Un’avanguardia interdisciplinare
A cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, si assiste a un imprevisto revival dell’ecfrasi nell’ambiente della poesia sperimentale. Non si tratta di una moda retorica o stilistica, ma piuttosto della conseguenza diretta di una coabitazione degli spazi, dei luoghi e degli eventi collettivi da parte di poeti e pittori impegnati in un processo di sprovincializzazione (e di conseguente ‘rottamazione’ ideologica) della cultura nazionale.
Questa «pratica ecfrastica di ritorno» (Enza Biagini) rappresenta, per diversi autori del Gruppo 63, la conseguenza diretta di una poetica di intersemiosi tra le arti, basata sull’idea di un «intellettuale interdisciplinare» in grado di decifrare il reale grazie alla sinergia di competenze multimediali.
Le contingenze storiche e il panorama culturale italiano hanno influito indubbiamente sullo spazio destinato alle collaborazioni con artisti (e musicisti); l’avanguardia del Gruppo 63, infatti, desume la propria vocazione all’interdisciplinarità dall’impossibile dialogo con ‘la classe dirigente’ degli intellettuali coevi (da Pasolini a Moravia, da Caproni a Luzi), poco reattivi alle sollecitazioni sperimentali e alla rivolta linguistica caldeggiata dai neoavanguardisti.
Oltre alla condivisione materiale degli spazi culturali, è opportuno rilevare l’influenza dell’orizzonte di trasmissione e mediazione del messaggio culturale inaugurato dai nuovi Media. In un’epoca in cui la dominante linguistica diventa di natura iconica e l’immagine sembra sostituire o surrogare l’esperienza verbale, appare pienamente giustificabile se non necessario l’innesto di icone visuali nel territorio del letterario. Come osserva Sanguineti in un’intervista del 1984, «c’è un nuovo modo di percezione oggi, di costellazioni di immagini, che interessa tutti, non solo operatori e registi, perché ci sono domande sociali che passano attraverso di esso». L’ecfrasi, pertanto, si pone come modalità di accesso a determinate istanze (sociali e politiche) che si annidano in un reale assediato dall’immagine e dai media liquidi, rivelando, nell’epoca contemporanea, un’imprevedibile attualità epistemologica.
L’allenamento alla decifrazione di messaggi verbo-visivi viene, pertanto, accelerato dalle nuove tecnologie, in grado di facilitare la fruizione sintetica di parola e immagine sulla pagina tipografica (con la proliferazione di riviste intertestuali, da «Marcatrè» ad «Alfabeta», sempre più accessibili dal punto di vista della confezione materiale e dei prezzi di mercato); l’abitudine alla decodifica di «iconotesti» narrativi, inoltre, viene agevolata dal mezzo televisivo, che abitua lo spettatore a una familiarità con programmi in cui convivono messaggi verbali ‘tradizionali’ e «immagini in movimento».
La forma-galeria
Se, guardata in prospettiva storica, la categoria unitaria di Gruppo 63 sembra scricchiolare – ancor più di quanto già non destasse perplessità tra i suoi stessi promotori –, almeno su un punto le diverse voci dei neoavanguardisti sembrano concordare: il rifiuto della tradizione come dogma. Il posizionamento problematico rispetto al canone provocherà, in alcuni casi, una sorta di revisionismo partigiano del canone stesso – si pensi alla proposta antologica ‘terroristica’ di Sanguineti (1969, Poesia italiana del Novecento); in altri casi, comporterà un rifiuto ideologico di fare i conti con la letteratura e con la poesia in quanto perimetro disciplinare sconfitto dalla storia e ormai completamente disattivato e inutilizzabile per dire il presente. Da questa seconda risposta (più radicale) al canone letterario, deriverà il troncone della Poesia visiva (Gruppo 70) o della poesia concreta.
In generale, una simile sfiducia nei confronti dell’operatività del canone letterario motiva la scelta di fare i conti con canoni extra-letterari, alla ricerca di una tradizione fai-da-te alternativa a quella rigidamente letteraria. Da queste spinte centrifughe deriva, insomma, la riattivazione della forma-galeria. In una retorica della trasgressione, in cui vengono fatti saltare i ponti con le aspettative confortevoli del lettore in merito a linguaggio, impaginazione del verso e repertorio citazionistico, emerge comunque un problema editoriale e, più globalmente, poetico: sulla base di quali criteri si potranno ordinare e compattare i testi?
