Con l’attitudine da poeta-velociraptor che ben le si conosce, Alessandra Carnaroli ha inserito nel suo nuovo instant-canzoniere gli ultimi schizzi tossici arrivati sulle pareti della sua caverna verbale dagli schermi dell’infodemia in corso. È vero – sento dire –, Alessandra scrive troppo; scrive sempre. Ma il fatto è che – più spesso di quanto vorremmo – ci prende.
A.C.
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adesso che gira questo
virus peste che basta
che ti entro
in camera
per farti morto
dovrò mettermi un sacchetto
conad in testa
una maschera
di morte bianca
salvafreschezza
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le dimensioni di questo panico infondato
di uomini e donne che si menano
per una passata di pomodoro
che riempiono i carrelli di generi di prima necessità
per loro e i parenti e i figli dei figli
fino alla cassa
mentre lascio
il tuo spazzolino asciutto
nel bicchiere
insieme al nostro
come augurio
di tornare presto
in questo bagno
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tutti a dire muoiono solo i vecchi
i terminali
gli oncologici gravi
vorrei chiuderti le orecchie non farti ascoltare
il coltello
dalla parte del televisore
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mascherine
come di bambini piccoli
che suonano ai portoni
qui una vecchia ti dà un uovo fresco
detto cocco
lì due cento lire spicci
puoi comprarci
patatine stiki all’alimentari
o tenerle in tasca
per quando cresci
adesso mascherina
ti spingono su corsie
di sorpasso barelle
a destra
sinistra
come videogioco
anni ottanta
dove ti sposti
per non perdere una vita
o le nostre cinque
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esiste una guarigione
che ti alza di nuovo
dal letto ma no tronco
tutto d’un pezzo
come ken
che ruoti solo il bacino
muovi la coscia
nell’anca
di 360 gradi
ti scappa
la testa
dal pomello del collo?
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neanche ai testimoni di geova
apriamo più la porta
per scambiarci
opinioni sull’apocalisse
e il tempo
la pensione
in posta
è un rischio
come
ti muovi
sbagli
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per fare l’aperitivo
come niente fosse
questi giovani
provocano
l’assalto
del virus
sugli infermi
vorrei infilzarvi di bandierine
cinesi
gli occhi
come olive verdi
nel martini
come piccoli panini
si chiama difesa
dei più deboli
dopo le 18
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mi occupo delle piccole cose
la piega del lenzuolo
un dito
scomposto dal resto
della mano
presto dovrò pensare
a barba e capelli
unghie
che ricrescono
le cellule fanno il loro compito
si moltiplicano
o muoiono
c’è continuo
movimento
su questo letto
hai aperto gli occhi
ma è un effetto
bambolotto
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meritiamo l’estinzione dicono tutti
come se siamo incendi
focolai di malattie brutte
inciampi
sulla strada dove corrono
al lavoro in palestra
noi a rimettere la scarpa col dito
un figlio
infermo
in lungodegenza
una forma cronica
di materno
senza scampo
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mantieni le funzioni
di base dormire russare
ora per me dovrebbe essere sempre
notte nel mondo
le luci spente poche auto
sveglio solo l’infermiere di turno
che chatta con la compagna moldava
così che tutto sembra uguale
a una notte normale
Verso il grado zero
di Andrea Cortellessa
È Alessandra Carnaroli la nuova sensazione poetica di questi ultimi anni. Almeno dal 2011, quando pubblica Femminimondo, questa marchigiana del ’79 va dritta per la sua strada: con sprezzo dei due segnali di pericolo che vi lampeggiano. Il primo è la sempre più crudele riduzione di una lingua deprivata di ogni marca di letterarietà, di ogni tropo (a meno di non irriderlo con urticante parodia, come la rima “facile” di Sespersa), sino a uno stato elementare e anzi primario (Primine, appunto, le poesie “scolastiche” pubblicate l’anno scorso dal «verri»). Il grado zero della poesia, come lo chiamava Antonio Porta, è l’asintoto cui tende, senza mai raggiungerlo, questa poesia povera.

L’altro rischio è quello della poesia “a tema”: per cui si possa definire Femminimondo “il libro sul femminicidio”, Elsamatta “il libro del disagio mentale”, Primine quello “sui bambini disturbati” e, ora, Ex-voto (Oèdipus 2018) “il libro dell’ospedalizzazione” e Sespersa (Vydia 2018) quello sull’“aborto”. I «temi» alla cui «brutale deformazione» (per dirla con Gadda) si pone Carnaroli valgono almeno tanto per la deformazione che per loro stessi: un trattamento che li rende irriconoscibili rispetto alla doxa mediatica. Sicché, come dice Helena Janeczek nell’introduzione a Sespersa, questa «è poesia ricavata da un aborto»: non poesia dell’aborto bensì, appunto, dall’aborto. «Sperso» è il corpo: «sono brava a dissociarmi / dal mio corpo / che è diventato mezzo / di procreazione assistita». Tanto il corpo del soggetto che quello del linguaggio. Partes extra partes deprivate di organismo – come ha insegnato Jean-Luc Nancy – sono i brandelli di carne mineralizzati nella fissità premoderna degli ex voto: oggetti-reliquia che evitano di idealizzare un corpo «ricalcato per essere votato», ha scritto Georges Didi-Huberman. S’intitola infatti Ex-voto, se non il capolavoro, il libro-quintessenza di Carnaroli. La quale una volta ha detto di «scrivere per immagini corte tipo Lascaux»: con maniera «rupestre» da «pittore di bisonti».



Fastosamente impaginato con grandi pagine “a soffietto”, Ex-voto non a caso ai versi affianca suoi disegni che raffigurano, col primitivismo davvero crudele della devozione popolare, la varia sintomatica del corpo offeso della «diciottenne passata dall’aperitivo / in centro al centro / irrecuperabili», o della madre la cui «camicia da notte / leggera / lascia vedere / quello che c’è sotto / due tettine / secche / due ghiandoline / come giuggiole». Un corpo fattosi sottile, ormai, come carta: «potrei / trovarti / il cuore / ad occhio / nudo / ma farebbe troppo male / da guardare / tipo / eclisse / solare».
Questo articolo è stato pubblicato, col titolo Una poesia che è deformazione e riduzione, su «Il Sole 24 ore-Domenica» il 30 settembre 2018.