
Con le sue improntitudini malmostose e i suoi scazzi improvvisi, con la sua tracotanza controveritativa (mica poco allegorica) e il dandismo trash dell’abiezione, ma anche con la sua scrittura sfrecciante e la sua erudizione avantpop, il suo sound sobbollente e insieme algido, Remoria di Valerio Mattioli, estremizzazione parossistica della fantasy suburbana a ritmo rotatorio, derviscio, di Iain Sinclair e Gianfranco Rosi (ma pure del Tommaso Pincio di Panorama), è il miglior controveleno all’icona posticcia, alla cartolina kitsch che della Città Eterna ha prolungato, nel nuovo secolo, l’atroce Grande bellezza di quel granturista for dummies hollywoodiani che è Paolo Sorrentino; ma anche alle non meno eterne rimuginazioni degli urbanisti bennati, sempre fiduciosi nella nuova utopia di una rigenerazione razionalista e “di sinistra” (come non fossero stati i non meno razionali rigeneratori delle generazioni precedenti ad accumulare, errore pretenzioso su pezza a colori per rimediarlo, la Piramidale Merda Fascista che è oggi la «roma capoccia der monno infame»). Ma non va preso neppure come una proiezione in cinemascope della non meno compiaciuta, a rovescio, denuncia a dito teso della romafaschifo elettronazionalsocialista. Perché il suo autore si presenta ben addentro, l’apocalisse che descrive. Peggio, la ama. Per questo ipocritamente, dalle forre neotropicali e cthulhu di una Centocelle che mai si gentrificherà, lo saluto mio fratello.
Andrea Cortellessa