Il mito dei relitti sommersi in Treasures from the Wreck of the Unbelievable
Thalassa. Meraviglie sommerse dal Mediterraneo (Museo Archeologico Nazionale di Napoli, 5 dicembre 2019 – 9 marzo 2020) è una mostra dedicata a una disciplina ancora relativamente giovane come l’archeologia subacquea e agli straordinari reperti antichi che il mare ha custodito e restituito alla memoria. Articolata in una serie di sezioni dedicate tra le altre ai tesori sommersi, al commercio navale, al mito della navigazione e alla vita di bordo, l’esposizione ricorre anche alla documentazione e alla ricostruzione di relitti navali come quelli delle isole di Antikythera e Spargi, di Albenga, Diano Marina, Punta Licosa, ecc.

dal Mediterraneo
L’allestimento, che con oltre quattrocento opere ambisce a unire “l’aspetto scientifico a quello emotivo, l’ambito narrativo a quello simbolico”[1], esalta in particolar modo il fascino misterioso che avvolge le imbarcazioni affondate, che l’archeologia usa per ricostruire la storia di mezzi di trasporto che costituivano “un elemento del sistema economico-militare e una comunità chiusa con la sua gerarchia, i suoi usi e le sue convenzioni”[2].
Il percorso espositivo di Thalassa ci ricorda che, come un sito archeologico, il relitto diventa una concentrazione di resti in grado di raccontare qualcosa sulla vita nel passato, e l’idea della capsula del tempo descrive perfettamente questa caratteristica delle carcasse naufragate nei fondali: siti in cui la vita sembra essersi congelata restando semi-intatta al momento dell’inabissamento con le sue testimonianze fluttuanti. Una nave adagiata sul fondo del mare è spesso un’entità temporale omogenea, e la peculiarità del suo valore storico sta soprattutto nel suo carattere di «contesto chiuso»: «la vita della nave e del suo carico si è fermata nel momento del naufragio, parimenti a quanto accade in un sito terrestre distrutto da una catastrofe (per esempio, un’eruzione vulcanica)»[3].
Nell’illustrare i modi in cui questi sepolcri sul letto dell’oceano giungono a noi con una visione ben precisa del passato, la mostra intercetta una tendenza che negli ultimissimi anni ha portato i relitti inabissati al centro di un più vasto dialogo tra l’archeologia, l’arte contemporanea e i vecchi e nuovi media.

Il caso più clamoroso di questa convergenza, sul quale proveremo a ragionare di seguito, è certamente costituito da Treasures from the Wreck of the Unbelievable, caso di studio che, partendo da un relitto affondato, si muove tra lo schermo e la sala espositiva in una forma ibrida, fluida e spiazzante.
Treasures from the Wreck of the Unbelievable è allo stesso tempo il titolo di una monumentale esposizione di Damien Hirst, tenuta nel 2017 a Venezia nelle sedi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, e dell’omonimo documentario (o, meglio, un mockumentary) che ne racconta la genesi.
Partiamo dalla mostra, sui cui è utile intrattenersi per meglio inquadrare la produzione del documentario distribuito a conclusione dell’evento veneziano. Il maestoso e sconcertante progetto si presenta fin dall’inizio come un gioco con le convenzioni dell’arte, perché quello che è il frutto delle capacità creative di Hirst e di un lavoro di pianificazione decennale, viene spacciato ai visitatori come collezione di opere antiche sopravvissute al naufragio di un’imbarcazione occorso duemila anni fa: un centinaio di sculture di divinità ed eroi, recuperate dai fondali grazie a una spedizione archeologica finanziata da Hirst ed esposte ancora ricoperte dalle concrezioni calcaree. Le opere rompono per la loro audacia con i lavori precedenti dell’artista, non rientrano «in alcuna categoria accademica ed estetica convenzionale» e sprigionano una forza mitologica che domanda all’osservatore una sospensione dell’incredulità, affogandolo «in un sentimento che oscilla incessantemente fra la perplessità e l’entusiasmo»[4]. La mostra si basa dunque su un assunto di partenza falso, incredibile, come riporta il titolo del quale lo stesso Hirst mette in risalto il doppio significato di non credibile e straordinario[5].
