Mai avrei pensato che i miei ricordi di un’infanzia ormai lontanissima potessero conoscere una forma di attualità.  Né tantomeno che quella che ho sempre considerato un’idiopatia familiare potesse toccare qualcosa d’interesse generale. Evidentemente al fondo dei nostri ricordi, così come al fondo dei nostri pensieri, c’è sempre una scheggia che può risuonare negli altri, in altri tempi e in altri luoghi.

Vorrei comunque premettere a questi estratti di pagine scritte in tutt’altro contesto, profondamente ignaro di futuro, qualche considerazione sulle vicende legate a questa che ormai è davvero una pandemia, alla quale la mia inguaribile ipocondria non può non guardare che con profonda preoccupazione e morboso interesse.

Curiosamente, però, forse perché anche il più buio tessuto delle angosce, dei catastrofismi e delle proiezioni pessimistiche, si può tingere di un timido barlume di luce, fin da principio la nuova congiuntura determinata dall’epidemia di coronavirus mi ha suggerito pensieri, che pur non potendo definire positivi, servivano a vedere le cose da un punto di vista non solo catastrofico. Come se in questa pandemia ci fosse qualcosa di rivelatore che sospendeva per un momento, metteva in epoché mi verrebbe da dire, alcune convinzioni e credenze, atteggiamenti, comportamenti e abitudini nostre e del mondo, che credevamo impossibili non solo da cambiare ma perfino da mettere semplicemente in dubbio. E questo non è solo un male.

Colpiscono, per esempio, le immagini della Nasa che mostrano il cielo sopra Wuhan, per la prima volta, chissà dopo quanto tempo, di colore azzurro. Forse i bambini e gli adolescenti di Wuhan neanche sapevano, se non per sentito dire, che il cielo potesse avere quel colore e che gli orizzonti potessero dipingersi di paesaggi e montagne e non solo di nebbie confuse. Il calo di C02 è stato veloce e improvviso, come mai nessun accordo internazionale, strappato a fatica alle fauci di un’economia che è disposta a tutto in nome di profitto e crescita, avrebbe potuto ottenere, e forse nemmeno immaginare.

Colpisce il fatto che la pandemia rivela, come un oracolo spietato, che gli autentici problemi cui siamo oggi confrontati sono problemi del mondo e che si possono affrontare solo al livello del mondo. E che un’economia globalizzata che convive con gestioni particolari e sempre più particolaristiche della cosa pubblica non può essere un modello universale oltre il quale neanche i nostri pensieri, per non dire le nostre realtà, possono spingersi.

Colpisce il fatto che, per un momento, che forse sarà breve ma che comunque ci potrà essere d’insegnamento se sapremo approfittarne, si è strappata la certezza che l’economia sia il principio di regolazione del mondo, che non solo le politiche statali, ma perfino comportamenti o i processi mentali singolari siano mossi e regolati dalle logiche del profitto. 

Colpisce il fatto che ad ammalarsi siano stati ricchi e poveri, anzi spesso i ricchi primi dei poveri, i frequentatori di crociere costosissime prima degli abitanti delle periferie povere delle grandi città, i manager prima degli impiegati e talvolta quelli che in Francia si chiamano, con un’espressione che non riesco a non trovare ironica, les élus, cioè i governanti prima dei governati.

Colpisce il fatto che stiamo pagando e pagheremo le politiche europee di tagli alla ricerca, alle spese sanitarie, al numero dei medici e degli infermieri, nonché l’ottuso rifiuto dei paesi membri di uniformare e coordinare le formazioni universitarie e i sistemi sanitari, che adesso saranno chiamati a mostrare i loro punti forti e i loro punti deboli, in una comparazione, forzatamente necessaria, alla quale nessun paese europeo, chiuso nella sua idiozia nazionale, aveva mai voluto dedicare la benché minima riflessione. Mentre contemporaneamente si rivela la scelleratezza della scelta delle case farmaceutiche europee e americane che hanno spostato l’intera produzione delle materie prime in Cina e in India, dove non solo la mano d’opera è meno cara, ma dove soprattutto non ci sono leggi che limitino l’inquinamento. Prima ancora che gli antibiotici diventino inefficaci per la produzione di batteri resistenti, saremo confrontati con il fatto che gli antibiotici mancheranno sui mercati occidentali.

Colpisce infine il fatto che questo virus ha messo e metterà ognuno di noi nell’orrenda posizione in cui per troppo tempo abbiamo messo gli altri, profughi, immigrati, senza tetto: esseri umani dai quali tenersi lontani, dai quali guardarsi, da guardare e toccare con diffidenza, esseri umani da cui ritrarsi, da mettere in quarantena. Ora in quarantena siamo noi.

Antonella Moscati

è nata a Napoli nel 1955. Vive tra Parigi e la Puglia. Si è formata in filosofia e ha tradotto opere di Schelling, Benjamin, Rosenzweig, Arendt, Foucault, Deleuze, Guattari, Nancy, Badiou. Tra i suoi libri: "Una quasi eternità" (nottetempo 2006), "Il canale di Otranto" (Quodlibet 2007), "Deliri" (2009), "Una casa" (nottetempo 2015) e "Pathologies" (Arléa 2020)

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