La comunità degli abbandonati

Pubblichiamo in italiano – e in lingua originale a seguire – questo contributo che ci hanno fatto pervenire i due filosofi indiani Divya Dwivedi e Shaj Mohan, venuti a conoscenza del dibattito aperto dall’articolo di Giorgio Agamben e dalla risposta, qui su Antinomie, di Jean-Luc Nancy. Ci sembra che in questo momento sia importante condividere i pensieri, far sì che nessuno si senta abbandonato. Detto altrimenti, ci pare sia importante, attraverso una rete globale, far fronte a un evento che, in modo sempre più evidente, mostra come il futuro dell’umanità dipenda dalla capacità di vedere il mondo quale inedita esperienza di una mondializzazione sempre più interconnessa, interdipendente e cosmopolita. Solo la capacità di passare da un pensiero all’altro, da un continente all’altro, da una lingua all’altra, da una specie all’altra potrà forse mutare il destino che sembra aspettarci e nel quale siamo chiamati ad operare.

F.F.


Per molto tempo l’India è stata un paese ricco di gente eccezionale, il che ha svuotato di significato il concetto di ‘stato di eccezione’ o quello della sua ‘estensione’. I bramini sono eccezionali perché solo loro possono presiedere ai rituali che regolano l’ordine sociale e perché non possono essere toccati (meno che mai desiderati) da coloro che appartengono alle caste inferiori per tema di minare la purezza del rituale. In tempi moderni, in alcuni casi, questo prevede servizi igienici separati per loro. A loro volta anche i Dalit, le persone delle caste più basse, non possono essere toccate, e tantomeno desiderate, dalle caste superiori perché ritenute le più ‘impure’. Come si può notare, l’eccezione del bramino è diversa dall’esclusione del Dalit. Una delle caste dei Dalit chiamata ‘paria’ è diventata nell’opera di Arendt un ‘paradigma’, illuminandone tristemente la realtà di sofferenza. Nel 1896, quando la peste bubbonica arrivò a Bombay, l’amministrazione coloniale britannica cercò di contrastare il diffondersi della malattia con l’emanazione dell’Epidemic Diseases Act (legge sulle malattie epidemiche) del 1897. Ma le barriere tra le caste, tra cui la richiesta da parte delle caste più alte di ospedali separati e il rifiuto di ricevere assistenza medica da persone di caste inferiori appartenenti al personale medico, andarono a sommarsi alle cause di morte per più di dieci milioni di indiani.

La diffusione del coronavirus[1], che ha infettato più di 100.000 persone a quanto dicono le cifre ufficiali, porta allo scoperto la domanda che oggi ci poniamo su noi stessi – Vale la pena di salvarci, e a quale costo? Ci sono da un lato le teorie complottistiche, che vanno dalle ‘armi biologiche’ a un presunto progetto globale di frenare le ondate migratorie. Dall’altro, ci sono fastidiosi equivoci, dalla convinzione che il COVID-19 si propaghi attraverso la birra Corona, alle notazioni razziste sui cinesi. Ma ancora più preoccupante è che, in questa con-giuntura di morte di dio e di nascita del dio meccanico, perdura una crisi che riguarda direttamente il ‘valore’ dell’uomo. Si vede nelle reazioni alla crisi climatica, nell’‘esuberanza’ tecnologica, e nel coronavirus.

Prima l’uomo si conquistava il proprio valore tramite svariate teo-tecnologie. Per esempio, ci si poteva immaginare che creatore e creatura fossero la determinazione di qualcosa di precedente, per esempio “l’essere”, dove il primo si dava come infinito e il secondo come finito. In una divisione di questo tipo, si poteva pensare a dio come uomo infinito e all’uomo come dio finito. Nel nome dell’uomo infinito gli dei finiti eleggevano i loro scopi. Oggi, deleghiamo la determinazione degli scopi alla macchina, quindi il suo ambito a questo punto si può definire tecno-teologico.

È in questa con-giuntura particolare che vanno considerate le recenti osservazioni di Giorgio Agamben, secondo il quale le misure di contenimento contro il COVID-19 vengono impiegate come un’“eccezione” volta a permettere un incredibile ampliamento dei poteri dei governi nell’imporre restrizioni straordinarie alle nostre libertà. Cioè, le misure adottate, con notevole ritardo, dalla maggior parte degli stati per prevenire la diffusione di un virus che potenzialmente può uccidere almeno 1% della popolazione, potrebbero condurre al livello successivo di “eccezione”. Agamben ci chiede di scegliere tra “l’eccezione” e l’ordinario benché la cosa che lo preoccupi sia che l’eccezione diventi la regola.[2] Jean-Luc Nancy ha in seguito risposto a questa obiezione osservando che oggi ci sono solo eccezioni, vale a dire, tutto quello che un tempo consideravamo ordinario è ormai infranto.[3] Nel suo ultimo saggio, Deleuze si riferiva a ciò che ci interpella alla fine di tutti i giochi tra ordinarietà ed eccezioni come a “una vita[4]; ovvero che si è afferrati dalla responsabilità quando ci si confronta con una vita individuale che è nella presa della morte. Morte e responsabilità vanno insieme.

