Chiudere il cerchio
A chiudere il cerchio delle sue ricerche su Primo Levi, Laura Barile – appassionata di peregrinazioni e sradicamenti (fra i tanti altri un titolo della scrittrice, Le Frontiere del Caucaso del 2013, e uno della studiosa, Oltreconfine del 2008) – non poteva non confrontarsi col libro, di Levi, che alle proprie «radici» sin dal titolo è dedicato. Pubblichiamo la conferenza da lei tenuta lo scorso 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, all’Accademia «La Colombaria» di Firenze: un discorso che si presta, ad Antinomie, in virtù della singolare struttura argomentativa del libro del 1981 che illustra. Non mi pare infatti che La ricerca delle radici, pur nell’importanza sempre maggiore che giustamente gli viene riconosciuta, sia stato finora preso in esame a partire dal «grafo» col quale inizia il libro che a tutti gli effetti lo commenta.
Mostre recenti dedicate a Levi (ma già la copertina – e il titolo – di un libro importante come quello di Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015: si vedano qui le pp. 359-60) hanno richiamato l’attenzione sull’interesse di Levi per le immagini, in generale, e in particolare per le maschere in filo di rame che lo scrittore-centauro realizzava in forma animale, e con le quali nell’86 lo immortalò il fotografo Mario Monge in una serie di scatti tanto affettuosi quanto sottilmente perturbanti. Una di queste maschere, quella da gufo, disse Levi che era il suo «autoritratto» (nella dedica a Gina Lagorio di un altro suo libro, L’altrui mestiere del 1985, che in copertina aveva tre gufi disegnati dallo stesso Levi al computer, nel cui uso fu com’è noto un pioniere: cfr. Album Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Domenico Scarpa, Einaudi 2017, p. 239):

In almeno un’occasione – il racconto fortemente kafkiano La bestia nel tempio, del ’77, quattro anni dopo raccolto in Lilìt e altri racconti – Levi ha inserito in un proprio testo un disegno che non si può considerare mera illustrazione, ma parte effettiva della sua diegesi: la figura “impossibile”, à la Escher (o più precisamente à la Magritte), che simboleggia forse la condizione aperta e insieme reclusa in cui ha vissuto e operato dopo Auschwitz:

Ma come dicevo non si è riflettuto a sufficienza, mi pare, sulla figura-cardine inserita nella Ricerca delle radici, il famoso «grafo» che da un lato mostra performa l’inclinazione di Levi al manuale tecnico-scientifico (alla stregua del «Gatterman» che figura tra le «radici» rivelate dalla pianta-scrittore) e, dall’altro, colla sua struttura approssimativamente circolare e la suddivisione in “meridiani”, rinvia a una forma-mondo. Un mondo che inizia dal dolore (Giobbe) e sprofonda, infine, nella morte (Buchi neri).
Andrea Cortellessa
Cos’è un classico? A questa eterna domanda Calvino rispondeva che classico è l’autore che continua a parlarci attraverso i secoli. Tale è Primo Levi, anche in un libro meno noto ma di grande interesse e divertimento, che qui tentiamo di avvicinare nel suo complesso: una scelta di trenta brani di libri amati, La ricerca delle radici, che esce da Einaudi nel 1981, col sottotitolo Antologia personale[1]. Un libro autobiografico che disegna nella scelta e nei brevi “cappelli” un autoritratto: e insieme, il ritratto di ciò che l’autore di Se questo è un uomo riteneva essere il proprio dell’uomo[2].
Nella Prefazione Levi si dichiara un adepto dell’«innocente vizio» ebraico della lettura. Questa scelta è un esperimento incruento, aggiunge: «perché placet esperiri e per vedere l’effetto che fa»[3]. C’è il chimico che è in Levi in questa passione e curiosità per l’esperimento, nonché il suo interesse antropologico. Il campo di Auschwitz nel suo libro maggiore è osservato e raccontato come l’orribile esperimento che effettivamente fu: «una gigantesca esperienza biologica e sociale»[4].
