In questa ultima settimana gli aggiornamenti sul coronavirus sono stati interrotti da pochi altri fatti di rilievo. Tra questi, il mondo degli storici dell’arte, ma non solo, si è concentrato su una vicenda che ha mosso gli animi: la concessione del prestito del Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi di Raffaello per la mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma che inaugura oggi, 5 marzo, dedicata all’artista in occasione del cinquecentenario della morte; voci di corridoio avevano prospettato possibili rinvii forse per timore di calo di ingressi a causa dell’epidemia, e davano il prestito del dipinto ancora in forse. Invece no, fake news, tutto resta come è.
Sulla vicenda del prestito è già intervenuta due giorni fa su «Antinomie» Barbara Martusciello con considerazioni che, in linea generale, sono ben condivisibili, soprattutto per quel che riguarda l’assunto di fondo, ovvero la libera circolazione delle opere d’arte, se giustificata da mostre scientificamente fondate, come quella romana. Tuttavia ciò che lascia incuriositi è la modalità della diffusione di questa notizia, che offre lo spunto per un’ulteriore riflessione. Diversamente da quanto quasi ovunque riportato non è infatti stato il comitato scientifico delle Gallerie degli Uffizi a stilare la famigerata lista. La lista già esisteva, era quella redatta da Antonio Natali, precedente direttore degli Uffizi. Come unico atto di continuità col mandato del suo predecessore, Eike Schmidt ha proposto al comitato (scelto dal Ministero, se si eccettua per Fabrizio Moretti, proposto dal Comune) di riconfermare quella lista, comunicando poi anche sulle pagine cittadine dei maggiori quotidiani l’importanza di questo elenco inappellabile. Del comitato fa parte, insieme a Donata Levi, Claudio Pizzorusso e al già citato Moretti, Tomaso Montanari il quale, lo sappiamo tutti è Contro le mostre (titolo del libro da lui scritto a quattro mani con Vincenzo Trione, edito da Einaudi nel 2017), eppure si dichiara dubbioso, in astratto, sulla liceità di una lista unica, rigida e discriminante. Siamo al 21 ottobre: nel documento, riguardo l’inamovibilità dell’opera, è usata l’espressione “in assoluto” e la prima giustificazione è quella legata ai “motivi identitari”, ovvero il legame dell’opera col museo in cui è esposta, come la Gioconda con il Louvre, per fare un esempio spiccio. Insomma la sanità del dipinto, nel caso del Leone X, non c’entra affatto, benché le parole rassicuranti di Marco Ciatti, soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure, riguardo il perfetto stato di conservazione del quadro dopo il restauro, siano state riportate dai giornali con entusiasmo, facendosi beffa del comitato dei parrucconi conservatori (con titoli come quelli di «Artribune»: Italia ridicola).
Ora la domanda non è tanto quella che si rincorre di testata in testata: “che cosa vogliono questi polverosi professori e questo ambizioso antiquario? lascino circolare le opere per il bene di tutti”, quanto, piuttosto: “Ma il 21 ottobre il buon Eike Schmidt, quando ha chiesto di firmare quel documento, non si è ricordato che pochi mesi dopo si sarebbe aperta una mostra epocale già in preparazione da tempo?” Preferiamo credere Schmidt distratto e non vogliamo pensare che già meditasse: “firmiamo… poi ci penso io, tanto siamo in Italia”… perché sarebbe un pensiero davvero poco bello per un tedesco che dichiara ora di aver agito con spirito patriottico (intendendo per patria l’Italia). In questo contesto le dimissioni del comitato, tanto vituperate da molti, oppure considerate dai più ‘moderati’ un eccesso di zelo, possono apparire sotto un’altra luce. L’atto di Schmidt sancisce infatti, anche in futuro, la totale inutilità dell’esistenza del comitato stesso: la forma, in questo contesto, è davvero anche contenuto. Come mai nessuno ha puntato il dito sulla decisione avventata del direttore di lasciare in una lista blindata un capolavoro che sicuramente sarebbe stato chiesto in prestito nel mese successivo? Abbiamo forse timore di passare per provinciali criticando un direttore straniero?
