Homo sapiens nasce come homo pictor, produttore di immagini. L’istituzione dell’immagine è un gesto che decide un segno, marca uno spazio avvenendo nel tempo. Il gesto avviene in un momento preciso, in un luogo preciso; eppure il suo farsi presente nello spazio è essenzialmente, cioè per sua essenza, un rinvio a un altrove, a un altro tempo. È la traccia che segna un’assenza: all’origine, quella del corpo morto, un tempo presente, ora dissoltosi per tornare alla terra. Le pratiche arcaiche di produzione delle immagini sono tanatoprassi: tecniche per far fronte allo sconvolgente divenire immagine del vivente, farsi cadavere. Il corpo che è appena passato a miglior vita è la prima immagine del corpo vivente: è e non è quel che era.
La storia delle etimologie, soprattutto di quelle inconsistenti, è sempre ricca di suggestioni meritevoli di essere meditate. Particolarmente eloquente quella che vorrebbe il termine cadaver derivato da un acronimo latino: “ca-da-ver”, “caro data vermis”, carne data ai vermi. Più affidabile sembra la derivazione dal verbo latino cadĕre, cadere. Chi muore stando in piedi, cade. Il canto V della Commedia lo ha del resto suggellato in un noto verso: “E caddi come corpo morto cade”.
Con il sopraggiungere della morte viene definitivamente meno la possibilità della stazione eretta: quella fondamentale conquista dell’umanità che ci ha distinto dai nostri progenitori animali, ci ha permesso di liberare le mani dalla funzione deambulatoria e ci ha consentito di imboccare una cruciale pista dell’evoluzione della specie. Una conquista che ciascun piccolo d’uomo deve sempre di nuovo imparare quando nasce, e che ciascuno di noi deve sapersi meritare ogni mattina al risveglio.
Una conquista talmente importante che la coppia alto/basso (insieme alle cugine davanti/dietro e destra/sinistra) è per l’essere umano una differenza spaziale basilare, capace tuttavia di caricarsi di valori profondamente simbolici, in grado di tradurre nei termini della spazialità una complessa costellazione di senso.
La pietra sepolcrale arcaica, ficcata nel terreno come segno del corpo morto, è un gesto che contrasta quella fatale caduta: è un’immagine eretta, e che – pur essendo fissa – diciamo ergersi verso il cielo, quasi la vedessimo sempre di nuovo innalzarsi verso l’alto. Si erige un monumento, a memento di chi è caduto. L’architettura tutta consiste di questo fondamentale rapporto dialettico fra il peso che grava verso il basso, che vuole cadere, e la forza che a questo cadere si oppone, spingendo verso l’alto. La relazione elementare fra colonna e architrave incarna questo contrasto nel modo più icastico.
La natura vuol cadere: così si potrebbe tradurre, in un linguaggio che la personifica attribuendole delle intenzioni, la legge di gravità. La volontà dell’uomo, che si esprime nell’arte e nella tecnica (in fondo i greci avevano un solo nome per entrambe, techne), si oppone a quella volontà di caduta, ed erige. Questa erezione è un dar forma alla materia, una configurazione che converte la spinta verso il basso in un movimento verso l’alto. Il corpo che muore non solo cade, ma si deforma, dissolvendosi perde la sua forma, la materia sconfina rispetto a quei limiti che la vita le aveva conferito. Se un edificio cade in rovina, per il passaggio del tempo e l’incuria dell’uomo, cade perché in quel contrasto prende il sopravvento la natura, che si riappropria verso il basso di quel che l’arte le aveva strappato, costringendola ad alzarsi tramite le sue forme. Il senso di pace che promana dalle rovine – lo ha ben detto Georg Simmel in un saggio a esse dedicato – scaturisce proprio da quella risoluzione del conflitto, dal venir meno di una tensione: la materia ritorna finalmente a casa. Morire è, in fondo, un atto mnestico, una rammemorazione: l’organico si ricorda dell’inorganico, e vi ritorna. La vita – non è forse questo, in ultimo, il senso del Fedone platonico, del Freud di Al di là del principio di piacere? – è un (più o meno) lungo prepararsi a morire.
Perché queste lugubri riflessioni, se dobbiamo parlare di Sophie Ko, della sua arte? Perché l’arte di Sophie Ko è la messa in scena di questa vicenda, delle sue tensioni drammatiche, della sua soluzione sempre rimandata, e quindi sempre di nuovo rappresentata. Sophie Ko lascia cadere. Lasciando cadere, lascia accadere.