Ma la lucidità sperimentale dello scienziato è sopraffatta dallo scrittore che è in Levi, assieme e oltre al chimico. E lo scrittore fa emergere in questo esperimento tutto un suo “ecosistema” viscerale («saprofiti, uccelli diurni e notturni, rampicanti, farfalle, grilli e muffe»). La ricerca delle proprie radici è infatti «opera notturna» che, confessa l’autore, finisce per esporlo più «nudo» che nei libri in proprio: gli amori più profondi, come Rabelais, Belli, Porta e Conrad, sono «i meno giustificati». E poi le fonti della scrittura sono molte: per prima l’esperienza.
Cosa dunque mette a nudo questo libro? Mette a nudo un campo di tensione irrisolta fra ricerca scientifica e ricerca del senso: la tensione fra capire come è fatta la materia e capire il perché del male e della violenza. Un curioso «grafo» dall’aspetto semi-scientifico apre il libro. Rappresenta i due poli di questa tensione, congiunti da quattro meridiani: e tematizza la domanda che sta al cuore del conflitto del ventesimo secolo. In matematica il grafo è una configurazione formata da un insieme di punti (vertici o nodi) e di linee che uniscono coppie di vertici, che per la teoria dei grafi consente di risolvere problemi anche nelle scienze applicate: schematizza infatti l’insieme di relazioni sequenziali che legano tra loro varie attività[5].

Il grafo, disse Levi alla radio il 7 gennaio 1985 a Alberto Gozzi, «era uno scherzo, un tentativo di conglomerare in un’immagine alcuni itinerari umani». Con l’usuale leggerezza ironica, il chimico e scrittore Levi disegna così attraverso i libri il conflitto drammatico enunciato nel meridiano l’uomo soffre ingiustamente: e propone due itinerari di salvezza nei meridiani la salvazione del riso e la salvazione del capire; e infine in quello della fiducia nella Statura dell’uomo.
Al polo superiore è GIOBBE: il Libro di Giobbe apre l’antologia nella traduzione di Ceronetti, cappello Il giusto oppresso dall’ingiustizia. Sono le pagine della contesa «disuguale» di Giobbe con Dio, «Giobbe il giusto», scrive Levi, «degradato ad animale da esperimento» (!): frase che spalanca forse anche al di là delle intenzioni un vertiginoso parallelo con l’esperimento Auschwitz e gli esperimenti ivi commessi su uomini degradati a animali.
Iob dopo questo apre la bocca
E il suo giorno maledice…
E quindi, in un crescendo di disperazione per l’incomprensibilità del male che Dio gli infligge, chiede al creatore dell’uomo: «perché mi adoperi come un bersaglio / E fai di me il centro del tuo tiro?». Ed ecco la potente e terrificante risposta divina:
E rispondendo a Iob in un turbine il Signore dice
Chi è quell’uomo che con parole insensate oscura
I disegni divini?
Prendi le armi come un guerriero
Io faccio le domande tu insegnami
Quando fondavo la terra tu dov’eri?
Eccetera. Ma alla domanda delle domande racchiusa in «questa storia splendida e atroce», dice Levi, l’uomo continuerà sempre a cercare una risposta: perché «ne ha bisogno per vivere, per capire sé stesso e il mondo».
Al polo inferiore i BUCHI NERI (ormai visti in fotografia). Il testo dell’astrofisico Thorne è introdotto dal cappello Siamo soli in cui Levi rivendica la nobiltà dell’uomo, piccolo, debole e solo in un universo «ostile, violento, strano» (tipica terna leviana). L’uomo infatti «osa sillogizzare» sui primi momenti della creazione, sulla nascita del mondo: e se la mente umana ha concepito i buchi neri, «perché non dovrebbe saper debellare la paura, il bisogno e il dolore?» È la risposta alla sfida biblica («tu dov’eri?»): e la nobiltà dell’uomo sta nell’arditezza del suo pensiero, in grado di sconfiggere il male. E tuttavia… tuttavia l’ambiguità è il sigillo dello statuto letterario delle pagine di Levi, che accolgono invece anche ciò che razionale non è: la paura appunto, il bisogno, il dolore[6].