Un assunto avallato anche dai bizzarri contributi del catalogo firmato dalla curatrice della mostra, dal proprietario e dal direttore di Palazzo Grassi, da due storici dell’arte e da un archeologo di fama internazionale: alla maniera delle recensioni e delle biografie immaginarie di Borges, tutti i testi ricostruiscono con metodo scientifico e fonti rigorose la tesi storica di partenza e le tappe della scoperta del tesoro. Se questa burla può apparire fine a se stessa, in realtà è proprio leggendo tra le righe dei discorsi di invenzione che si può cogliere il disegno complessivo. Uno degli intenti principali di Hirst, del catalogo e, in seguito, del mockumentary, è di indurci a credere all’incredibile, anche di fronte all’evidenza più sfrontata, a farci oscillare tra fede e totale scetticismo. Da una parte prendiamo atto del grado di perfezione unico e della cura maniacale nel riprodurre manufatti di epoca romana, con l’aggiunta di una patina di antico dovuta al prosperare sulle statue di coralli, spugne e gorgonie.
Le opere in mostra fronteggiano le foto ingigantite su light box che documentano il recupero delle sculture da parte dei sommozzatori in fondo all’oceano: Hirst usa qui il potere di denotazione della fotografia, la coscienza dell’esserci-stato come la definisce Barthes[6], per confermare che il ritrovamento ha avuto realmente luogo e che la leggenda che ci sta raccontando è vera.

La leggenda in questione narra del naufragio dell’Apistos (nome che in greco significa «incredibile»), vascello appartenente a un liberto originario di Antiochia, il ricchissimo collezionista d’arte Cif Amotan II (anagramma di I am a fiction) che tra la metà del I e l’inizio del II secolo d.C. avrebbe messo insieme una strepitosa wunderkammer dell’antichità. La nave, che trasportava l’intera collezione per decorare un tempio del Sole fatto erigere da Amotan, si sarebbe inabissata per cause sconosciute nell’oceano indiano, al largo delle coste africane. Per accentuare l’impressione di trovarsi di fronte a una mostra archeologica, la collezione di sculture è accompagnata da un modellino ligneo che ricostruisce l’Apistos e da manufatti di uso quotidiano (monete, armi, vasellame) attribuibili all’equipaggio disperso.
Dall’altra parte, a fronte di un lavoro così scrupoloso di messa in scena, il percorso tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana rivela progressivamente tutta la grande impostura architettata da Hirst: se i pezzi più aderenti allo stile antico presentano sempre (volutamente) un che di moderno e di contraffatto – le incrostazioni coralline sono troppo «perfette» e disposte ad arte –, l’attendibilità del progetto è messa a dura prova quando tra le sculture si riconoscono, opportunamente invecchiati e intaccati dalle creature marine, Mickey Mouse e Goofy, modelli dei robot Transformers che dovrebbero rimandare a divinità azteche, il busto marmoreo di un faraone che richiama la popstar Pharrell Williams, e quello bronzeo attribuito ad Amotan che ha addirittura il volto di Damien Hirst.

Credere a un’illusione, dunque, credere a una leggenda da cacciatori di tesori, credere all’allucinazione del museo enciclopedico di Amotan. L’invincibile proposito di Hirst richiama quello altrettanto soprannaturale del protagonista de Le rovine circolari di Borges: voler sognare un uomo, Amotan in questo caso, «sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà»[7]. E di un sogno è preda appunto il visitatore quando si imbatte in forme familiari, e del tutto incoerenti con i presupposti cronologici della mostra, come le sagome aggredite dai coralli di Mickey Mouse o di Mowgli e Baloo del disneyano Libro della giungla. Come se fosse in fondo al mare, chi osserva queste sculture prova qualcosa di non lontano dall’ebbrezza della profondità, la sindrome nota anche come narcosi da azoto che può colpire i sommozzatori, provocando uno stato confusionale e visioni improbabili durante le escursioni negli abissi. Con questa aggressione onirica dei sensi, «pian piano, durante la nostra esplorazione, l’Apistos prende corpo, diventa reale»[8].