Naturalmente, agli occhi degli intellettuali neoanguardisti, la forma-canzoniere appare del tutto depotenziata e inutilizzabile (Petrarca viene avvertito come il classico più antiquato e meno maneggiabile della contemporaneità). Scegliere la forma-galeria significa garantire un ordinamento organico e non caotico ai propri testi; questa struttura consente di brevettare un genere a cavallo tra arte figurativa e letteratura, la cui confezione meticciata viene percepita come maggiormente adeguata a restituire una realtà sempre più abitata dall’iconotesto e da Media ibridi.
Oltre a questa sorta di sovrappiù figurativo rispetto al modello-canzoniere, la forma-galeria non implica e anzi elude programmaticamente la presenza di un io lirico (se non nella figura impersonale di osservatore o spettatore esterno di un ‘evento’ artistico). Non prevede neppure forme di progressione/sviluppo evolutivo di una storia (biografica o poetica); piuttosto, la Galeria legittima la giustapposizione di scene, tematiche e spunti tra loro inconciliabili e legati insieme unicamente dal percorso museale, e non da istanze identitarie o narrative.
In genere, la cornice museale viene immediatamente esplicitata nel titolo della raccolta oppure attraverso l’espediente della didascalia informativa (titolo del quadro + nome del pittore), a differenza di numerosi altri casi ‘standard’ in cui l’ecfrasi viene occultata in un gioco enigmistico con il lettore colto – alla stregua di una tra le tante modalità possibili di allusione o rimando esplicito a un fuori-testo, che garantisce, nell’atto stesso di esibirsi come ‘citazione’, un marchio di (post)modernità immediatamente riconoscibile. La forma-galeria pretende, invece, di essere riconosciuta sin dal paratesto come esplicita e prioritaria scelta di posizione (tematica, ideologica, e formale) a favore del rapporto parola/immagine.
Nell’atto di ri-appropriazione della galeria come cornice macrotestuale, subentrano alcune modificazioni radicali rispetto al modello classico di Marino. In generale, rispetto alla fonte mariniana, non si registra alcuna distinzione tra “Pitture” e “Sculture”, anzi, non sono previste tout court partizioni strutturali tra generi – anche perché i poeti si appropriano di fonti figurative sempre più ibride e difficili da collocare rigidamente entro una definizione categoriale. Ad esempio, lo spettro di oggetti d’arte abbracciato dalla poesia ecfrastica di Sanguineti varia dalle statue del Museo egizio di Torino alla pittura informale, dall’architettura al fumetto d’arte e alla performance, senza che venga mai postulato uno scarto sostanziale tra questi elementi.
Mauritshuis
L’autore più calzante per verificare l’operatività della forma-Galeria è senza dubbio Edoardo Sanguineti, uno degli autori più ‘ecfrastici’ del secondo Novecento.
Nel caso di Mauritshuis (1986), ogni componimento, dedicato a un pittore fiammingo esposto presso l’omonimo Museo dell’Aia (che aveva materialmente commissionato il progetto al poeta), rappresenta la scena di un quadro facilmente precisabile grazie all’inventario del museo stesso. Il nome del pittore presta il titolo alla poesia (Rembrandt van Rijn, Joachim Wtewael, Pieter Claesz, etc.), innescando immediatamente un gioco con il lettore che ha visitato la mostra, come se Sanguineti suggerisse al turista una guida del museo non prescrittiva o manualistica (da didascalia o da pannello informativo), ma che proponga allo spettatore sviluppi narrativi stranianti e non meccanicamente previsti dai soggetti della tela.
In questa raccolta si distingue chiaramente una modalità non descrittiva ma performativa (o teatrale) di ecfrasi; Sanguineti manipola la scena in modo da rendere la bidimensionalità immobile del quadro propedeutica al movimento e alla tridimensionalità di una storia, a volte forzando esplicitamente il contenuto veicolato dal titolo. Per esempio, la sesta poesia dedicata al pittore Joachim Wtewael trasferisce il tema mitologico di Marte e Venere sorpresi da Vulcano in un’atmosfera da salotto borghese:


Per adottare la terminologia di W. J. Mitchell, il quadro viene interpretato mantenendo soltanto l’«image», il contenuto iconico ‘letterale’, nei termini di una scena di tradimento coniugale di una qualsiasi coppia, in cui il marito torna a casa prima dal lavoro e scopre gli adulteri in flagrante. Gli altri personaggi mitologici, venuta lucidamente a mancare la cornice referenziale del racconto, non riescono a essere decodificati dal protagonista che, pertanto, mette in atto una sorta di fraintendimento o mis-riconoscimento degli astanti, identificati come ingiustificabili «tuffatori» o atleti la cui presenza non viene spiegata logicamente («capisco ancora il marito, ma quel tipo che salta… e il tuffatore… e l’altro; è troppo»). La scena viene ricondotta quasi a una proiezione onirica del senso di colpa, che culmina nella punizione violenta da parte di un manipolo di sconosciuti minacciosi, in una divertita (e divertente) assunzione iper-letterale della fonte, privata della propria connotazione storica e iconologica, come se venisse fruita da un osservatore del tutto ‘incosciente’.