Occupiamoci allora della non-eccezionalità delle eccezioni. Fino alla fine del 1800, negli ospedali molte donne incinte dopo aver partorito morivano di febbre puerperale o di infezioni post-parto. A un certo punto, un medico ungherese, Ignác Semmelweis, si rese conto che ciò succedeva perché le mani degli operatori sanitari veicolavano agenti patogeni passando da un’autopsia a un paziente, o dall’utero di una donna a un’altra, provocando così infezioni e morte. La soluzione proposta da Semmelweis fu di lavarsi le mani dopo ogni contatto. Per questa ragione fu trattato come un’eccezione e messo al bando dalla comunità medica. Morì di setticemia in manicomio, pare contratta dopo essere stato bastonato dalle guardie. In realtà, i sensi delle eccezioni sono infiniti. Nel caso di Semmelweis, la tecnica stessa per combattere le infezioni rappresentava l’eccezione. Nella Politica, Aristotele ha parlato del caso dell’uomo eccezionale, come di colui che sa cantare meglio del coro, che viene messo al bando in quanto dio tra uomini.

Non c’è un unico paradigma per l’eccezione. La via di una patologia microbica è diversa di quella di un’altra. Per esempio, gli stafilococchi vivono all’interno del corpo umano senza arrecare difficoltà, anche se scatenano infezioni quando la risposta del nostro sistema immunitario è “eccessiva”. Al punto estremo dei rapporti non-patogeni, i cloroplasti nelle cellule vegetali e i mitocondri nelle cellule del nostro corpo rappresentano delle convivenze antiche e ben assorbite tra specie differenti. In particolare, virus e batteri non ‘intendono’ uccidere il loro ospite, perché non è sempre nel loro ‘interesse’[5] distruggere l’unico tramite che gli permette di sopravvivere. Sul lungo termine – milioni di anni di tempo della natura – “tutte le cose imparano a vivere insieme” o per lo meno raggiungono un equilibrio reciproco per lunghi periodi. Questo è il senso che ha il biologo della temporalità della natura.

In anni recenti, in parte in seguito a pratiche agricole, microrganismi che vivevano in modo indipendente l’uno dall’altro si sono uniti e hanno cominciato a scambiarsi materiale genetico, a volte solo frammenti di DNA e RNA. Quando questi organismi hanno fatto il “salto” e sono passati agli esseri umani, a volte per noi sono cominciati disastri. Il nostro sistema immunitario percepisce questi nuovi arrivati come uno shock e, sopravvalutandone le risorse, induce infiammazioni e febbre che spesso uccidono noi e anche i microrganismi. Etimologicamente il “virus”[6] è legato al veleno. È un veleno nel senso che quando un nuovo virus trova una soluzione negoziata con gli animali umani, noi siamo già morti da un pezzo. Ossia, ogni cosa può essere considerata secondo il modello del pharmakon (che è sia veleno che cura) se ci basiamo sul tempo della natura. Ma la distinzione tra farmaco e veleno per lo più riguarda il tempo dell’uomo, l’animale meraviglioso. Ciò che si definisce ‘biopolitico’ prende posizione partendo dal presupposto di una temporalità della natura, e di conseguenza trascura quello che è un disastro nell’ottica del nostro interesse in – la nostra responsabilità per – “una vita”, cioè la vita di tutti coloro che rischiano di morire per aver contratto il virus.