All’interno del libro i trenta autori scelti (ognuno dei quali solleciterebbe un ben più ampio discorso) non sono dati in ordine cronologico, ma – messi a reagire fra loro come elementi chimici col gusto degli «accostamenti impossibili» – seguono l’ordine in cui l’autore li lesse. Nella linea l’uomo soffre ingiustamente che riprende il tema di Giobbe, spiccano per la bellezza della traduzione di Levi stesso due Cori di Assassinio nella cattedrale di Eliot («Pulite l’aria! sciacquate il cielo! lavate il vento! smurate / pietra da pietra e lavatele tutte. / La terra è infetta, l’acqua è infetta …»). Si introduce poi l’autore de L’armata a cavallo Isaac Babel’ con una domanda etica per Levi ineludibile, e che andrebbe posta oggi di fronte a tanta produzione pseudoartistica: «fino a che punto è lecito sfruttare letterariamente la violenza?» Quando è che diventa sadismo, estetismo, prostituzione «a un certo pubblico»? Babel’ è al limite: lo salva la sua pietà, «che è vereconda e si veste d’ironia» – come quella di Levi.
Segue la splendida poesia Todesfuge di Celan, Fuga di morte strutturata sulla fuga musicale, che non si può leggere senza un profondo turbamento e che Levi, proseguendo la metafora botanica del titolo, dichiara di portare in sé «come un innesto». Innesto, non radice: perché la tormentata e oscura scrittura di Celan contraddice in pieno la regola leviana dello «scrivere chiaro» in funzione della comunicazione (complessa questione come sappiamo: ma quanto a Celan, come è stato detto in modo convincente, non scrive dopo Auschwitz, scrive con quelle stesse ceneri). Chiude la serie Rigoni Stern, amico di Levi e a lui simile nell’essere stato «giramondo poliglotta non per scelta ma per destino», nonché, aggiungiamo, nella passione per la montagna.
I due meridiani esterni suggeriscono i libri per la salvezza. Il primo, la salvazione del riso, apre con Rabelais: titolo del cappello una sua citazione, Meglio scrivere di riso che di lacrime (che prosegue perché il riso è il proprio dell’uomo. E ricordiamo un’altra citazione in epigrafe a Storie naturali). Levi lo ama fin da ragazzo, per la sua essenza ibrida e multiforme in cui si riconosce: «monaco, medico, filologo, naturalista, umanista e viaggiatore», per metà autore di «robuste buffonate» epico-popolari e «per metà intriso dell’energia morale di un grande intellettuale del Rinascimento», Rabelais, come gli autori che seguono, è un grande innovatore del linguaggio. È lo stile «incoerente, capriccioso, multicolore, pieno di sorprese» di Rabelais che scatena il riso – e pensiamo allo straordinario umorismo nell’opera di Levi stesso, o al suo riso ingenuo, al suo gusto del ridere e della stramberia come ne L’aria congestionata (per condizionata), irresistibile capitoletto filologico sulle false etimologie popolari ne L’altrui mestiere.
Quanto al Belli, riesce a trascrivere «fino all’illusionismo acustico» le voci della plebe di Roma, senza mai prendere la parola e dire «io». E qui di nuovo ecco il tema della Creazione e del peccato originale. Con una folgorante terna di aggettivi Levi sceglie infatti per primo «l’atto creativo conglobato con il Peccato Originale in un raccourci anacoluto, barocco e tragico» nel sonetto La creazzione der monno:
L’anno che Gesucristo impastò er monno […]
Me scordavo de dí che creò l’omo,
E coll’omo la donna, Adamo e Eva;
E je proibí de nun toccaje un pomo.
Ma appena che a magnà l’ebbe viduti,
Strillò per dio con cuanta voce aveva:
«Omini da viení, sète futtuti».
Anche in Porta il dialetto «fluido, nativo, mimetico», coincide col ritratto di chi lo parla. I suoi personaggi sono dei piccoli Giobbe, osserva Levi con un dantismo[7], «una buona stoffa umana che, come altrui piace, viene logorata, lacerata e infine fatta a brandelli» (mio il corsivo). Altrui. Le meridiane dunque si intersecano – l’ordine non è ferreo, la pietà si mescola al riso, il riso allo sdegno, e a un sillogizzare con un Dio che non c’è.
