Dal Bosco verticale di Milano al Moka Efti di Berlino – “Gli Impiegati” 1

Tutti i giorni il giardino che fa da cornice al cosiddetto “Bosco verticale” di Milano diventa lo scenario per servizi di fotografi di moda, per spot pubblicitari e per tanti altri spettacoli ancora. Il giardino ha sempre le aiuole, le piante e i cespugli perfetti, i giardinieri e gli spazzini sono sempre al lavoro per trapiantare, estirpare, diserbare, raccogliere cicche e cartacce. Ma questo giardino è appunto solo una cornice, perché il pezzo forte dello scenario sono i due palazzoni sullo sfondo le cui balconate sono stabilmente impreziosite da una cascata di piante e tanti alberi tenuti su da cavi.  Più del fatto che questo luogo sia diventato lo scenario per la moda e la pubblicità, suscitano sorpresa e tanti interrogativi nell’osservatore i moltissimi passanti, turisti e cittadini che scattano foto, si fanno dei selfie, tutti ostentatamente orgogliosi dell’incantamento che sfoggiano nell’unirsi per un istante, in immagine, allo splendore dei due grattacieli divenuti in pochi anni uno dei principali simboli di una presunta ‘nuova era’ della metropoli milanese. L’apice dell’eccitazione per coloro che si recano in pellegrinaggio al “Bosco verticale” lo si raggiunge quando i pulitori-acrobati al servizio dei grattacieli si offrono involontariamente allo sguardo degli adepti calandosi rispettivamente dai 110 e 76 metri delle sommità delle torri per lucidare le vetrate o per togliere foglie e rami secchi, altrimenti irraggiungibili. Uno degli aspetti più interessanti della questione è che molti degli adoratori delle torri progettate dall’architetto Boeri – e poi acquistate o affittate a prezzo da capogiro (15.000 euro al metro quadrato e 1.500 euro al mese di “spese condominiali”) da grandi, medie e piccole star del mondo dello sport, dello spettacolo e della finanza – sono evidentemente persone che faticano a tirare alla fine del mese, sempre più numerose nella città di Milano e in Europa. Che cosa spinge impiegati, studenti, operai o disoccupati a dedicarsi al culto di una cattedrale del lusso? Che senso ricopre nelle esistenze di questi lavoratori farsi riprendere o fotografarsi con il feticcio “verticale”? Quale ruolo ricoprono questi due grattacieli nell’immaginario e nei sogni di una massa di lavoratori precari o di senza lavoro che sono sempre meno in condizione di incidere politicamente sulla loro stessa vita lavorativa e non solo?

Quando alla fine degli anni Venti le strade di Berlino e della città Germania si riempiono di impiegati, Siegfried Kracauer intuisce che la misurazione statistica – secondo cui il ceto impiegatizio è aumentato di cinque volte arrivando a 3 milioni e 300 mila mentre nello stesso periodo il numero degli operai nemmeno è raddoppiato – è importante, ma non ci aiuta a comprendere la mutazione sociale e politica che sta avvenendo. Per capire chi sono gli impiegati, occorre imparare a guardare le immagini e l’estetica di questi nuovi lavoratori, solo così possiamo comprenderne i bisogni, i sogni, solo così possiamo intuire la direzione in cui gli impiegati cercano di muoversi o sono costretti a procedere. Anche perché nella vita degli impiegati – per la prima volta nella storia – il consumo e la produzione di immagini ricoprono uno spazio e un peso fondamentale. Per certi versi, si intuisce che la loro esistenza è fatta in buona parte di immagini e questo i numeri delle statistiche non lo rivelano.

Anche alla fine degli anni Venti a Berlino gli impiegati – come tutti coloro che oggi passano in adorazione al cospetto del “Bosco verticale” – erano appena stati messi alla prova da quei fenomeni economici che ostinatamente ancora oggi sono falsamente chiamati “crisi”. In termini più concreti, si può dire che gli impiegati erano stati impoveriti, fino a scivolare materialmente nelle file del proletariato o del sottoproletariato, fino al punto che nei questionari del sindacato degli impiegati si leggono risposte in cui emerge l’assenza totale di prospettive per un futuro lavorativo ed esistenziale, al di fuori del “manicomio” o del “gas”.[1] E ancora in una di queste risposte ai questionari riportate da Kracauer si legge: “Futuro senza speranza né prospettive. Morire presto è forse la cosa migliore –. Queste parole sono scritte da un uomo trentaduenne (!), sposato e padre di due bambini”.[2]

Eppure, proprio questi impiegati proletarizzati o disoccupati a tempo indeterminato continuano a essere i maggiori consumatori di divertimento, i più importanti fruitori di piccoli lussi e i più fedeli adoratori del grande lusso. Com’è possibile una simile contraddizione? Milioni di uomini sono stati espulsi dalla ‘classe media’, con l’inoppugnabilità delle leggi del mercato sono stati impoveriti e umiliati, quando non gettati a pedate sul lastrico, eppure continuano a sognare e a essere assidui frequentatori delle immagini di ciò che più o meno direttamente ha decretato con la forza di una legge di natura il loro stesso tracollo. “Malgrado lo stipendio da fame, il lavoro alla catena, l’incertezza estrema dell’esistenza, l’angoscia dell’età, lo sbarramento dei ceti ‘superiori’, in breve la proletarizzazione de facto, essi si sentono ancora la parte mediana della borghesia”, come scrive Ernst Bloch nella recensione agli Impiegati intitolata significativamente Centro artificiale.[3]

