Sono passati quasi trent’anni dal 25 dicembre 1991. Quella sera, senza nessuna fanfara, la bandiera rossa dell’Unione Sovietica fu ammainata dalla cupola del Cremlino e sostituita dal tricolore russo. Pochi minuti prima Mikhail Gorbaciov, in un discorso televisivo trattenuto e dolente, aveva annunciato le sue dimissioni da presidente dell’Urss, rivendicando la necessità della sua perestroika e insieme constatandone il fallimento: «Il vecchio sistema è crollato prima che il nuovo potesse cominciare a funzionare».
Abitavo a Mosca a quel tempo: per noi occidentali era la sera di Natale, la fine della festa si confondeva con l’incertezza del momento. Non eravamo sorpresi. Che l’Urss non sarebbe sopravvissuta, lo si sapeva già dal tentativo di golpe in agosto, con il sequestro di Gorbaciov in Crimea e il trionfo di Eltsin. Non sapevamo invece cosa sarebbe venuto in seguito, quali effetti avrebbe avuto il crollo di quello che non molto tempo prima, nel 1983, il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan aveva definito «l’impero del male».
Sono passati quasi trent’anni da quel 1991, molto è accaduto e per la maggior parte degli umani l’Unione Sovietica, tra l’iniziale esplosione rivoluzionaria e la flebile fine, è un capitolo mal studiato nel manuale di storia. Non per Mikhail Gorbaciov, che da allora, in una sorta di esilio domestico nella sua fondazione sul Leningradskij Prospekt (cambiano i nomi delle città, non quelli delle strade), non ha smesso di riflettere sul mondo come è stato e sul mondo come sarebbe potuto essere. Non per Werner Herzog, ancora riconoscente allo statista che ha reso possibile la riunificazione della Germania, «la figura più monumentale della fine del ventesimo secolo». Ed è appunto nella sede della fondazione che Herzog incontra Gorbaciov, com’è intitolato in italiano il documentario Meeting Gorbachev che il regista tedesco – con la collaborazione dell’antropologo e documentarista britannico André Singer – ha dedicato al vecchio uomo politico.

Non un’intervista, «roba da giornalisti che arrivano con la lista pronta delle domande», come ha detto Herzog durante il Biografilm Festival di Bologna, ma un incontro appunto, una conversazione che si è articolata nell’arco di alcuni mesi, rispettosa dell’età e della salute precaria di Gorbaciov. Non per caso il film comincia con un dono, una gigantesca scatola di cioccolatini senza zucchero di fronte alla quale gli occhi di Gorbaciov si accendono di eccitazione infantile. La vecchiaia, la malattia, il dolore lo hanno trasformato al punto da renderlo quasi irriconoscibile, ma non lo hanno spento, non sono riusciti ad annullare l’energia di un uomo che, nato in una provincia sperduta, in un’epoca – i primi anni Trenta – segnata dalla carestia e dalla fame, ha cercato di trasformare il mondo. E relativamente poco importa a Herzog, l’autore di Fitzcarraldo, che non ci sia riuscito o che gli esiti siano stati molto diversi da quelli che Gorbaciov aveva auspicato.
Herzog ci mostra, da vicino e dall’alto, la terra desolata in cui Gorbaciov è cresciuto lavorando sui campi con il padre reduce di guerra («Abbiamo combattuto finché non c’era più nulla da combattere. È così che devi vivere») e intanto studiando fino a essere ammesso all’università di Mosca, per poi laurearsi, migliore del suo corso, ed emergere come dirigente nel Pcus. Sono gli anni della stagnazione, della guerra fredda. L’Urss è al tempo stesso una delle due grandi potenze mondiali e un paese impastoiato e sclerotico. Il giovane Gorbaciov (lo vediamo nei tanti, bellissimi materiali d’archivio scelti da Herzog e Singer per accompagnare il suo percorso) viaggia dentro il paese e all’estero, parla con le persone, non si rassegna allo status quo. E quando nella prima metà degli anni Ottanta le morti ravvicinate di Brežnev, Andropov, Černenko – che nel film diventano una sorta di unico funerale prolungato, tanto irrigidito nella solennità del rito da apparire comico – rendono sempre più evidente la fragilità del sistema, è infine lui, poco più che cinquantenne, a essere scelto nel 1985 come successore di Černenko, segretario generale del Pcus.
Al Politburo quasi di certo non immaginano l’entità del cambiamento che sta per investire l’Unione Sovietica. Sicuramente fuori dall’Urss, negli altri paesi, se ne accorgono molto presto. Per commentare con lo stesso Gorbaciov quei sei anni che sconvolsero il mondo, Herzog convoca voci spente da tempo – prima fra tutte quella di Margaret Thatcher, subito entusiasta del nuovo leader che da una prospettiva politica opposta alla sua dimostra un’apertura al dialogo impensabile in coloro che lo avevano preceduto – e altre che possono ricordare bene, avendolo vissuto, quel tempo tumultuoso: l’ex segretario di Stato statunitense George Schultz oggi quasi centenario, l’ex primo ministro ungherese Miklos Nemeth, il politologo tedesco Horst Teltschik, consigliere di Helmut Kohl, il polacco Lech Walesa. (Figure tutte la cui statura ci appare leggendaria, soprattutto se la confrontiamo con chi oggi popola la classe politica, in Italia e nel mondo). Così i novanta minuti del film sono anche una lezione di storia sulla fine del «secolo breve»: la catastrofe di Chernobyl, gli incessanti tentativi di Gorbaciov per la riduzione degli armamenti nucleari, la catena umana lungo la “via baltica”, il crollo del muro di Berlino. E infine, la dissoluzione dell’Urss.

Il documentario di Herzog è interessante però anche per quello che non mostra, che viene taciuto. Nessun accenno a quanto accade oggi: Putin, mai nominato, appare soltanto come un muto fantasma in un filmato sui funerali di Raissa, la moglie molto amata di Gorbaciov. Soprattutto non una parola sulla estrema solitudine che dal 1991 è il destino del vecchio leader al quale in Russia si attribuisce la responsabilità di avere umiliato il suo paese, di averlo voluto rendere uguale a tutti gli altri. E davvero, per certi versi Gorbaciov ha cercato di rendere la Russia meno “russa”, con la sua – per lui sciaguratissima – battaglia contro l’alcol, con i suoi appelli alla vocalità (questo il significato letterale di glasnost) in un paese dove storicamente il potere è stato sempre lontano e inaccessibile, con il suo rifiuto della logica dei naši e dei čužie (i “nostri” e gli “altri”, e non a caso Naši era il nome del movimento giovanile che ha fiancheggiato Putin negli anni zero).
Di questo il regista tedesco, la cui inconfondibile voce fuori campo accompagna tutto il film, non parla ma sicuramente anche a questo pensa, quando definisce Gorbaciov un personaggio tragico. Tragico e tuttavia – nel più puro stile herzoviano – indomito. A Herzog che gli chiede quale fosse, e quale sia ancora oggi, il suo obiettivo, Gorbaciov risponde: «Più democrazia», e dopo una pausa ben studiata: «… e più socialismo!». E scoppia a ridere, la risata di chi continua a gettare la sua sfida, sapendo che verrà accolta come un’eresia.