Vedere! Vedere ! – il desiderio ardente del marinaio, come per altro della nostra cieca umanità. Vedere chiaramente il cammino davanti a sé è l’aspirazione di ogni essere umano nel corso della sua esistenza nuvolosa e tempestosa. Ho sentito un essere riservato, taciturno […], gridare con passione […]: “Buon Dio! Se almeno si potesse vedere qualcosa!”
(Joseph Conrad, Lo specchio del mare)
Subire il mare, spazio ed enigma che non si ritrae, affidarsi alle sue pieghe leggere, incontrarne i movimenti infiniti, le oscillazioni antiche e lontane. Che via ci offre l’immagine?
La scelta fatta da Tacita Dean, girando in 16 millimetri Amadeus, è stata quella di restituire lo sguardo al suo ruolo naturale: l’attraversare.
Salpando prima dell’alba a Boulogne sur Mer a bordo dell’Amadeus, una piccola imbarcazione che dà il titolo all’opera, inizialmente immersa nell’oscurità poi rivolta a mare e cielo d’Inghilterra, Tacita Dean si dirige a Folkstone. Luogo natale. Filmando con la cinepresa la traversata, risponde all’invito rivoltole nel 2008 dalla Triennale di scultura della sua città.
Occorrono 52 minuti per giungere dal continente all’isola, lungo una via oggi meno battuta, nota a pescatori e clandestini e ai turisti meno fortunati, ma un tempo rotta quasi imprescindibile per raggiungere il Regno Unito. Domani chissà. Il film che avrà la stessa durata, 52 minuti, terminerà praticamente sotto la casa di famiglia dell’artista sulla costa d’Albione, non lontano dal vecchio porto dei ferry.
La cinepresa apre l’orizzonte. Viaggia verso il più prossimo e il più lontano. Ci porta ai confini di noi stessi. Memoria e oblio. L’interiorità come tale si offre incessantemente e sotto voce: spazio di inquietudine e di tranquillità.
L’immagine è sensibile a tutto questo: oscilla, si sofferma, si astrae. Si perde in un nero nascente, si concede a tratti alla tenebra. Si lascia accarezzare dal transito di una nave illuminata che per un brevissimo tratto l’accompagna. Sa chiarire l’orizzonte della notte, sa scoprire i contorni del moto ondoso, del suo scendere e salire inventando il paesaggio. Sa incendiarsi nei dettagli del giorno, incrociare misteriose altre barche in navigazione, restare alla boa del tempo, perdendosi all’interno dei minuti, mentre il proiettore è l’eco in sottofondo di un motore sul mare.
Eppure in questo muoversi e arrivare esiste, come una sobria follia, anche una fissità del mare stesso. Lo sguardo sembra in certo qual modo farsi incanto, concedersi all’onda. L’esplorazione di un desiderio riposa e si estenua, in questo straordinario scarto tra movimento e stasi, in questo stato d’animo di completa accondiscendenza e agilità del quale già Conrad parla nei suoi scritti. È la fragile semplicità di un passare, i cui fini rimarranno parzialmente ignoti: chi osserva non conoscerà infatti la destinazione del viaggio, ma ne presentirà l’importanza. Salito a bordo percepirà però una navigazione condotta con la finezza della passione – con l’incertezza concreta e totale dell’esperienza, con la pienezza mai conclusa del guardare.

Amadeus (swell consopio) è un film muto: oppure ha il suono, ancorato alla vita, del mare – spesso protagonista nelle opere di Tacita con le sue ricompense e le sue ingiustizie, con le sue speranze sempre da cullare.
Avventura mentale ed empirica che acquisisce per magia piano piano natura di paesaggio, il cinema diventa materia prima da attraversare, stasi e movimento in cui guardare la vita. L’ignoto sale a bordo. C’è qualcosa di misterioso per chi filma e per chi osserva, la narrazione è quasi immobile ma in maniera incantata e segreta avanza. Proiezione e introiezione quasi coincidono e vicinanza e lontananza così si rovesciano. Con poco sembrano dare consistenza a una navigazione che oscilla in maniera ormai naturale tra spazio e tempo.