Anche il protagonista del romanzo di Shalóm Alechém, Storia di Tewie il lattivendolo, un classico dell’ebraismo orientale in lingua yiddish uscito da Formiggini nel 1928, è «un altro giusto che accetta il male, ma non è un rassegnato». Ebreo diasporico, russo e ebreo, è dolorosamente diviso, con un destino di «spaccatura» in cui Levi si riconosce: anche lui ebreo ma italiano, «chimico, ma scrittore» come dice in quel 1981 a Giovanni Tesio. Tuttavia Tewie si arrovella col «coraggio dei patriarchi» della Bibbia: è Un loico indomito, come titola il cappello, eco della battuta sarcastica del diavolo a Guido da Montefeltro quando dopo morto lo strappa dalle mani di San Francesco, Inf. XXVII, 122-3: «… Forse / tu non pensavi ch’io loico fossi!», battuta che circolava fra gli studenti liceali della generazione di Levi (penso a mio padre che era del settembre ’17). Ma «Tewie non esiste più: lo hanno ucciso il gas di Auschwitz e i Lager di Stalin».
Dal lato opposto, il meridiano de la salvazione del capire. E notiamo che questa linea è interamente dedicata al sapere scientifico. Basta pensare alla presenza, ampiamente sottolineata dalla critica, di tre pagine del vecchio testo di Chimica Organica Pratica di Ludwig Gattermann nell’edizione tedesca del 1939, qui tradotte dallo stesso Levi, «consultate centinaia di volte» e «imparate quasi a memoria», nelle quali si celava per il ventiduenne Levi il primo nobile e «fermo richiamo alla responsabilità»: sono queste, dice infatti il titolo del cappello, Le parole del Padre. Nel capitolo Esame di chimica (al quale come si sa Levi dovette la vita) in Se questo è un uomo, la follia della situazione lampeggia nella reazione istintiva di Primo quando il biondo Doktor Pannwitz gli mostra il Gattermann: «e anche questo è assurdo, è inverosimile, che quaggiù, dall’altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in Italia, quarto anno, a casa mia».
Dalla chimica, scrive Levi in Idrogeno, «attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo». La chimica, scrive in Ferro, era anche un antidoto al fascismo: «erano cose chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali».
E dunque La natura di Lucrezio («Se avessi letto Lucrezio al liceo me ne sarei innamorato») apre la serie di autori della salvezza del «capire», con la sua ricerca e la sua candida fiducia a oltranza nei propri sensi e nella esplicabilità dell’universo, «la stessa degli atomisti moderni». Lo segue Darwin, che «dal groviglio estrae l’ordine», e Sir William Bragg con Vedere gli atomi, libro che con la sua «fiducia ingenua» decise a 16 anni il destino del mestiere di chimico di Levi, esercitato per trent’anni. La chimica, scrive in Potassio «conduceva al cuore della Materia, e la Materia ci era alleata appunto perché lo Spirito, caro al fascismo, ci era nemico […]. Dopo di essere stato ingozzato in liceo delle verità rivelate dalla Dottrina del Fascismo, tutte le verità rivelate, non dimostrate, mi erano venute a noia o in sospetto».
Ma il chimico non disdegna di esercitare la fantasia: anzi, «uno scienziato moderno deve avere fantasia», dichiara il cappello a Arthur C. Clarke, autore de Le frontiere del possibile. Sì alla fantascienza dunque, vedi i racconti dello stesso Levi, nonché nel meridiano statura dell’uomo Joseph-Henri Rosny ainé, fantascientifico all’indietro in La guerre du feu del 1911: il suo primo libro letto in francese, le cui pagine qui traduce lui stesso, e ne scriverà in occasione del film nel 1982[8].
Con gli strumenti del linguaggio e della scrittura («la ricerca della parola giusta»), Levi si è arrovellato negli anni per «capire» il lager – fino a I sommersi e i salvati, quarant’anni dopo il lager. È questa l’educazione del soffrire, vedi la lettera dell’ottobre 1984[9] a Rosanna Benzi, costretta nel polmone d’acciaio e autrice de Il vizio di vivere. Il tuo libro, le scrive Levi, pur raccontando una condizione umana estrema – non rattrista: «lo dico senza ironia, non tutti dispongono di un osservatorio privilegiato come il tuo e come (in misura ben minore) il mio …».