Qui sta il nocciolo della questione: siamo stati in grado di determinare gli ‘interessi’ del nostro sistema immunitario dando luogo a eccezioni in natura, per esempio attraverso il metodo di Semmelweis di lavarsi le mani e attraverso le vaccinazioni. Siamo una specie animale che non ha epoche biologiche a sua disposizione per poter perfezionare ogni intervento. Per cui, anche noi, come la natura, commettiamo errori di codifica e generiamo mutazioni in natura, rispondendo a ogni necessità nei modi migliori che possiamo. Come ha fatto notare Nancy, l’uomo come eccezionale artefice di tecnologie e meraviglioso a sé stesso, fu pensato molto tempo fa da Sofocle nella sua ode all’uomo. Analogamente, diversamente dal tempo della natura, gli esseri umani si preoccupano di questo momento, che deve condurre al successivo con la sensazione che noi siamo gli abbandonati: coloro che sono condannati a chiedere “il perché” del loro esistere ma senza avere i mezzi per chiedere. O, come precisava Nancy in una lettera privata, ‘abbandonati da nulla’. Il potere di questo “essere abbandonati” è diverso dagli abbandoni rappresentati dall’assenza di cose particolari le une rispetto alle altre. Questo essere abbandonati esige, come abbiamo visto in Deleuze, che ci si prenda cura di ogni vita in quanto preziosa, pur sapendo al contempo che nelle comunità degli abbandonati possiamo sperimentare la chiamata della vita individuale abbandonata di cui noi soli possiamo prenderci cura. Altrove abbiamo chiamato l’esperienza di questa chiamata dell’abbandonato, e la possibile nascita della sua comunità dalla metafisica e l’ipofisica, ‘anastasis’[7]

Tradotto dall’inglese da Fiorenza Conte. A cura dell’European Journal of Psychoanalysis.


[1] Per pura coincidenza, il nome del virus è ‘corona’, la metonimia della sovranità.

[2] Il che ovviamente è stato percepito come una non-scelta da quasi tutti i governi dopo il 2001 per rendere sicuri tutti i rapporti sociali in nome del terrorismo. La tendenza importante in questi casi è che la securizzazione dello stato è proporzionata alla aziendalizzazione di quasi tutte le funzioni dello stato.

[3] Si veda, Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, 2005.

[4] Si veda, Gilles Deleuze, Immanenza: una vita, Mimesis, 2010.

[5] È assurdo attribuire un interesse a un micro-organismo, e i chiarimenti a questo proposito potrebbero occupare più spazio di quanto concesso per questo intervento. Oggi è altrettanto impossibile determinare l’“interesse dell’uomo”

[6] Da notare che i “virus” esistono sulla linea critica tra vivente e non-vivente.

[7] Shaj Mohan, Divya Dwivedi, Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, prefazione di J.-L. Nancy, Londra, 2019.


India has for long been full of exceptional peoples, making meaningless the notion of “state of exception” or of “extending” it. Brahmins are exceptional for they alone can command the rituals that run the social order and they cannot be touched by the lower caste peoples (let alone desired) for fear of ritualistic pollution. In modern times this involves separate public toilets for them, in some instances. The Dalits, the lowest castes peoples too cannot be touched by the upper castes, let alone desired, because they are considered the most ‘polluting’. As we can see, the exception of the Brahmin is unlike the exclusion of the Dalit. One of the Dalit castes named “Pariah” was turned into a ‘paradigm’ by Arendt, which unfortunately lightened the reality of their suffering. In 1896, when the bubonic plague entered Bombay, the British colonial administration tried to combat the spread of the disease using the Epidemic Diseases Act of 1897. However, caste barriers, including the demand by the upper castes to have separate hospitals and their refusal to receive medical assistance from the lower caste peoples among the medical personnel, added to causes of the deaths of more than ten million people in India.

The spread of coronavirus[1], which has infected more than 100,000 people according to official figures, reveals what we wonder about ourselves today—are we worth saving, and at what cost? On the one hand there are the conspiracy theories which include “bioweapons” and a global project to bring down migration. On the other hand, there are troublesome misunderstandings, including the belief that COVID-19 is something propagated through “corona beer”, and the racist commentaries on the Chinese people. But of an even greater concern is that, at this con-juncture of the death of god and birth of mechanical god, we have been persisting in a crisis about the “worth” of man. It can be seen in the responses to the crises of climate, technological ‘exuberance’, and coronavirus.

Earlier, man gained his worth through various theo-technologies. For example, one could imagine that the creator and creature were the determinations of something prior, say “being”, where the former was infinite and the latter finite. In such a division one could think of god as the infinite man and man as the finite god. In the name of the infinite man the finite gods gave the ends to themselves. Today, we are entrusting the machine with the determination of ends, so that its domain can be called techno-theology.

It is in this peculiar con-juncture that one must consider Giorgio Agamben’s recent remark that the containment measures against COVID-19 are being used as an “exception” to allow an extraordinary expansion of the governmental powers of imposing extraordinary restrictions on our freedoms. That is, the measures taken by most states and at considerable delay, to prevent the spread of a virus that can potentially kill at least one percent of the human population, could implement the next level of “exception”. Agamben asks us to choose between “the exception” and the regular while his concern is with the regularization of exception.[2] Jean-Luc Nancy has since responded to this objection by observing that there are only exceptions today, that is, everything we once considered regular is broken-through[3]. Deleuze in his final text would refer to that which calls to us at the end of all the games of regularities and exceptions as “a life”;[4] that is, one is seized by responsibility when one is confronted with an individual life which is in the seizure of death. Death and responsibility go together.

