Patologie

06/03/2020

Del buon uso di sé

di Andrea Cortellessa

Non appena si è propagata, qui, quell’epidemia nell’epidemia che è stata la discussione originata dalla risposta di Jean-Luc Nancy a Giorgio Agamben – discussione alla quale, non per caso, abbiamo dato il titolo di un classico della retorica come Paradoxia Epidemica –, la prima persona alla quale abbiamo pensato è stata Antonella Moscati. Non tanto perché alla scrittura di Nancy, negli anni, ha dedicato traduzioni e curatele di grande sintonia, ma soprattutto perché nello stesso periodo ha brevettato (sull’esempio, ma non alla maniera, di quel capolavoro prima letterario che filosofico – se ha poi senso, distinguere le due categorie – che è L’intruso appunto di Nancy) un format in grado come pochi, oggi, di dire le cose giuste; ma di trovare, anche, le parole giuste per dirle.

Il primo testo di Moscati che mi colpì in tal senso mi arrivò inaspettato, diciamo pure clandestino, sulle pagine di «questipiccoli»: rivistina autogestita da un tipo da sempre votato alla clandestinità come Clio Pizzingrilli. Era il 2007 e quelle pagine s’intitolavano Il canale di Otranto. Pagine che, in tempi dal tema ancora non ossessionati come i nostri, sull’immigrazione – sui sentimenti contrastanti che evocava, sui dilemmi politici che poneva, e che sempre più si capiva avrebbe posto – mi parvero semplicemente perfette. Talché di pochi pezzi vado fiero, nella mia non invidiabile carriera di gazzettiere, come di quello che scrissi per segnalarlo su «La Stampa».

Specifico di Moscati è il suo calibratissimo tono: sospeso in equilibrio miracoloso – non so dire altrimenti che «perfetto», mi spiace se suoni retorico – fra il più “chiuso” ripiegamento autobiografico, che vale squisitamente e solo per sé, e la più “aperta” riflessione filosofica, che idealmente vale per tutti. È il tono che informa piccoli ma sicuri capolavori della nostra lingua come Una quasi eternità, Deliri e Una casa (tutti pubblicati da nottetempo). Le sue domande sono quelle che fa, da sempre, chiunque pensi scrivendo: chi siamo, che cosa ci appartiene, a cosa apparteniamo. Ma leggendo Patologie mi pare finalmente di capire da dove le venga, questo suo dono. È la malattia, e più precisamente quella malattia che è il timore di ammalarsi (l’ipocondria, che alla malattia pensa di continuo; o quell’ipocondria a rovescio – che ben conosco – che alla malattia si vieta fobicamente di pensare), a dare accesso nella sua scrittura all’interfaccia segreto, alla ghiandola pineale che supera l’eterno dualismo, imprecisamente detto “cartesiano”, fra mente e corpo, res cogitans e res extensa. Da Marco Aurelio a Leopardi, a cavallo di letteratura e filosofia, c’è una lignée di scritture che si fanno forza del corpo, e soprattutto del corpo che soffre, per conseguire una cognizione del dolore: dove il genitivo è almeno tanto soggettivo che oggettivo. Si conosce per mezzo del dolore, cioè, quando di quel dolore si cercano le ragioni: si cerca di farsene una ragione. E allora la scrittura – come con formula nicciana diceva, alla fine dei suoi giorni, Gilles Deleuze – diventa una grande «impresa di salute»: «un’irresistibile salute precaria».

Mentre scrivo queste righe, non senza turbamento, leggo un libro fresco di stampa. Lo ha scritto a sua volta dall’interno della malattia – una malattia ben più grave – uno scienziato, espressione di una cultura certo distante da quella di Antonella Moscati, Edoardo Boncinelli: che da tre anni, per un complesso insieme di patologie cardiache e respiratorie, “vive in fin di vita”. Il suo titolo, preso da Montale, è fuorviante. Essere vivi e basta, infatti, in realtà non basta. Come non può bastare leggere, come pure in questi anni ci è toccato fare (con sofferenza, in qualche caso, unita all’imbarazzo), analoghi diari di persone sofferenti: scritture che, di quella sofferenza, restano prigioniere senza appello. Tocca invece saper fare, come diceva Pascal, un buon uso delle malattie: l’uso di sé che queste parole sagge e insieme turbate, sagge in quanto turbate, mostrano di saper fare. Risponde a un caso che i testi di Boncinelli e Moscati vedano la luce proprio adesso. Ma è per questo, credo, che ci mostrano quello che tutti noi, oggi, da loro dovremmo imparare a fare.