Particolarmente interessante risulta, inoltre, la gestione del soggetto dell’enunciazione, che spesso coincide con uno degli attanti figurativi (il musicista in Jan Sanders van Hemessen, l’uomo che fuma in Pieter de Hooch, il cliente della prostituta in Frans van Mieris). Nella quarta poesia, prende la parola il cadavere del criminale Aris Kindt, identificato dagli storici grazie alla superstite documentazione archivistica, la cui salma fu adoperata dal Dottor Tulp nella celebre Lezione di anatomia ritratta da Rembrandt. Dopo un conciso ragguaglio biografico, l’azione viene declinata al presente, come se il corpo morto commentasse in presa diretta la dissezione anatomica rivolgendosi direttamente al chirurgo («ringrazio il dottor tulp, naturalmente, | per la sua memorabile lezione, e l’avveduta gesticolazione cordiale»).

Dal momento che il quinto e il settimo componimento non prevedono la partecipazione di figure umane (trattandosi, rispettivamente, di una Veduta di Delft e di una Natura morta con teschio), viene inserito un soggetto topograficamente esterno al set narrativo della scena ma fortemente coinvolto su un piano emotivo.
Nel settimo e ultimo componimento della raccolta (Pieter Claesz), sembra che il poeta stesso si riconcili con il soggetto della ricognizione ecfrastica, invitando all’osservazione un altro sguardo (quello della figlia) esterno alla trama del quadro e fortemente autobiografico:[2]


L’elenco degli oggetti rappresentati sul tavolo (il cronometro, la chiave, il portacandela, le pagine corrose di un manoscritto, il teschio) vengono identificati esplicitamente come attributi formulari e stereotipi della Vanitas barocca («è un repertorio trito e obbligatorio: ma il suo vivace / effetto lo fa sempre»); del resto, Pieter Claesz era un conclamato specialista di nature morte, confezionate in forma di variazioni su tema a partire da pochi elementi allegorici ricorsivi. Sanguineti, pertanto, si riserva un cantuccio conclusivo in cui dire «io», dopo aver demandato temporaneamente l’enunciazione a una serie di prestanomi figurativi, attraverso un congedo al lettore in forma di paradossale e ‘vitalistico’ memento mori – «e poi è vero, certo: qui tutto è niente / (e questo niente è tutto):».
Ecfrasi
Un’alternativa alla cornice museale di Mauritshuis viene proposta dallo stesso Sanguineti nella raccolta Ecfrasi (1982-1990), dove a un percorso espositivo reale viene sostituita un’antologia privata di singoli progetti slegati, realizzati con artisti contemporanei ed estranei a qualsiasi pretesa accademica o espositiva. Nell’impostare la forma-galeria nei termini di un resoconto (unitario soltanto a posteriori) di collaborazioni con amici pittori e scultori, Sanguineti sembra offrire al lettore una riproposizione ‘filologica’ del progetto mariniano che, come apprendiamo dalla notazione prefatoria A chi legge, veniva presentato dall’autore seicentesco in questi termini:
È da sapere che l’intenzione principale dell’autore non è stata di comporre un Museo universale sopra tutte le materie che possono essere rappresentate dalla Pittura e dalla Scultura, ma di scherzare intorno ad alcune poche secondo i motivi poetici che alla giornata gli son venuti in fantasia; né di fare Elogii distinti a tutti coloro che sono degni di loda, ma di celebrare gli uomini più illustri dell’età antica, o de’ moderni solamente i morti, o de’ vivi appena alcuni Prencipi da lui domesticamente conosciuti, ed alquanti suoi cari e particolari amici.
In forme ancor più sperimentali rispetto a Mauritshuis, nella miscellanea Ecfrasi si susseguono tipologie disparate e stravaganti di descrizione ecfrastica, in linea con la natura ibrida e variegata dei componimenti inventariati. Si tratta di testi redatti nell’arco di quasi dieci anni, dedicati a quadri stilisticamente eccentrici e tra loro incommensurabili se non antitetici, spesso in aperta polemica con l’idea tradizionale di museo (e di arte) tout court.