Lascia cadere: le cascate di pigmenti puri, di materiali combusti, di polveri, scendono verso il basso, tracciando (come ci suggeriscono i titoli di alcune sue opere) “declivi”, “geografie”, disegnando cioè, alla lettera, la terra. In questo senso Sophie Ko si sottrae al gesto millenario dell’erigere, allo sforzo protrattosi per innumerevoli generazioni di opporsi alla gravità. Acconsente alla spinta verso il basso, che accompagna anzi con complicità.
Lascia accadere: quelle cadute non sono improvvise, si distendono, molto lentamente nel tempo. E nel tempo disegnano forme sempre nuove. La storia delle teorie delle arti visive si è spesso e volentieri polarizzata nella distinzione fra immagini statiche (la scultura, la pittura, la fotografia) e immagini dinamiche (il cinema, il video, l’arte elettronica). Impossibile applicare questo criterio a Sophie Ko: sono quadri, ma si muovono. Di quelle coppie elementari di cui ho detto poco sopra – alto/basso, destra/sinistra, davanti/dietro – le opere di Sophie Ko rispondono solo alla legge della prima: una volta terminato l’accadere della caduta, mi piace pensare che le si possa girare sottosopra, come una clessidra che debba essere nuovamente messa in moto. La cornice che conchiude la serie di accadimenti diventa così una sorta di maniglia per riattivare il processo.
Le rovine, ci dice ancora Simmel, sono di due tipi: quelle che la natura ha spontaneamente prodotto, riappropriandosi di quel che le era stato strappato a forza dall’uomo; e quelle che l’uomo stesso ha intenzionalmente prodotto, distruggendo le proprie stesse creazioni con atti vandalici o iconoclasti. Mi pare che l’opera di Sophie Ko abbracci entrambe queste possibilità. A cadere sono pigmenti puri, e dicendo “puri” si dice, appunto, la loro pura e vergine materialità, che non ha conosciuto l’intervento formativo e combinatorio della mano umana. Ma a cadere sono anche le polveri ottenute dalla combustione di cataloghi d’arte. In un gesto che mi sembra sotterraneamente ricongiungersi ad antiche pratiche alchemiche, Sophie Ko brucia le immagini per liberare la loro materialità, consentendo loro di tornare a casa, di cadere come ceneri. Il fuoco distrugge le forme che maestri più o meno antichi avevano conferito alla materia, riportandola alla sua più elementare disposizione: quella appunto della mera potenzialità, o capacità di assumere altre, inedite forme. Quelle stesse che si disegneranno nella caduta, aggregandosi e dissolvendosi senza posa.
Questa operazione bifronte – condotta sul pigmento puro da una parte, sulla cenere dall’altra – investe la sfera del colore in modo caratteristico: nell’un caso, ci troviamo esposti all’epifania cromatica in tutta la sua piena potenza; nell’altro caso, siamo di fronte alla negazione dei colori nell’indifferenza del combusto. In entrambi i casi, gli estremi si toccano: viene meno quell’ars combinatoria dei cromatismi tonali che nella storia dell’arte è l’analogo, sul piano dei colori, dell’attività configuratrice sul piano delle forme. Se visitate lo studio di Sophie Ko, cercherete invano la classica tavolozza in cui i colori vengono sapientemente mischiati dal pittore secondo ricette inconfessabili.
È tutta qui, l’arte di Sophie Ko? No. Ma da qui comincia. Comincia da questo porre in scena l’elementare cadere e accadere, che proprio perché elementare si lascia investire di sensi e valori ulteriori, che ciascuno di noi potrà sviluppare ponendo a contatto la propria esperienza e la propria sensibilità con quei declivi e quelle geografie, risuonando con quei colori o con la loro assenza. Capovolgendo sempre di nuovo la clessidra.
Il testo di Andrea Pinotti, qui riprodotto per gentile concessione di BUILDING, è stato scritto per il progetto “Atti di resistenza” all’interno della mostra Materie Spazi Visioni. Sophie Ko, Valerie Krause, Marco Andrea Magni, visibile a Milano, presso BUILDING, via Monte di Pietà 23, fino al 28.03.2020.
Crediti fotografici:
Geografia Temporale. Risveglio della terra, 2019 (particolare)
pigmento puro e polline dei fiori / pure pigment and flower pollen
25,5 x 31,5 cm
Courtesy BUILDING, ph. Lorenzo Bacci
Geografia Temporale. I figli di Medea, 2019
Pigmento puro e polvere d’oro / pure pigment and gold powder
90 x 50 cm (ogni pannello)
Courtesy BUILDING, ph. Michele Alberto Sereni