Da noi, cioè nella nostra famiglia, qualunque malattia era mortale. Non perché avessimo una tara genetica, che so un’emofilia congenita, un’anemia mediterranea o un disturbo del sistema immunitario che ci avrebbe messo a rischio nel caso di qualunque malattia. Ma perché secondo noi, che una tara in verità ce l’avevamo, ma nel sistema nervoso e nei pensieri piuttosto che nel corpo, qualunque malattia poteva nascondere una malattia mortale. Qualunque malattia tranne la tonsillite che era inequivocabile per via delle sue placche e perché, come sempre diceva mio padre, reagiva bene agli antibiotici, almeno in quei tempi in cui ancora non si sapeva che gli antibiotici potevano creare la cosiddetta resistenza e quindi anche moltissimi germi che resistevano per l’appunto agli antibiotici stessi. Se, però, le placche erano molto grandi e un po’ scure, cioè un po’ grigie ed estese fino all’ugola, sotto un’apparente tonsillite si poteva nascondere la difterite, e dunque di nuovo una malattia mortale […]

Nostro padre era medico. Ma per noi non era un vero e proprio medico, soprattutto perché era dermosifilopatico e questo produceva non poca confusione. In primo luogo perché di questa specializzazione non si poteva parlare, men che meno a scuola, e noi, cioè noi sorelle e mia madre, preferivamo dire dermatologo, anche se mio padre non perdeva occasione per sottolineare la sua qualifica di dermosifilopatico, perché, come sempre diceva, lui della dermatologia se ne infischiava altamente, anzi addirittura l’odiava per via del fatto che tutti andavano a chiedergli come far scomparire i foruncoli o far ricrescere i capelli, e lui che era un uomo onesto e diceva sempre la schietta verità annunciava subito che non c’era nessuna medicina né contro l’acne né contro la caduta dei capelli con il prevedibile risultato che i clienti, o meglio i pazienti che evidentemente pazienti non erano, da lui non tornavano più. E in secondo luogo perché un medico di quel genere di malattie si sarebbe dovuto chiamare semmai dermosifiloiatra come pediatra e otorinolaringoiatra oppure dermosifilologo come cardiologo e neurologo e non dermosifilopatico come cardiopatico e psicopatico, un accostamento quest’ultimo che nel caso di mio padre non era improprio. Nostro padre, quindi, per noi non era un medico vero e proprio, ma una specie di medico non medico. E noi che eravamo le sue figlie volevamo seguirne le orme e diventare anche noi medici non medici, senza avere però né la laurea né tanto meno la specializzazione in dermosifilopatia, anzi in dermosifiloiatria. Soltanto la mia prima sorella non ha mai voluto diventare medico non medico, forse perché un medico lei l’ha trovato davvero e se l’è anche sposato.

Proprio perché era dermosifilopatico, cioè dermosifiloiatra, anzi sifiloiatra semplicemente e di preferenza, mio padre credeva solo nella guaribilità delle malattie che, come la tonsillite, la sifilide e la scabbia, si vedevano a occhio nudo. E di conseguenza la tonsillite, la sifilide e la scabbia erano per l’appunto le sue malattie predilette, ma in verità gli piaceva anche la blenorragia, che peraltro pure in qualche modo si vedeva, soprattutto perché con una sola iniezione di penicillina, al massimo retard, scompariva senza tracce. Mio padre, in effetti, si trovava a proprio agio soltanto fra batteri famosi e manifesti, come streptococchi, gonococchi, treponemi pallidi, mentre tutto il resto patologico era per lui avvolto nell’indistinto mistero. Inoltre aborriva le cosiddette – ma non da lui che mai nemmeno le nominava, bensì da mio zio materno anche lui medico ma più giovane o dal mio futuro cognato, medico ancora più giovane – forme virali. Anzi, mio padre neanche credeva che esistessero queste cosiddette forme virali, perché ai suoi tempi, cioè prima della guerra, nessuno le conosceva e quindi nessuno le studiava […]

L’influenza vera e propria, e non le pseudo influenze ovvero le cosiddette ma, come ho detto, non da lui, forme virali, era la grande nemica di mio padre che la considerava una delle peggiori malattie e non solo perché lui aveva sempre in mente la spagnola, ma soprattutto perché era convinto che l’influenza, come d’altronde dice la parola stessa, influisse su tutto e soprattutto sui suoi nervi che erano già di per sé a fior di pelle. E, infatti, come lui sempre diceva, una delle prime volte che aveva avuto un attacco di mente e di pensiero, cioè di nervi, non so se la prima o la seconda volta, la causa era stata proprio un’influenza. Quando aveva l’influenza, quindi, mio padre diventava molto suscettibile, ed era sicuro di morire o quanto meno di impazzire, tanto che recitava nel letto certe sue litanie e decine di volte al giorno chiamava urlando mia madre che, pur essendo molto paziente, finiva per spazientirsi anche lei.

