pubblicato vari libri d’artista, a tiratura limitata, e ideato le riviste “Venezia Undertide” e “Binario 17”. Su di lui hanno scritto Paolo Ruffilli, Giorgio Agamben, Annelisa Alleva, Tommaso Ottonieri, Franco Beltrametti, Elenio Cicchini, Giulia Nicolai, Pier Franco Uliana. Il suo ultimo libro, “Quando le ombre si staccano dal muro” (2019) è uscito per Quodlibet nella collana di poesia bilingue Ardilut.

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