«Un regista deve avere una pelle molto dura e un’anima molto sensibile, simultaneamente»
Il regista, quel miserabile figlio di puttana, oggi deve sempre più spesso mettersi a cercare dollari e sterline, scroccare lire, franchi e marchi, ipotecare la casa di famiglia e i gioielli di sua moglie e il futuro per poter fare il proprio film. Questa raccolta di finanziamenti occupa da dieci a cento volte più tempo della realizzazione del film in sé. Ma il regista lo fa perché non ha scelta. Chi altri dovrebbe farlo? Chi altri ama così tanto il film?
Con queste parole Elia Kazan si rivolge agli studenti dell’università privata di Wesleyan, Connecticut. È il settembre 1973, l’anno successivo all’uscita de I Visitatori. Dopo aver realizzato un film come Il compromesso (1969), con un budget di 6.800.000 dollari e con Kirk Douglas protagonista, I visitatori rappresenta una sfida non da poco.
Kazan lo gira con 135.000 dollari, un budget ridicolo secondo i parametri hollywoodiani, e un cast di attori esordienti, tra cui un James Woods in erba. «È stato un disastro finanziario, ma ve lo raccomando vivamente», dichiara Kazan e io sottoscrivo. I visitatori è un’opera insidiosa, problematica, così spiazzante da offendere in blocco l’America benpensante, pubblico e critica, un dramma claustrofobico così seminale da preludere, coniugandoli, Funny Games (Haneke, 1997) e Vittime di guerra (De Palma, 1999).

di La valle dell’Eden (1952)
Tra i giganti del cinema hollywoodiano, Kazan è uno di quelli che è invecchiato meglio. Arrivato il momento di godersi i risparmi e fare capatine all’Actors Studio atteggiandosi a grande vecchio, Kazan si fa venire non pochi grilli per la testa. Nel 1995, a un anno dalla morte, ha un nuovo progetto in cantiere – Beyond the Aegean, che annuncia come il suo film più impegnativo e più audace – e un unico rammarico: al nostro 79enne il cazzo non viene più duro come da ragazzo.
Nella medesima conferenza, a proposito delle qualità che al regista non devono mancare, Kazan annovera la fermezza di un domatore di tigri, la furbizia di un mercante di Bagdad, l’accanimento del divoratore di libri, il gioco di gambe di un terzino, la dolcezza di una madre, il rigore di un padre vecchio stampo, la preveggenza di un meteorologo, l’elusività di un ladro di gioielli, la visione di un pornografo in materia d’incastri corporei, la cognizione del dolore e il gusto del sacrificio: tutto per la causa. E soprattutto il coraggio.

James Woods sul set di I visitatori (1972)
Kazan cita Winston Churchill: «Il coraggio è la virtù più grande, rende possibili tutte le altre». Se c’è un coraggio che non è mancato a Kazan, come dimostrano i suoi film migliori, è stato il coraggio di sprofondare nella propria esperienza interiore, di scandagliare i propri conflitti biografici fino alla feccia, cercando nell’arte lo scampo e il riscatto di un uomo che ha vissuto e amato, creato e sbagliato, traendone ammaestramenti tanto intimi quanto universali.
Kazan cita Churchill come Scorsese cita Kazan, nel documentario omaggio che, nel 2010, dedica al suo ispiratore mentore amico, al regista che più profondamente lo ha influenzato, A Letter to Elia. «Very thick skin. Very sensitive soul. Simultaneously». È così, non si sfugge. Ed è proprio la durezza della pelle a difendere la sensibilità dell’anima da tutto lo schifo che il regista deve guadare per arrivare a fare l’unica cosa che vuole fare.
Se un poeta, un pittore, un musicista possono permettersi di essere degli scorticati, un regista, suo malgrado, no: questo miserabile figlio di puttana non può fare a meno dei suoi calli.
Immagine di copertina: Marlon Brando ed Elia Kazan sul set di Fronte del porto (1954)