Noi, come ho già detto e ripetuto, non eravamo vaccinate contro quasi niente. Avevamo fatto il vaccino contro il vaiolo, che a quell’epoca era obbligatorio, e avevamo tutte un cerchio rotondo sulle nostre braccia. Il mio però era quasi invisibile perché ero stata vaccinata una volta sola, da bambina così piccola che neanche me lo ricordo, e poi mai più. E di conseguenza ogni anno scolastico cominciava per me tra i tremori e le preoccupazioni per via di quel falso certificato di avvenuta vaccinazione contro il vaiolo, che dovevo presentare ogni anno. Eravamo anche state vaccinate contro la poliomielite, ma solo con il vaccino Salk, quello che s’iniettava – e mai con il nuovo il vaccino Sabin che era cosa molto più semplice per i bambini, perché si succhiava su una zolletta di zucchero. Inutile dire che a casa nostra regnava l’orrore per la cosiddetta trivalente, vaccino triplicato contro difterite, tetano e pertosse, che non era obbligatorio, ma fortemente consigliato dai pediatri, come dicevano le madri delle bambine della mia classe cui piaceva molto parlare di queste questioni vaccinali, come pure dei vantaggi della vitamina C. C’erano alcuni pediatri che andavano particolarmente di moda nel mio quartiere, quasi quasi fossero colori o articoli di abbigliamento o anche marche di lavatrici e televisioni, noi però non li conoscevamo, per via della testa complicata di mio padre e dei soldi che non avevamo, motivo questo secondo che in verità derivava dal primo. Mia madre se la cavava con un “mio marito è medico e decide lui”, e io mi sentivo una derelitta esclusa da quel mondo di vaccini, medici e vitamine di ultimo grido.

Mia sorella era guarita dalla difterite con le iniezioni di siero nella pancia, e anche a me, quando mi venne una specie di pertosse o tosse convulsa o canina che dir si voglia, furono fatte iniezioni di un certo siero, nel posto solito, però, vale dire nei glutei o sul sedere. In effetti non si capì mai, se si fosse trattato di pertosse vera e propria o di cosiddetta parapertosse. Fatto sta che molto più tardi, cioè a più di vent’anni, la mia nipotina di quattro anni mi passò una bella tosse, pertosse o parapertosse chissà, che mi durò tutta l’estate, con gli accessi che mi facevano vomitare ogni sera e il cosiddetto “tiro”, cioè una specie di sibilo che annuncia il soffocamento. Anzi proprio questo cosiddetto tiro era la prova dirimente che una tosse fosse pertosse vera e propria, tanto che ogni volta avevamo la tosse con sospetto di pertosse o tosse canina o convulsa che dir si voglia, dovevamo fare un sacco di esercizi di tosse provocata per capire se avevamo il tiro oppure no.

Alle elementari le mie compagne si ammalavano delle famose malattie esantematiche. Le malattie esantematiche erano di due tipi: esantematiche con nome, come morbillo, varicella, rosolia, o esantematiche numeriche, tipo quarta, quinta e sesta malattia. Se c’era un caso di questo genere di malattie nella mia classe, io a scuola non potevo andarci per timore del contagio. Qui devo aggiungere che mio padre e di conseguenza anche mia madre non consideravano la scuola come un obbligo, ma come un luogo dove si poteva andare solo quando si era in perfetta salute, in classe non circolava nessuna malattia e le condizioni climatiche o atmosferiche erano abbastanza clementi, quando non faceva tanto freddo, quando non pioveva né tirava vento forte. Tutti questi motivi mi avevano già escluso dall’asilo, che comunque a casa mia era malvisto perché era considerato luogo per bambini poveri e abbandonati, in altri termini come una specie di orfanotrofio, nonché dalla primina, e avevano anche fatto sì che in prima elementare, benché avessi l’età giusta per andare alla scuola pubblica, mi avessero messo in una scuola privata, perché nella scuola privata, come dice la parola stessa, c’erano meno bambini ­ – nella fattispecie cioè solo nove nella prima classe e dodici nella seconda – e di conseguenza meno possibilità di contagio di malattie che ovviamente aumentavano con il numero degli alunni. Il secondo motivo, che valeva però solo per mio padre di cui lei era la preferita, era quello che la mia sorella terzogenita, cioè quella della difterite, aveva avuto solo la varicella e non il morbillo, con la conseguenza che, se nella mia classe c’era un caso conclamato di morbillo o un caso dubbio di malattie simili, tipo rosolia o esantematiche numeriche, si toglieva me dalla scuola e si mandava mia sorella dai nonni che a quell’epoca abitavano al piano di sopra, perché ormai lei era adolescente e col morbillo avrebbe rischiato quasi tutto, cioè in effetti la vita. Il risultato di questi allontanamenti preventivi durante le classi elementari fu che io presi la varicella in prima media, con la febbre a quaranta, bruciori terribili, uso e abuso di talco mentolato, gli orecchioni nell’estate dei miei dodici anni, e il morbillo nelle vacanze di Pasqua della quarta ginnasio, quando avevo quasi quindici anni e sarei dovuta andare a Roma per uscire e magari sperimentare il primo bacio con un ragazzino che mi piaceva […]

La traduzione francese di Patologie, a cura di Caroline Chaniolleau, è uscita nel gennaio 2020 presso la casa editrice Arléa.

Immagine di copertina: George Silk, Salk Vaccination, 1955 © Time Inc.

Antonella Moscati

è nata a Napoli nel 1955. Vive tra Parigi e la Puglia. Si è formata in filosofia e ha tradotto opere di Schelling, Benjamin, Rosenzweig, Arendt, Foucault, Deleuze, Guattari, Nancy, Badiou. Tra i suoi libri: "Una quasi eternità" (nottetempo 2006), "Il canale di Otranto" (Quodlibet 2007), "Deliri" (2009), "Una casa" (nottetempo 2015) e "Pathologies" (Arléa 2020)

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