Perché quando la sofferenza ti viene addosso, è meglio avere coraggio e «cercare il poco di buono che può dare»: che può essere «la conoscenza della sofferenza stessa. Conoscere sé stessi e conoscere gli altri intorno a sé», come disse Levi a Daniela Amsallem nel luglio 1980. Il suo è l’ardore della conoscenza e dell’esperienza del mondo: come per Ulisse, né i doveri né gli affetti (Inf. XXVI, 97-99)
Vincer poter dentro a me l’ardore
Ch’ebbi a divenir del mondo esperto,
E delli vizi umani e del valore
Eccoci al meridiano più importante, statura dell’uomo: e qui sostiamo, totalmente sedotti dalle pagine di Giovinezza di Conrad (che l’alter ego Marlow, osserva Levi, esonera «dall’angoscia di dire “io”»). Raramente si leggono pagine così meravigliose sul mare, l’ardore della gioventù, la prova marinara da superare e il profumo della civiltà misteriosa e lontana dell’Oriente. Stanno a pari le pagine scelte da Moby Dick, assente nel grafo ma non nel libro, col ritratto di uomo «in grandezza naturale», come quello che questa raccolta viene disegnando: Starbuck, primo ufficiale della Pequod, capace di vincere lo spavento della lotta col mare senza mai perdere la sua nobiltà di uomo «pieno di pudore e di presentimento» (insolita dittologia che ci fa riflettere).
Né vogliamo tacere l’episodio dell’Odissea assente nel grafo, che segue a quello di Giobbe. Poema a misura umana, l’Odissea, ben diverso secondo Levi dall’«orgia di battaglie, piaghe e morti», dalla «guerra stupida ed eterna», e dalla «collera bambinesca di Achille» dell’Iliade, ahimè così simile a fatti e volti di oggi. È il brano in cui Ulisse, vinto il Ciclope, invece di scappar via in silenzio come lo spronano i compagni, torna indietro per gridargli con fierezza il suo nome di «uomo da nulla».
Ancora sulla statura dell’uomo le ultime pagine, tradotte da Primo Levi, di Menschen in Auschwitz di Hermann Langbein (1972, assente nel grafo), che cercano di «capire» i colpevoli (cappello: Per aiutare a capire). Langbein dichiara di tentare una «analisi spassionata delle reazioni umane nella situazione estrema di Auschwitz»: che forse, dice, sarà possibile solo alle prossime generazioni. Vuole capire, aggiunge Levi, «per quali vie l’uomo possa indursi ad accettare certi “doveri”»: «Il risultato sorprende: non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che è senza ritorno». È il grande tema della «zona grigia». Levi propose inutilmente questo libro a Einaudi e ne scrisse la prefazione per Mursia nel 1984.
Altro tocco è il «sobrio riserbo» con cui Marco Polo accenna a fatiche e pericoli nella sua “relazione” del viaggio in Cina, Il milione, dove le meraviglie sono descritte «col buon senso del mercante» e «la precisione divertita dell’uomo curioso» impegnato nella ricerca della conoscenza del mondo. Primo Levi crede nel riscatto dell’uomo: gli è estranea – o la teme! – la disperazione (e per questo, né Pavese né Dostoevskij). Il suo modello di scrittura è piuttosto la Relazione appunto, o addirittura come disse in una intervista alla radio nel 1982, il rapportino di fabbrica di fine settimana: ma risponde a «un’idea alta e nobile della vita dell’uomo sulla terra».
Per questo forse la scrittura di Saint-Exupéry, a distanza di anni, gli pare «manierata»: ma la sua sfida al cielo, il volo visto come «un modo nuovo per leggere l’universo» gli vale la presenza in questo meridiano, dopo Roger Vercel. Il cappello di Vercel (L’avventura tecnologica) avvicina «l’avventura umana nel mondo della tecnologia» al «misurarsi» di Conrad. Il misurarsi con le cose, con gli oggetti e anche con la tecnologia, è la nobiltà dell’uomo: e consiste nel lavoro. Consiste nel «fare», come l’operaio Faussone de La chiave a stella uscita proprio nel 1981, nel quale, dice Levi, è «trapiantato qualche gene del capitano Renaud». I brani da Remorques (“Rimorchiatori”) narrano due episodi di un rimorchiatore per i salvataggi in alto mare e del suo capitano, appunto Renaud. Questo fu il primo libro che Levi ebbe in mano al termine della pausa libraria, per così dire, di Auschwitz: letto, come scrive nelle ultime pagine di Se questo è un uomo, nella «notte spaventosa e decisiva in cui i tedeschi esitarono fra l’ucciderci e il fuggire, e decisero per la fuga»[10].
