All’età di nove anni non avevo opinioni sulla vita religiosa. Solo tante domande che, con eccessivo entusiasmo, rovesciavo sulla figura esile di una suora benevola. La povera malcapitata aveva finito col prendermi in simpatia, al punto da condurmi per mano nelle stanze private adiacenti alla scuola, dove si trovava la sua libreria. Lì, tra le biografie di santi per bambini, potevo trovare delle risposte, mi diceva fiduciosa. Si infiltrava così, nel disegno terso della fantasia infantile, una preoccupazione verso quello che le suore chiamavano il mondo del divino e verso tutti i luoghi impenetrabili che ne popolavano l’immaginario: l’inferno, il paradiso, l’aldilà. Che cos’erano quei paesaggi negati alla vista e in nome di chi si consumavano quelle vite immacolate di cui leggevo? E perché era necessario, come dicevano le suore, coltivare l’attesa di un mondo che si sottraeva alla carezza dello sguardo?
Molti anni dopo ritrovo Cristina. Un decennio ci separa dai tempi del liceo, quando la dolcezza primaverile degli incontri con l’arte si mostrava ai nostri sguardi acerbi e lentamente riempiva, con tutta la sua grazia, il chiacchiericcio leggero dei nostri diciott’anni. “E’ come se cercassi un contatto con il divino” mi dice, riferendosi alla necessità che la porta a confrontarsi quotidianamente con il gesto artistico. “Divino non è la parola giusta” aggiunge poi decisa. Non è il bisogno di religione che si fa testimone silenzioso di una mancanza, nella sua vita, così come nella mia. In questo mondo ci muoviamo a tentoni. Sulle labbra nessuna preghiera, nelle gambe nessuna meta, solo un cuore aperto verso ciò che dall’alba dei tempi è stato, come noi, perduto, amato, dimenticato, acceso: vivo.

Le immagini di Cristina si fanno carico di una verità ancestrale: per toccare la vita, talvolta, si deve andare lontano, al limite del mondo dei vivi. Ma il suo gesto non è in fuga da una realtà senza più speranza, al contrario, è un tuffo nel cuore metamorfico della materia, lì dove tutto si può ancora dire. E in questo salto si mostra tutto il coraggio di una scelta, quella di continuare, ostinatamente, a seminare frammenti di bellezza, distogliendo l’orecchio dalla filastrocca di post, new, neo, net e quant’altro che ci siamo cuciti sulla bocca. Avvolte dall’abbraccio di una sensualità audace, le sue immagini rivelano la superficie porosa di un tempo perduto e mai del tutto ritrovato, se non nei volti oscurati, tagliati e macchiati che riemergono dal sottosuolo della memoria e ci prendono per le caviglie, costringendoci a fare i conti con il segno tangibile del loro assentarsi.

Nel fermento cittadino di una domenica torinese lo sguardo di Cristina inciampa tra i libri, le fotografie e gli oggetti minuscoli che affollano i banchetti dei mercanti d’antiquariato. Non si trova solo un passato polveroso e distante in quelle realtà misteriose che si dischiudono ai suoi occhi ma anche una lucida consapevolezza, quella di sentirsi a casa negli angoli remoti di vita estinta che sembrano così distanti dalle sagome confuse dei passanti intorno a lei. Da quel momento il suo gesto si muove tra i detriti incombusti lasciati per strada dalle vite che non appartengono né a lei né più a questo mondo. Mandare in frantumi la membrana amniotica del tempo e infilarsi nelle arterie prosciugate di ciò che non è più, trasformare la fine in perpetua dissoluzione, ritrovare un miele vitale nella melanconia di un fiore essiccato, riscrivere il destino immaginario di volti mai conosciuti. E’ l’impresa impossibile che prende vita nel suo gesto e che si mostra nell’apertura di uno spazio interstiziale: aprendo le due metà di vecchi orologi, sfogliando le pagine interrotte dei suoi libri d’artista, soffermando lo sguardo tra parola e immagine.
The Ecstasy of Everything, 2016
Letto di Naufrago, 2016
Davanti all’evidenza di una fine – finito l’amore degli sguardi che si rincorrono tra le pagine ingiallite dei suoi libri, finito il ciclo vitale dell’ape, caduto l’ultimo petalo di un fiore – ci soffermiamo sul mistero del passaggio. Ma verso cosa, ci chiediamo? Verso la ‘miglior vita’ in nome della quale le suore giustificavano l’insensatezza e la bestialità del mondo? Non siamo convinti. E se invece provassimo, per un attimo, a soffermarci sul passaggio al limite senza calpestarlo? Fermiamoci lì dove nulla si può scorgere se non la vertigine di un mancamento, nella sua incombente e sfacciata tangibilità. Senza volto e senza nome, questo spazio di pura immaginazione ci tiene stretti alla vita e ancor più stretti all’orizzonte indistinto della sua fine. Cuore e cenere abbracciati, inseparabili, seppur distinti nella stoffa e nell’ordito. Ci avviciniamo all’Unbegrenzheit kantiana – ma non troviamo traccia dell’idea di moralità – e siamo distanti dall’absoluten Substanz hegeliana – non eliminiamo il sensibile. Siamo, forse, in prossimità dell’Entstaltung benjaminiana: la deformazione della Gestalt, oltre cui non si intravede nessun nuovo “formarsi” ma solo l’infinito dissolversi (“unendliche Auflösung“) della forma-limite. Non ne facciamo, però, una questione di presenza in negativo e nemmeno di violenta distruzione. Come scrive Jean-Luc Nancy (ne Il senso del mondo, 1997 pp. 51-57, trad. mia) in riferimento a quella “filosofia dei confini” capace di articolare una nuova cosmologia “a-cosmica” – la “visione del limite” e “al limite” di un mondo che si dà unicamente sul confine dell’illimitato – la logica del limite non si pronuncia semplicemente in termini di “trascendenza o trasgressione” ma si snoda in un pensiero dell’eccesso capace di far propria la modulazione ritmata di “contatto e distacco, penetrazione e fuga” sulla linea di contorno di un continuo sconfinare.