Non si tratta qui di esprimere avversione nei confronti di iniziative espositive, di essere “contro le mostre”, come Montanari e Trione. Le mostre, se non sono quelle blockbuster, possono avere un gran senso e offrire occasioni importanti di riflessione anche agli addetti ai lavori: nell’era prima della riproducibilità tecnica, poi della post produzione, la visione dell’opera dal vero resta ben altra esperienza. Anche se forse, nel caso di mostre come quella di Raffaello non sarebbe stata possibile, senza la contingenza del coronavirus e la fuga del turista straniero, una gran riflessione di fronte al dipinto, dati i tempi previsti per le visite contingentate fin dalle prevendite. È quanto avviene, ad esempio, quando visitiamo a monumenti quali la Cappella degli Scrovegni a Padova, sostando più tempo nell’anticamera tecnologica che ci aspira ogni granello di polvere, di quanto possiamo trascorrere di fronte agli affreschi di Giotto. Nel caso del Leone X l’importanza del quadro all’esposizione romana è indubbia, come sottolineato dal comitato scientifico della mostra, composto da Sylvia Ferino, Francesco Paolo Di Teodoro, Vincenzo Farinella, perché il Ritratto di Leone X dialogherà con un altro prestito eccellente dal Louvre, quello del Ritratto di Baldassar Castiglione, il letterato che, proprio con l’urbinate, scrisse la famosa Lettera a Leone X (1519), un documento conservato all’Archivio di Stato di Mantova e esposto in quella sezione della mostra. Nella lettera è infatti descritto il progetto di una ricostruzione grafica e materiale di Roma antica, così come la si poteva vedere all’inizio del XVI secolo, testimonianza precoce del concetto di tutela e di valorizzazione del patrimonio. Questo aspetto non sarà tuttavia colto da molti. I più, in un tempo di feticci quale stiamo vivendo, si soffermeranno invece estasiati di fronte a quel prestito “eccezionale” e molto dibattuto, pur trattandosi magari dello stesso dipinto che avevano ignorato visitando le gallerie fiorentine, ben più interessati alla Primavera di Botticelli. Insomma un successone per il papa e i suoi cardinali.

Questo porterà forse anche interesse, per simpatia e coabitazione, nei confronti del Ritratto di Baldassar Castiglione, esposto negli ultimi anni nella Grande Galerie, ma rimasto a lungo semi ignorato nella sala della Gioconda, la stessa in cui la stragrande maggioranza dei turisti del Louvre ignora anche il Concerto campestre di Giorgione o L’uomo col guanto di Tiziano, appesi sul recto del pannello che incastona la Gioconda. Anche a questo, dunque, servono le grandi mostre e infatti nei comunicati stampa l’eccezionalità dei prestiti è sempre la più insistita. Spostare, far circolare rende più visibile.
