Curon/Graun, decostruzione di un’immagine

11/03/2020

In Trentino Alto Adige un campanile romanico spunta dalle acque di un lago: in alcuni periodi dell’anno l’acqua è ghiacciata e si può passeggiare intorno all’edificio trecentesco. L’immagine del campanile, con lo specchio d’acqua circondato dalle cime innevate, è una delle icone della montagna, una cartolina che caratterizza una location.

A volte un’immagine si fissa nella mente diventando il simbolo di un contesto, colonizzando e plasmando il nostro immaginario, collettivo e sociale. Anche per chi non è mai stato al Lago di Resia, in Val Venosta, quella del campanile che spunta dall’acqua è un’immagine poeticamente suggestiva, che evoca una storia ignota e paesaggi dimenticati, e al tempo stesso pubblicitaria.

Quel campanile è diventato il totem del territorio, imponendosi nella memoria e rimuovendo il contesto storico che l’ha generato. Lo sfondo perfetto per farsi un selfie ai tempi delle vacanze digitali e per le copertine di libri, come quella di Resto qui di Marco Balzano (Einaudi, 2018), o ancora di riviste, cataloghi o guide turistiche. Potrebbe essere una rappresentazione surrealista, l’oggetto è decontestualizzato per una nuova chiave di lettura, e capace al tempo stesso, come si dice ai tempi del marketing, di creare l’effetto wow, ovvero l’elemento sorpresa che rende un’esperienza indimenticabile.

Il potere che attribuiamo alle immagini è però accidentale: fa parte di quelle conoscenze in cui ci imbattiamo casualmente, ma che modellano e organizzano la nostra percezione del mondo. Ma come de-costruire una immagine così profondamente sedimentata?

Cambiare significato a un’immagine riconosciuta socialmente, uscire da quel “torpore” immaginifico, è un procedimento complesso che la compagnia OHT, Office for a Human Theatre, intraprende con Curon/Graun (2018), coprodotto dall’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento in collaborazione con Centrale di Fies, arrivato a fine gennaio 2020 al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano. 

Utilizzando un collage di brani del compositore estone Arvo Pärt, gli elementi dell’orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, sistemati in platea, accompagnano le tre fasi dello spettacolo.

La prima narra attraverso didascalie proiettate su uno schermo nero la nascita del bacino artificiale: tra le due guerre mondiali inizia la progettazione delle dighe per la produzione di energia elettrica. La Montecatini voleva unire i laghi di Resia e di Mezzo, dando vita all’invaso artificiale più grande della provincia di Bolzano: questo avrebbe  comportato la sommersione di 523 ettari di terreno coltivato e di 163 case dell’antico abitato di Curon. Le proteste della popolazione, l’udienza dal Papa del parroco del paese, la seconda Guerra Mondiale: niente ha impedito che nel 1950 la diga venisse costruita. Così l’intero borgo antico è stato raso al suolo, fatta eccezione per il Campanile della Chiesa di Sant’Anna, salvato dal vincolo della Soprintendenza ai Beni Culturali. Il paradosso è evidente: per la legge italiana un bene artistico e storico non si può abbattere ma si può sommergere. La presa di posizione dei Beni Culturali è un segno politico, che dà forma all’indignazione che una comunità e l’intera società provano davanti ad aree archeologiche distrutte, paesaggi sfigurati, o zone di guerra deturpate: si vorrebbe che l’arte e la bellezza restassero al di sopra, o al di fuori, delle scelte economiche, industriali, tecniche e politiche. Demolire il campanile significava distruggere del tutto la memoria storica del territorio, già messa ampiamente a rischio.

Finita la narrazione in stile power point, il telo nero si alza lasciando spazio a uno schermo con la video proiezione dell’immagine del campanile, primo e unico protagonista in scena. Inizia a piovere, una pioggia prima leggera che diventa tempesta e che sommerge il campanile e il deserto che gli sta attorno. La catastrofe ha mutato i lineamenti del paesaggio dandogli una nuova immobilità, trasformando l’icona del luogo in feticcio.

Si entra così nella terza fase dello spettacolo in cui una potente evocazione ricreata grazie al tintinnabuli di Pärt – il suono che contraddistingue l’opera del compositore dalla fine degli anni Settanta e che ricorda i battiti delle campane – nonostante l’acqua e la desolazione, dà voce alla tragedia di quei luoghi che ora lo schermo inizia a inquadrare: montagne alte, innevate, che costeggiano la diga. Le proiezioni lasciano infine spazio al modellino del campanile posto in una teca di vetro che seppur sommerso acquista la forza del simulacro, testimonianza di una memoria che non si arrende.

In questo modo OHT, fondata nel 2008 da Filippo Andreatta, che si occupa di architettura e paesaggio, con lavori sul concetto di confine e margine, cerca di abbattere il pregiudizio dell’immagine imposta dalla cartolina, provando a rimodellare l’immaginario del campanile attraverso la sua resistenza, sociale, artistica e politica, di fronte all’avanzata della potenza economica delle imprese. In una simbiosi tra morte e bellezza, quel modellino finale tenta di chiudere il cerchio della de-costruzione, in una operazione che unisce impatto estetico e politico, trasformando l’immagine in pensiero critico.

Giulia Alonzo

Dottoranda in Sociologia all'Università di Bologna, è particolarmente interessata alla ricezione e alla simbologia delle opere d'arte nella società contemporanea. Studiosa di arti visive e spettacolo dal vivo, collabora con diverse testate di teatro e arte (exibart, Doppiozero, ateatro). Nel 2017 ha pubblicato il suo primo saggio, “Dioniso e la nuvola. L'informazione e la critica teatrale in rete: nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici” (con Oliviero Ponte di Pino, edito da FrancoAngeli). È attualmente impegnata nello sviluppo del portale trovafestival.com, la cultura in movimento.

English
Go toTop