Quali sono i sogni degli impiegati berlinesi che pur impoveriti vengono attratti magneticamente dai templi della distrazione come il Moka Efti di Berlino? Che senso ha l’adorazione del lusso per un disoccupato? Tali questioni sono messe a fuoco da Kracauer con lo sguardo, nel tentativo di dare forma a una capacità di vedere che è assente dalle statistiche, dai reportage, dai lavori della Neue Sachlichkeit, e pure dalla politica dei partiti progressisti e dei sindacati.

A proposito dello stile di Kracauer, Walter Benjamin osserva in una recensione agli Impiegati (1930) che se in passato la caparbietà e la forza di penetrazione della comprensione – che evitano di scivolare in quegli accademismi che smussano “spigoli” e “angoli” fino a rendere innocuo il pensiero – erano affidate soprattutto alla “freddura verbale” ora negli Impiegati vediamo all’opera una “freddura iconica”.[4]  E ancora Benjamin, parla di Kracauer come di un “interprete politico dei sogni”.[5] In sostanza Benjamin sta affermando che un saggio come gli Impiegati di Kracauer mostra un impiego delle immagini che oppone “resistenza” al circolo illimitato di riproduzione dell’esistente, alla tendenza alla “naturalizzazione” del sistema capitalistico: lo sguardo “iconico” di Kracauer è emancipatorio perché non collabora alla produzione del “continuum” immagine-realtà cui già alla fine degli anni Venti il sistema mediatico sembra essersi uniformato. Come emerge dalla lettura del saggio, la “tecnica dello straniamento” consente a Kracauer di “cogliere i legami impersonali e anonimi della dinamica sociale, le catene di consenso che si intrecciano sul filo dei desideri e delle aspettative che, a loro volta, promuovono”.[6] In questo solco tracciato da Kracauer potremmo inserirci anche noi oggi, se intendiamo cercare di comprendere una serie vastissima di fenomeni analoghi a quelli che riguardano gli impiegati berlinesi degli anni Trenta, intorno ai quali ruota l’esistenza attuale degli uomini di tutto il pianeta. 


[1] Infra, p. 69. Una delle migliori introduzioni a molte delle questioni del pensiero di Kracauer è il saggio di Remo Bodei, “Le manifestazioni della superficie”. Filosofia delle forme sociali in S. Kracauer, pubblicato come Introduzione a S. Kracauer, La massa come ornamento, tr. it. di G. Amirante Pappalardo e F. Maione, Prismi, Napoli 1982. Una sinossi dello scritto di Kracauer che mette in luce la pressante attualità delle questioni affrontate è quella di Marco Belpoliti, Siegfried Kracauer, Gli impiegati, in “Doppiozero”, 25 agosto 2019:https://www.doppiozero.com/materiali/siegfried-kracauer-gli-impiegati

[2] Infra, p. 69.

[3] E. Bloch, Centro artificiale. A proposito degli Impiegati di Kracauer, in Eredità del nostro tempo, tr. it. di L. Boella, Il Saggiatore, Milano 1992, p. 21.

[4] W. Benjamin, S. Kracauer, Gli impiegati, in Id., Opere complete, Scritti 1930-1931, vol.  IV,  a c. di R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, E. Ganni, Einaudi, Torino p. 145.

[5] Ivi, p. 146

[6] R. Bodei, “La manifestazione della superficie”, in S. Kracauer, La massa come ornamento, cit., p. 9.

è docente distaccato all’Istituto nazionale Parri; insegna Filosofia contemporanea e Storia della comunicazione sociale all’Accademia di Brera; è docente a contratto al Dipartimento di Filosofia “P. Martinetti” della Statale di Milano. Al centro dei suoi studi la cultura visuale, il rapporto tra immagini e storia e l’uso politico delle immagini; le forme della testimonianza. Tra le ultime pubblicazioni: diversi capitoli in A. Pinotti (a cura di), “Costellazioni. Le parole di W. Benjamin”, Einaudi, Torino 2018; “Le immagini delle guerre contemporanee” (Meltemi, 2018), “Filosofia della fotografia” (con F. Parisi, Raffaello Cortina, 2013), “Potenza dell’arte e necessità dell’estetica” (Mimesis, 2012). Ha curato l’edizione italiana di diversi testi tra cui Petter Moen, “Møllergata 19”, Quodlibet, 2019; E. Jünger ed E. Schultz, “Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo” (Mimesis, 2017, 2 ed.); S. Kracauer, “Gli impiegati”, Meltemi, 2020; K. Tucholsky, J. Heartfield, “Deutschland, Deutschland über alles”, Meltemi, 2018. È membro della redazione di “Italia contemporanea” e di “Novecento.org”; dirige la collana “Estetica e culture visuali” di Meltemi.

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