Alla luce della descrizione appena svolta, il finto documentario, diretto da Sam Hobkinson e distribuito all’inizio del 2018 sulla piattaforma Netflix, diventa non solo una naturale estensione di questa allucinazione artistica, ma un fondamentale pezzo del mosaico composto da Damien Hirst. Il mockumentary Treasures from the Wreck of the Unbelievable si presenta come un backstage della mostra, inventando la storia, iniziata nel 2008, dell’impresa archeologica che ha portato al ritrovamento del tesoro dell’Apistos e al grande evento di Palazzo Grassi. In un modo ancora piùpotente e convincente del percorso espositivo, il film di Hobkinson si appropria, sovvertendolo, dello stile documentaristico fatto di interviste, materiali di repertorio e riprese della spedizione che ci conducono nel retroscena di un rilevante avvenimento per l’archeologia subacquea.
Le vedute acquariali delle sculture affondate e mimetizzate nella barriera corallina sprigionano un indiscutibile senso di realismo, grazie anche al potere magnetico e misterioso delle statue nascoste che riaffiorano lentamente dall’abisso. Le inquadrature raccontano il processo di ritorno in superficie delle sculture in un’atmosfera di suspense che investe l’equipaggio, un’atmosfera mistica ed eroica allo stesso tempo, con soggetti mitologici come l’idra dalle teste di serpente che sembrano emergere miracolosamente dall’acqua.

Treasures rispetta il canovaccio di molti mockumentary, e costruisce un mondo all’insegna della verosimiglianza per inanellare un crescendo di eventi sempre più sorprendenti e sempre meno credibili. «Quello che ci fa credere nelle cose non è ciò che c’è, ma quello che non c’è», recita una delle frasi sibilline che Hirst indirizza verso la macchina da presa, quasi a metterci in guardia sulla dialettica tra credere e non credere, tra attendibile e inattendibile, che regge tutto l’impianto menzognero del film.
Questo viaggio nell’assenza di verità assoluta si svolge in una finzione abitata, oltre che da Hirst, dall’equipaggio della spedizione archeologica e da tutti i testimoni che in forme diverse hanno preso parte all’impresa. In particolare, la storia coinvolge due personaggi che rappresentano filosofie in contrapposizione, due facce della stessa medaglia: il direttore della spedizione, l’archeologo Andrew Lerner, convinto sostenitore di una ricerca scientifica fondata su dati certi e prove testimoniali; il cacciatore di tesori Peter Weiss, che abbandona la razionalità delle fonti storiche per credere nella leggenda di Amotan.
Andrew e Peter diventano i poli opposti di un diverso modo di guardare all’incredibile storia del naufragio, e quindi della dialettica archeologia/fantarcheologia, credere/non credere, ovvero l’essenza del genere mockumentary. Questa dialettica ripercorre tutto il film di Hobkinson. Treasures è innanzitutto un’esposizione dettagliata delle fasi del lavoro di equipe che scandisce l’archeologia subacquea: nel corso del lungometraggio osserviamo strumenti di analisi, metodi di rilievo e di datazione dei manufatti, pratiche di pulitura e di messa in sicurezza dei ritrovamenti, confronti tra esperti. Tutto concorre a illustrare in modo convincente la complessità del sistema di ricerca.