Senza farsi un’opinione, è l’istinto che inquadra; con abilità coglie un movimento. Continuo. Trasporta un carico prezioso: la trasparenza e l’opacità del mare. E fa di quello che i sensi percepiscono una distesa senza limiti certi dove a tratti irreale e astratto ma a tratti corporeo e carnale l’incresparsi dell’oceano è un impulso dal quale scaturiscono infiammati di desiderio e pentimento sentimenti di partenza e ritorno.
C’è una sorta di musica interiore e in movimento. Nautica.
Disfatta piano piano l’attesa, in maniera incontrollata lo sguardo incontra senza filtri nell’ignoto qualche onda appena più alta, i gabbiani, il disegno nascosto di altre navi. Il passare del tempo è da sempre uno degli elementi chiave di ogni osservazione del paesaggio e qui Tacita Dean decide di lavorare d’après nature filmando a raso sul motivo, facendo del mare un tema in cui annullare e variare il movimento. Il paesaggio, che è di solito una delle metafore più compiute della costruzione, qui è esteso al suo farsi altro da sé e diventa una sorta di rovina marina.
Il passeggero di Amadeus va perdendo attraverso il cinema le nozioni di spazio e di tempo. Non sapere più in quale spazio e tempo ci si trovi è colto quasi come fosse un privilegio dell’essere umano. Ma dove siamo? In quel che ci struttura, che ci crea, che ci costruisce o in quel che ci disfa, ci muta, ci risolve? Cosa cela della partenza ogni ritorno? Cosa c’è del ritorno a sé nel partire? Occorre oscillare essere inversione.
Il sentimento d’essere sempre alla stessa distanza da sé stessi nell’avanzare del tempo però è contraddetto poco a poco e da questo dolce derivare scaturisce tanto l’apparire di un’altra riva che il passato. È un paesaggio umano, interiore, con tutte le forze irrazionali che contiene, quello che solca la barca, ma di tanto in tanto altre barche delle quali lo spettatore ignora la rotta appaiono e se ne vanno. C’è qualcosa di atmosferico nel sentimento. Siamo presi da qualcosa che ci concerne, nel senso più stretto del termine, ma che sempre ci eccede. E come in altre opere di Tacita (i suoi film su Merce Cunningham, su Francesco, su Morandi, su Mario Merz) il paesaggio è ritratto. C’è una sorpresa fondatrice alla base di ogni ricognizione. Affine all’inerzia e al movimento, alla possibilità e all’impossibilità, il paesaggio passa senza davvero passare. Il rollio in esso è immensità. Ci permette di scoprire, di fare della lenta abitudine, della contemplazione della provenienza e del destino altrettanti strumenti di resistenza. Il rollio, il vissuto, è il sistema stesso del pensiero. Nel suo situarsi critico c’è traiettoria ma nulla spiega da cosa muova questo non finito cullare in cui nulla si fissa e tutto muta.

I segni sereni o inquieti che l’occhio isola per un istante sono il paesaggio nel quale ci si perde. L’inesorabile metamorfosi del noto nell’ignoto, la scoperta del nascosto nel visibile e viceversa creano un vocabolario in movimento di tracce che ci riconducono al profondo, a ciò che in noi è più intimo, difficile di solito da cogliere. Tutto ha però una sua chiarezza nello sguardo. Un conflitto delicato, un accordo spontaneo. La barca attraversa.
Spettatore e viaggiatore sono uniti nel loro passare, affrontano la cadenza, quel movimento in divenire del mare, che l’incidente in ogni instante può mutare in destino.
In quel che la cinepresa di Tacita lascia intravvedere in seno alle correnti, i limiti di un osservare odierno emergono: esiste ancora in noi uno sguardo senza età che sia capace di mescolare tutti i tempi del mare e le terre da lui unite? Rivolgendoci alla sua innocenza sentiamo la sua violenza inesauribile e infinita. Il mare e la sua strana energia. Lasciata esistere. Nello sguardo. In ogni onda.