Troviamo, ad esempio, un caso di ecfrasi fumettistica (Lirica) dedicato a Renato Calligaro, artista udinese che si era avvicinato al genere del ‘fumetto d’avanguardia’, in una ricerca tesa ad adottare le specificità tecniche e stilistiche del comic strip ma trasferendone i contenuti dalla letteratura popolare al poema illustrato e linguisticamente erudito. Il poeta si trova di fronte a un esempio eccentrico di graphic novel, una sequenza di vignette in cui si susseguono immagini e didascalie liriche; la pratica ecfrastica si esercita, pertanto, su un oggetto artistico ibrido, un «ciclo pittorico-narrativo» che, come evidenziava Gillo Dorfles presentando il lavoro di Calligaro, contiene già al suo interno un «ductus narrativo». [fig. 4]

La sperimentazione ecfrastica viene applicata da Sanguineti anche all’architettura, genere meno investigato dai poeti del Gruppo 63 anche per ragioni materiali – è più difficile impostare una collaborazione simile a quella del libro d’artista, per l’ovvia tridimensionalità dei manufatti. Eppure, un poeta poliedrico come Sanguineti ha tentato una doppia co-operazione con l’architetto svizzero Mario Botta che si è tradotta nella pubblicazione di un sonetto in acrostico (Ab edendo) come accompagnamento dei disegni e delle planimetrie di un progetto per un’«abitazione rotonda» [fig. 5],[3] e nell’ecfrasi di un’installazione architettonica realizzata presso il Lago di Lugano (accolte, rispettivamente, all’interno di Ecfrasi e Poesie fuggitive):[4]


Mario Botta aveva realizzato, nel 1999, il modello in scala reale della sezione trasversale della chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane (e denominato «San Carlino»), posto sul lungolago di Lugano fino al 2003 (data della demolizione). La poesia di Sanguineti è interessante perché presta la voce all’architettura stessa, che chiede all’osservatore di essere guardata («guardami, me») e si auto-rappresenta nei termini di un «postCarlino bis, dimidiato e gemino»; il tema del doppio si ripete ai vv. 7-8, con le allusioni al «fantasma clonato» e al «mio doppio uterino». L’io lirico (la costruzione architettonica) ripercorre il proprio processo di dislocazione ideale dall’Italia alla Svizzera («in Ticino, io mi son sbarcato») e la poesia è interamente giocata sul rapporto pieno-vuoto che caratterizza l’opera di Botta, concepita proprio come una sezione aperta (di fatto, amputata) dell’originale romano. Questa intersezione postmoderna tra un’icona antica e un procedimento di smontaggio e riqualificazione in un contesto straniante dell’opera viene allusa anche nel finale («un cielo antico è scudo nuovo, a rifarmi emblema, propriamente»), che mantiene aperta la dialettica tra attualità della citazione («è presente questa mia assenza») e irrecuperabilità della fonte classica nella sua compiutezza.
Pertanto, anche da un punto di vista formale e stilistico, la raccolta-galeria esibisce al lettore un catalogo di possibilità espressive, un manuale esemplificativo di approcci ecfrastici a un referente artistico a sua volta sempre più restio alle forme canoniche di classificazione entro la triade quadro-scultura-disegno.
Il macrotesto mariniano rappresenta, in questo caso, una scelta strutturale impartita ex post a un patrimonio di collaborazioni pregresse, funzionando come un principio regolatore di istanze figurative dissonanti. Sanguineti ‘musealizza’ le proprie esperienze interdisciplinari, riproponendo al lettore un modello facilmente riconducibile al canone tradizionale, grazie al quale si possa disciplinare entro un ‘racconto’ unitario e centralizzato un insieme eterogeneo sotto il profilo diacronico, stilistico e di resa ecfrastica dell’oggetto figurativo, in un esempio ancor più spregiudicato di Galeria novissima.
[Il testo è ritagliato, con alcune modifiche, da un precedente contributo intitolato Un barocco novissimo: la ‘forma-galeria’ nella produzione poetica della Neoavanguardia, in Parola all’immagine. Esperienze dell’ecfrasi da Petrarca a Marino, a cura di Andrea Torre, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2019, pp. 249-265. Oltre alle due raccolte sanguinetiane, nel saggio venivano prese in esame anche Pinacoteca di Valentino Zeichen (1983) e L’abolizione della realtà di Adriano Spatola (1975)].
Immagine di copertina: Edoardo Sanguineti, ph. Vincenzo Cottinelli
[1] Edoardo Sanguineti, Joachim Wtewael, in Il gatto lupesco. Poesie 1982-2001, Feltrinelli, Milano 2002, p. 178.
[2] Pieter Claesz, ivi, p. 179.
[3] Per questa prima poesia (ivi, p. 141), si veda Mario Botta, La casa rotonda; contributi di Edoardo Sanguineti, L’erba voglio, Milano 1982.
[4] Guardami me, in Il gatto lupesco, cit., p. 420.