Il seme della norma

06/03/2020

Non è mia intenzione qualificare o quantificare la gravità del coronavirus: è più o meno grave di un’influenza; non si tratta affatto di un’influenza, bensì di un virus ben più pericoloso. Con il passare dei giorni, gli scenari più ottimistici stanno lasciando spazio a quelli più allarmanti. Le dichiarazioni di medici e scienziati si susseguono e si rincorrono quotidianamente e – a contagio in pieno corso – è difficile se non impossibile aspettarsi una presa di posizione unilaterale, chiara e netta. Come ormai è difficile se non impossibile, nelle dichiarazioni degli esperti, discernere il contenuto scientifico dalle indicazioni di ordine pubblico (ma non c’è da meravigliarsi, ci insegna Foucault).

A me sembra che il dibattito, aperto dall’articolo di Agamben, su «stato d’eccezione e coronavirus» – l’emergenza coronavirus comporta l’instaurarsi di uno stato d’eccezione? – sia stato e sia fortemente caratterizzato anch’esso da questa che è la premessa sottesa all’intero ordine del discorso sull’epidemia: appunto la gravità o meno del virus. Fosse il coronavirus paragonabile più o meno a un’influenza, allora le misure severe – limitazioni della mobilità, militarizzazione delle zone rosse, sospensione di alcuni diritti – che le istituzioni stanno prendendo per fronteggiarlo configurerebbero un “eccesso di governo” e quindi l’instaurazione di uno stato d’eccezione. Fosse invece il coronavirus più pericoloso e letale di un’influenza pure aggressiva, allora le misure che si stanno prendendo sarebbero proporzionate al caso, assolutamente “normali”.

Non intendo pormi su tale piano della questione – non solo non ho le competenze per esprimermi sulla virulenza del corona, ma per di più credo che così si manchi quella che è l’effettiva pertinenza della nozione di stato d’eccezione per comprendere quanto sta accadendo. Provo piuttosto a individuare – stando all’Italia – i modi diversi con cui le politiche che finora sono state attivate per far fronte all’emergenza dell’epidemia da coronavirus siano riconducibili alla nozione di stato d’eccezione.

All’esplodere dell’epidemia in Cina, abbiamo assistito a un primo ricorso allo stato d’eccezione, che definirei “sovranista”: innalzamento delle frontiere con la Cina, misure di controllo straordinarie e il conseguente verificarsi di episodi di discriminazione se non proprio di razzismo. Ora, il fallimento dell’opzione “sovranista” dello stato d’eccezione non è dipeso certo dal fatto che tali misure si siano rivelate troppo blande, come sostenuto dalle destre nostrane, quanto piuttosto dal fatto che, per sua natura, un’epidemia “sconfina” (detto tra parentesi, lo stesso discorso vale oggi, in epoca di globalizzazione, per il “contagio” delle crisi economiche, che non a caso – come già Marx sapeva – traggono il loro lessico dalla medicina e dalla epidemiologia in particolare).

Una volta che l’epidemia ha travalicato i confini nazionali e il contagio si sta diffondendo sul territorio italiano, sono scattate le misure straordinarie di contenimento e il loro inasprirsi nel momento in cui il contagio si sta diffondendo. Ed è a questo punto che il dibattito si è avviato – stato d’eccezione per una situazione più o meno normale oppure normale applicazione di protocolli previsti per una situazione eccezionale? Così posta la questione, ripeto, si dovrebbe risalire a una conoscenza provata e comprovata della gravità del coronavirus – questione ancora aperta. Eppure, non credo sia opportuno rinunciare del tutto alla nozione di «stato d’eccezione» per leggere almeno alcuni aspetti della crisi che stiamo attraversando. Non parlo tuttavia di quello stato d’eccezione – in misura maggiore o minore comunque “sovranista” – che si manifesta e si materializza in decreti d’emergenza giustificati dalla eccezionalità della situazione, reale o presunta. Parlo piuttosto dello «stato d’eccezione come regola», che si determina con il promuovere norme di condotta attraverso la percezione indotta di una situazione d’emergenza che si tende a cronicizzare.

Un esempio di stato d’eccezione come regola tra i più consueti che si possano portare è, sul piano del mercato del lavoro, la precarietà. La precarietà induce, rispetto a un mercato del lavoro in permanente crisi occupazionale, ad accettare condizioni di lavoro sempre più straordinarie ed eccezionali fino a che queste diventano la norma e sono regolamentate come tali. Per tornare al coronavirus, ma restando nell’ambito del lavoro, in questi giorni di «emergenza», sui media, mi è capitato spesso e da parte di esperti e professionisti di diversa appartenenza politica di ascoltare come misure eccezionali quali lavorare da casa e in remoto – cosa consigliata per evitare il contagio – possa diventare di qui a breve tempo una forma sempre più “normale” di lavoro. E così anche per quanto riguarda le lezioni a scuola e all’università. In questo caso, non si tratta affatto di decreti d’emergenza volti a limitare alcune libertà e diritti, bensì a rendere regola e norma alcune tendenze già previste. Qui non si tratta soltanto di limitare temporaneamente gli assembramenti e la socialità, ma di promuovere una trasformazione della società – già evidente peraltro – in direzione sempre più individualistica e atomistica, non solo diffidente e spaventata verso lo straniero o il diverso, ma anche verso il compagno/a di lavoro o di banco.

Insomma, all’interno della dinamica dello stato d’eccezione come regola, l’epidemia da coronavirus potrebbe legittimare e accelerare trasformazioni già prevedibili e in corso. Quelle norme di condotta che il coronavirus rende oggi “obbligate” potrebbero poi diventare “normali”. Non credo vada ricercato lo stato d’eccezione come regola nei protocolli sanitari “eccezionali” a cui ci stiamo attenendo, piuttosto va ricercato il profilarsi dello stato d’eccezione come regola in quel seme di normalità che si cela in quelle norme e condotte che oggi si presentano come obbligate.   

Immagine di copertina: Edvard Munch, Sera. Melancolia I, 1896, © Munch-museet/Munch -Ellingsen Gruppen/Bono

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