Then let us attend to the non-exceptionality of exceptions. Until the late 1800s, pregnant women admitted in hospitals tended to die in large numbers after giving birth due to puerperal fever, or post-partum infections. At a certain moment, an Austrian physician named Ignaz Semmelweis realized that it was because the hands of medical workers carried pathogens from one autopsy to the next patient, or from one woman’s womb to the next’s, causing infections and death. The solution proposed by Semmelweis was to wash hands after each contact.  For this he was treated as an exception and ostracized by the medical community. He died in a mental asylum suffering from septicemia, which resulted possibly from the beating of the guards. Indeed, there are unending senses of exceptions. In Semmelweis’ case, the very technique for combating infection was the exception. In Politics, Aristotle discussed the case of the exceptional man, such as the one who could sing better than the chorus, who would be ostracized for being a god amongst men.

There is not one paradigm of exception. The pathway of one microbial pathology is different from that of another. For example, the staphylococci live within human bodies without causing any difficulties, although they trigger infections when our immune system response is “excessive”. At the extreme of non-pathological relations, the chloroplasts in plant cells and the mitochondria in the cells of our bodies are ancient, well-settled cohabitations between different species. Above all, viruses and bacteria do not “intend” to kill their host, for it is not always in their “interest”[5] to destroy that through which alone they could survive. In the long term—of millions of years of nature’s time—”everything learns to live with each other”, or at least obtain equilibria with one another for long periods. This is the biologist’s sense of nature’s temporality.

In recent years, due in part to farming practices, micro-organisms which used to live apart came together and started exchanging genetic material, sometimes just fragments of DNA and RNA. When these organisms made the “jump” to human beings, disasters sometimes began for us. Our immune systems find these new entrants shocking and then tend to overplay their resources by developing inflammations and fevers which often kill both us and the micro-organisms. Etymologically “virus”[6] is related to poison. It is poison in the sense that by the time a certain new virus finds a negotiated settlement with human animals we will be long gone. That is, everything can be thought in the model of the “pharmakon” (both poison and cure) if we take nature’s time. However, the distinction between medicine and poison in most instances pertains to the time of humans, the uncanny animal. What is termed “biopolitics” takes a stand from the assumption of the nature’s temporality, and thus neglects what is disaster in the view of our interest in – our responsibility for – “a life”, that is, the lives of everyone in danger of dying from contracting the virus.

Here lies the crux of the problem: we have been able to determine the “interests” of our immune systems by constituting exceptions in nature, including through the Semmelweis method of hand washing and vaccinations. Our kind of animal does not have biological epochs at its disposal in order to perfect each intervention. Hence, we too, like nature, make coding errors and mutations in nature, responding to each and every exigency in ways we best can. As Nancy noted, man as this technical-exception-maker who is uncanny to himself was thought from very early on by Sophocles in his ode to man. Correspondingly, unlike nature’s time, humans are concerned with this moment, which must be led to the next moment with the feeling that we are the forsaken: those who are cursed to ask after “the why” of their being but without having the means to ask it. Or, as Nancy qualified it in a personal correspondence, “forsaken by nothing”. The power of this “forsakenness” is unlike the abandonments constituted by the absence of particular things with respect to each other. This forsakenness demands, as we found with Deleuze, that we attend to each life as precious, while knowing at the same time that in the communities of the forsaken we can experience the call of the forsaken individual life which we alone can attend to. Elsewhere, we have called the experience of this call of the forsaken, and the possible emergence of its community from out of metaphysics and hypophysics, “anastasis”.[7]   


[1] Coincidently, the name of the virus ‘corona’ means ‘crown’, the metonym of sovereignty.

[2] Which of course has been perceived as a non-choice by most governments since 2001 in order to securitize all social relations in the name of terrorism. The tendency notable in these cases is that the securitization of the state is proportionate to corporatization of nearly all state functions.

[3] See L’Intrus, Jean-Luc Nancy, Paris: Galilée, 2000.

[4] See “L’immanence: une vie”, Gilles Deleuze, in Philosophie 47 (1995).

[5] It is ridiculous to attribute an interest to a micro-organism, and the clarifications could take much more space than this intervention allows. At the same time, today it is impossible to determine the “interest of man”.

[6] We should note that “viruses” exist on the critical line between living and non-living.

[7] In Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, Shaj Mohan and Divya Dwivedi, foreword by Jean-Luc Nancy, London: Bloomsbury Academic, 2019.

Immagine di copertina: Segregation Camp, Bombay, ca. 1903 © PaperJewels.org

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