E indeterminabili costellazioni sovrastano l’oceano. La cinepresa coglie in superficie sfumature, esitazioni, svolte, curve, linee che si cancellano ed eccedono il rappresentabile. Lo fa accettandole per quello che sono: mare. Paesaggio celeste e marino.
Il senso del tornare rimane sconosciuto ma da subito inventa in noi un rapporto più profondo alle cose, Il fatto che nulla ci sia dato di sapere in anticipo si mescola al nostro sentire. Emerge nella navigazione tutta la capacità di introdursi senza riserve nel contorno aperto del vivere. È questo il nostro proprio sentire. Ma introducendosi in questo spazio-tempo ognuno perde il possesso di sé. Il visibile è contorno aperto, assume nuova dimensione. Tornano a contare l’incertezza e la meraviglia ancor più di altre sensazioni. L’ostilità dello spazio acqueo, la sua influenza sulla nostra conoscenza diventano più chiari laddove constatiamo una perdita dei limiti.
Nasce un rapporto ai segni che ci circondano. Seguendo il ritmo delle onde viene resa all’immaginazione la libertà. Veniamo avvicinati al punto d’incertezza in cui non si sa più quale profondità o quale intensità si stiano nascondendo all’orizzonte. Circoscrivere di conseguenza una nuova maniera di osservare il volere tuttavia diventa necessario pur non essendo semplice.
L’idea stessa di orizzonte a bordo di Amadeus è poco a poco sostituita da una nuova sensazione difficile da definire, dell’ordine della pura presenza di un volere. Se è forte è un’espressione timida, l’azione è minuscola, non fa che metterci davanti a una constatazione che assume forma di dubbio e di domanda. C’è qualcos’altro che non vediamo? E intanto il rumore del proiettore che la nostra immaginazione trasforma nel motore che permette di far rotta verso una riva ci sottrae a tratti all’immagine, ci riporta alla sensazione vissuta, interamente vissuta, dell’esperienza, della traversata. Si è come cullati dal rumore meccanico del dispositivo nella sala d’esposizione e l’avventura che ognuno percepisce come personale del tempo della proiezione porta a scivolare piano piano al di là degli stati percettivi in una sorta di allucinazione del tempo e dello spazio. Da un lato perché quel che la cinepresa coglie è il venire a galla di un io e delle sue oscillazioni, dall’altro perché l’occhio che guarda attraverso di essa è confrontato a qualcosa di troppo grande che l’eccede, che eccede la sua storia e mette in scacco sia la tecnica (ovvero l’arte) che il soggetto. Da quanto sorpassa il soggetto ma lo ancora in maniera ancora più acuta nel percepire scaturisce l’affetto della visione. Ciò che influenza e condiziona lo sguardo. Filmare la forza del mare è filmare alla frontiera tra la visione e l’immaginazione. Filmare il modo in cui si formano le forme. Le forme del vivere appassionate, le forme che nulla sanno di ciò che spetta loro. Farlo in maniera spettrale cogliendole già sul punto di disfarsi una volta formate è la sfida. I riflessi, gli indicatori marini nella notte, il diventare luce dell’onda, il riflesso dorato, tutto quanto è astratto e terribilmente concreto, un punto bianco, un punto rosso, un faro, un fanale, le immagini ci dicono che c’è tutta una durata un attardarsi che non si può calcolare nel paesaggio. Punti, fari, fanali, prima alcune luci poi diverse poi una ma sempre più lontana poi la luce del giorno. Nella notte mare e cielo indistinti sino all’arrivo della luce che capovolge la percezione creando un altro tipo di bianco attraverso i ricordi, gli schizzi , la spuma, la luce opalescente, il volo dei gabbiani.
Mentre il rumore del tempo e dello spazio, cadenza e linea, incarnano quella facilità incomprensibile che c’è nella banchina per chi parte e chi torna, si sente che ancora non è compiuta affatto nell’arrivo la fatica.
Tacita Dean, Amadeus (swell consopio), 2008. Film 16 mm, muto, colore. 52 min.