Viene alla mente l’aristocratico disprezzo di Flaubert, che in una lettera a Louise Colet del 29 gennaio 1854, dal suo volontario ‘esilio’ a Croisset, in Normandia, imprecava contro il proliferare delle mostre parigine (“combien de braves gens qui, il y a un siècle, eussent parfaitement vécu sans Beaux-Arts, et à qui il faut maintenant des petites statuettes, de petite musique et de petite littérature!”). Se la critica era rivolta soprattutto all’arte del tempo di Napoleone III, possiamo tuttavia intravvedere, pur nella forma leggermente isterica dello scrittore francese, prefigurarsi l’ingranaggio del turismo culturale odierno, quello dei cosiddetti servizi aggiuntivi, bookshop, dispensatori di libri, di cd, di riproduzioni e di gadget: luoghi senza identità alcuna, non luoghi per dirla con Marc Augé, nei quali si attua una proliferazione di oggetti, non destinati a divenire “cose”, per citare Remo Bodei (La vita delle cose, 2009), ma a rimanere invece privi di significato, in mancanza di nessi affettivi e culturali. Tali oggetti tendono, inoltre, a perdere fisicità, per sostituire parti del loro composto chimico-fisico in informazione. Basti pensare agli abbondanti spazi interattivi nei musei, alle visite virtuali, agli schermi e ai programmi che digitalmente illustrano com’ è ‘fatta’ un’opera. Così, dopo un percorso che si apre con gadget e prosegue con video ed ampia documentazione fotografica, si può perfino giungere ad ignorare l’opera originale, come accade alla Madonna del parto di Piero della Francesca, conservata nel museo di Monterchi, edificio in cui è stata trasferita dalla cappella del cimitero alle porte del paese. Di fronte al capolavoro di Piero, un visitatore inesperto può esserne quasi deluso, trovandolo assai più opaco e meno attraente rispetto alle immagini viste nelle sale precedenti, pensate invece come propedeutiche a quell’incontro “cruciale”.
Nelle sale delle Gallerie degli Uffizi, riallestite da Eike Schmidt, i dipinti di Botticelli e Michelangelo sono incastonati in pannelli tecnologici ben illuminati entro scatole che ne aboliscono quasi le cornici, sotto vetri iperprotettivi, perché nell’era della smaterializzazione dei dati si immaginano però criteri di conservazione materiale a prova di qualsiasi catastrofe. Il significato può andare perso nel mare magnum dell’eccesso di informazioni, ma l’opera deve restare intatta e anzi gareggiare per numero di ammiratori. Nel caso del recente riallestimento (2018) della sala che ospita la Sacra famiglia (Tondo Doni) di Michelangelo gli animi si sono divisi in parti uguali tra ammiratori e detrattori. Questi ultimi hanno addirittura pubblicato sui vari social un post molto ironico dove, davanti alla Sacra famiglia era la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto: la nuova teca del dipinto di Michelangelo era quindi assimilata al cestello di una lavatrice entro cui girano, come panni colorati, i personaggi del dipinto. A dire il vero la sala era già stata interamente riallestita sotto la direzione di Natali nel 2011, collocando al centro l’Ariadne addormentata, un marmo di epoca romana (II sec. d.C.), che poté esser stato uno dei modelli del Buonarroti per il dipinto. Con motivazioni anche comprensibili se ci si pone in una certa ottica, Schmidt ha spiegato invece che gli Uffizi necessitano di percorsi distinti, uno per i capolavori che tutti vogliono vedere (quindi, potremmo aggiungere, non offuscati da letture troppo colte), uno per chi voglia invece proseguire, approfondire la visita, scoprendo anche pittori “minori” (tipo Parmigianino, Pontormo!!!). E infatti gli Uffizi “funzionano”, le code sono diminuite non già per scarsità di visitatori, anzi in aumento come in tutto il pianeta (questo almeno prima degli sviluppi epidemici odierni), ma per miglior organizzazione della biglietteria on line e gestione dei flussi interni al museo. Se ci siamo qui concentrati sul caso fiorentino, problematiche di questo tipo riguardano anche altri musei, non solo italiani. Così, senza scomodare Flaubert passando per reazionari, basterà leggere le osservazioni formulate da Hito Steyerl sul sistema museale odierno; in Duty free art (2017), l’artista nota come nella nostra epoca i quadri sembrino nei musei “avere la funzione di sorvegliare i visitatori con il riconoscimento facciale e il tracciamento dello sguardo al fine di verificare se un’opera riscuote sufficiente gradimento o se qualcuno si comporta in modo sospetto”. Le immagini, le opere, dunque non esercitano quella volontà auspicata e rivendicata da Mitchell (What do pictures want? 2005), ma rientrano anch’esse in un sistema di controllo che mappa la nostra esistenza.