Vediamo infine Oro per alcune letture politiche fondanti: a ventitré anni «ci proclamavamo nemici del fascismo, ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici» (altra notevole tripletta). Ciascuno di noi faceva il suo lavoro giorno per giorno, fiaccamente, senza crederci, come avviene a chi sa di non operare per il proprio domani». Ma dopo lo sbarco in Nord Africa arriva il contatto con maestri che «ci dissero che la nostra beffarda indifferenza non bastava»: facendo i nomi di Gramsci, Salvemini, Gobetti, i Rosselli. «Chi erano? Esisteva dunque una seconda storia, una storia parallela a quella che il liceo ci aveva somministrato?» Come si sa, Levi fu arrestato come partigiano.
E vorremmo chiudere questo ritratto in piedi di «un uomo», fedele al sé stesso ragazzo, che non voleva rinunciare a una pacata ma ferma speranza nell’uomo, con un altro piccolo elenco privato del 1942 in occasione del trasferimento a Milano delle «poche cose che sentiva indispensabili» (Fosforo). Ecco quello che il giovane chimico e futuro scrittore decideva di portare con sé: «la bicicletta, Rabelais, le Macaroneae, Moby Dick tradotto da Pavese ed altri pochi libri, la piccozza, la corda da roccia, il regolo logaritmico e un flauto dolce».
[1] L’ultima edizione delle Opere complete di Primo Levi a cura di Marco Belpoliti (Einaudi 2016) promuove a pieno titolo questo «libro-chiave […] che in precedenza risultava in appendice e in corpo minore», scrive giustamente Andrea Cortellessa, Primo Levi, il doppio legame, «alfabeta2», 29 gennaio 2017.
[2] Sulle circostanze che dettero origine al libro cfr. l’introduzione di Marco Belpoliti, Le radici rovesciate, in Primo Levi, La ricerca delle radici, Einaudi 1997, VII-XVIII.
[3] Placet experiri è il motto di Petrarca che Settembrini ripete a Hans Castorp ne La montagna magica di Thomas Mann, autore presente nella Ricerca delle radici con Giuseppe e i suoi fratelli.
[4] Su questo rimando agli scritti su Levi del suo massimo critico Marco Belpoliti. Segnalo anche le sue ottime Note ai testi già presenti nell’edizione delle Opere di Levi uscita da Einaudi nel 1997, in particolare quelle relative a La ricerca delle radici e quella su Primo Levi traduttore nel vol. II.
[5] Cfr. Vocabolario della lingua italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani 1987, vol. II (D-L).
[6] Sul tema cfr. M. Belpoliti, Calvino, Levi e i buchi neri, «doppiozero», 27 agosto 2015
[7] Cf. la chiusa di Inf. XXVI, 139-42 col «turbo» che travolge la nave di Ulisse: «Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque; / Alla quarta levar la poppa in suso, / E la prora ire in giù, com’altrui piacque, / Infin che’l mar fu sopra noi richiuso”. Superfluo ricordare l’episodio con Pikolo in Se questo è un uomo. A domanda di Giovanni Tesio nel 1981 sull’assenza di Dante nella Ricerca, Primo risponde: «sarebbe stato come se in un documento d’identità, sul rigo “segni particolari” si scrivesse: “Due occhi”».
[8] Cfr. Marco Belpoliti, Primo Levi traduttore, in Primo Levi, Opere, Einaudi 1997, vol. II, p. 1586.
[9] In Il mondo di Rosanna Benzi, a cura di Saverio Paffumi, Aba Libri 2011
[10] Cfr. la bella Postfazione di Andrea Cortellessa a Roger Vercel, Tempesta, Nutrimenti 2103.