Che cos’è la cadenza ritmata di un movimento di penetrazione e fuga sul limite se non un segno lampante d’amore carnale? E, se di queste immagini ne facciamo una questione d’amore, abbandoniamo ogni pretesa di vederci più chiaro o di capire meglio quando il nostro sguardo le sfiora. Non cerchiamo nemmeno di vedere oltre. Osserviamo solo la resa del passaggio senza approdare oltre il “verso” o l’”a” che solitamente ne segue l’enunciazione. Non siamo di fronte a un messaggio da decodificare, né ad un contenuto da interpretare: siamo soli davanti al paesaggio della vita che sfugge, continuamente, al tocco definitivo e alla patina lucida di una logica risolutiva.

Nel punto cieco in cui il mondo si sottraeva alla carezza dello sguardo, la suora aveva disegnato per me i nomi delle vite santificate. Divinamente, la vita terrena si consegnava così alla trascendenza di un mondo che non poteva essere “altro”, proprio perché, anche se non lo potevamo vedere – “non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo” – quel mondo lo avevamo, tuttavia, nominato. Le immagini di Cristina ci invitano a pensare la forma del limite nella sua continua sfumatura, rinunciando alla pretesa di dare un nome a ciò che sta al di là. Ci ricordano che la carne e le ossa tremano di fronte all’evidenza della fine ma, anziché consumarsi nell’aere immateriale della parola divina, rimbalzano su questa terra, meravigliandosi di conservare ancora il tepore vitale che le distingue dalla pietra. Dal mancato approdo oltre il limite non si può che ritornare, seppur trasfigurati: osserviamo la visione nel suo farsi oblio e da lì ricominciamo a vivere, ancora più consapevoli del nostro temporaneo sostare in questo mondo.
Esiste, nella lingua anglosassone, un verbo che si avvale di un’ambivalenza semantica traducibile nel duplice atto del ‘dipingere’ o ‘delineare’ con immagini e “descrivere” con parole: to limn, ovvero “to portray in drawing, or to describe in words”. La parola compare tra i primi versi di Shakespeare, nel suo Venere e Adone (1593), dove si legge di un pittore che, nel dipingere una forma, ‘sorpassa’ la vita:
Look when a painter would surpass the life,
In limning out a well-proportion’d steed,
His art with nature’s workmanship at strife,
As if the dead the living should exceed
Limning out: questo delineare mantiene parola e immagine sospese in un interstizio semantico che ci ricorda lo sconfinamento continuo al cuore di ogni “limitare” – l’abisso della forma nel punto esatto del suo darsi al mondo. L’artista, tracciando il limite della forma, ne proclama il suo sconfinamento. Lo scrittore, allo stesso modo, nell’incidere la parola ne dichiara il suo traboccare. Con le parole e con le immagini si può superare la vita, non per andare oltre ma per toccare la vita stessa al suo limite – sulla linea morbida del suo infinito sconfinare. Lì, per un istante ancora, noi. Abbandoniamoci come i cuori ormai freddi di chi, prima di noi, per un soffio di anni è stato e ora non è più e affondiamo le mani in quella voglia d’amore e di vita che la bellezza ci spinge, ogni volta, a ritrovare. Con le parole e con le immagini io e Cristina ci ritroviamo. E sorridiamo, ripensando agli sguardi inquisitori dei nostri insegnanti più premurosi e alle loro puntuali domande, sul finire dei nostri anni liceali: “Allora ragazze, lettere o pittura?” Sorridiamo perché, a distanza di anni dalla scelta tra immagine e parola, chi di noi due può dire di aver mai abbandonato l’una o l’altra?
Nelle biografie dei santi non trovai risposte alle mie domande sul mondo dell’altrove. Ma questo alla suora non lo dissi mai, per paura di spezzare quel sorriso compiaciuto che si disegnava sul suo viso ogni volta che mi intrufolavo nella sua libreria. Vent’anni dopo, mentre scrivo di questi ricordi, osservo dal finestrino di un aereo l’orizzonte lontano che separa la distesa di nuvole dal blu intenso che mi avvolge. Non mi farò altra immagine di ciò che sta qui in cielo. E ripenso, ancora una volta, a come la mia mente bambina non riuscisse a capire dove fosse, in quelle vite santificate, il necessario. Ma che cos’è il necessario? Non attendiamolo invano. Lo possiamo dipingere, fotografare, scolpire e scrivere. Lo possiamo vivere, ora. Lo intravediamo nelle immagini di Cristina e lo diciamo con le parole che Proust affidava al signor Legrandin, quell’uomo “dallo sguardo azzurro e disincantato”, di professione ingegnere ma d’animo letterato:
“Non manca che il necessario: un gran lembo di cielo. Cercate di conservare sempre un brandello di cielo sulla vostra vita, fanciullo mio. Voi avete un’anima bella, di una qualità rara, una natura d’artista, non lasciatele mancare ciò di cui ha bisogno.”