In secondo luogo, si insiste sul fascino irresistibile esercitato dalle leggende e dai tesori nascosti:«da piccolo adoravo le storie di naufragi fantastici», ricorda Hirst, «così come mi piacevano i vecchi film sui tesori in fondo al mare». E vecchi film sul mare sono effettivamente manipolati a sostegno di questa visione romantica, con frammenti esemplari del desiderio che ha sempre spinto l’uomo a scendere nell’abisso. Treasures disegna un percorso progressivo dalla fiducia nella ragione alla fiducia nella leggenda, dall’archeologia istituzionale, che crede più alle prove che alle convinzioni, agli assunti fantastici di teorie incompatibili con il discorso storico tradizionale. Il cacciatore di tesori Peter diventa infatti l’outsider che con la sua fede romantica nell’incredibile e la sua persistenza mette in scacco l’archeologo professionale Lerner, guidandolo verso il tesoro nascosto e portandolo, sia pure solo parzialmente, a piegarsi alle avventurose ipotesi della fantarcheologia, che si presenta con i caratteri di una fede quasi religiosa nel soprannaturale, che ha per ogni mistero «una risposta esauriente e perentoria, seppure indimostrabile»[9].
Con l’invito a credere nei tesori nascosti, nell’esistenza mitica degli dei e degli eroi, di creature di fantasia come unicorni e ciclopi, uno degli artisti viventi più controversi proietta gli intramontabili misteri del mare sulla scena dell’arte mondiale, e lo fa con un labirinto di leggende che si dipana tra una mostra e un documentario.
Treasures from the Wreck of the Unbelievable ci offre uno sguardo sulle molteplici direzioni intraprese dai relitti nello scenario contemporaneo. Con Treasures le rovine incarnate dai relitti dei vascelli e dalle opere d’arte deteriorate stabiliscono un ponte tra l’abisso e la superficie, tra natura e cultura, che ha nell’arte il suo punto di incontro. Hirst ci illustra il tragitto evolutivo delle rovine subacquee che, da un passato lontano riscoperto dall’archeologia, giungono alla spettacolarizzazione e alla rovinofilia delle mostre-evento dell’arte contemporanea. Estirpati dal paesaggio che (ipoteticamente) li avvolgeva, i tesori degli abissi vengono risemantizzati, addomesticati tra le pareti museali, stabilendo un cortocircuito temporale. In questo modo, l’arte si manifesta come una riflessione sul passato imprigionato sotto le distese oceaniche: strati temporali sovrapposti come le concrezioni coralline mescolano continuamente gli eventi storici al mito, i fantasmi di epoche trascorse con le allucinazioni oniriche.
[1] S. Ottieri, “Allestire Thalassa. Design e tecnica per uno spazio magico”, in Thalassa. Meraviglie sommerse dal Mediterraneo, Milano, Mondadori Electa, 2019, p. 58.
[2] S. Agizza, “Guida alla Mostra”, in Thalassa, cit., p. 30
[3] G. Volpe, «Archeologia subacquea», in R. Francovich, D. Manacorda (a cura di), Dizionario di Archeologia. Temi, concetti e metodi, Roma-Bari, Laterza, 20022, p. 325. Su questo argomento cfr. A. Bowens (a cura di), Underwater Archaeology. The NAS Guide to Principles and Practice, Oxford, Wiley-Blackwell, 2009, pp. 16-17.
[4] F. Pinault, in D. Hirst, Treasures from the Wreck of the Unbelievable, cit., p. 5.
[5] Si vedano a questo proposito le illuminanti dichiarazioni dell’artista sul sito di Palazzo Grassi: https://www.palazzograssi.it/it/mostre/passate/damien-hirst-a-palazzo-grassi-e-punta-della-dogana-nel-2017-1/.
[6] R. Barthes, L’obvie et l’obtus, Paris, Seuil, 1982 [trad. it. L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 1985, p. 34].
[7] J. L. Borges, «Las ruinas circulares», in Id., Obras completas 1923-1972, Buenos Aires, Emece Editores, 1974 [trad. it. «Le rovine circolari», in Id., Tutte le opere, vol. 1, Milano, Mondadori, 2011, p. 660].
[8] F. Goddio, «La scoperta di un naufragio», cit., p. 27.
[9] G. Pucci, «Fantarcheologia», in R. Francovich, D. Manacorda (a cura di), Dizionario di Archeologia…, cit., p. 145.