Oggi, 13 febbraio alle 18.00, alla GNAM di Roma, sarà presentato, alla presenza degli autori, il catalogo della mostra “Robert Morris. Monumentum 2015–2018” dal quale è estratto il testo di Federico Ferrari, qui riprodotto parzialmente.
Nella chiesa di Santa Maria della Vita, a Bologna, è custodito uno dei più singolari e straordinari cicli scultorei del Rinascimento. Si tratta di un gruppo di sette sculture di terracotta a grandezza naturale raffiguranti il Cristo morto e sei altre figure che ne vegliano il cadavere. L’autore è Niccolò dell’Arca e l’opera dovrebbe essere stata ultimata nel 1490. Il Cristo, sdraiato a terra, con la testa appoggiata su un cuscino, imprime negli spettatori una profonda sensazione di morte, non distante, ma, per certi versi, ancor più angosciante del Cristo morto del Mantegna, anteriore di dieci anni alla scultura di Niccolò dell’Arca. E’ la presenza di quel corpo umano morto, il corpo esangue di un Dio fattosi uomo, che incute terrore. I volti delle figure astanti sono inequivocabili ed estremamente espressivi (veri capolavori plastici): mostrano la disperazione angosciata di colui che ha perso ogni speranza. Il Cristo aveva annunciato la sconfitta della morte e la resurrezione dei corpi e loro vedono il cadavere, quel che di un uomo rimane quando la vita lo abbandona. Le smorfie di dolore sui visi della Maria di Cleofa o di Maria Maddalena vengono esaltati dalle vesti che, gonfiate dal vento, rendono la plasticità dei loro corpi affranti. Il compianto sul Cristo morto è una delle più maestose rappresentazioni della sofferenza umana; simbolo dell’irredimibilità della morte e dell’inconsolabile dolore derivante dalla perdita della vita e che il cadavere introduce, come un virus incurabile, nella mente del sopravvissuto. Osservando le maschere di sofferenza delle sei figure attorno al morto (e non sappiamo esattamente come dovessero essere disposte, poiché la disposizione originale è andata perduta) non si può che comprendere in profondità uno dei tratti caratteristici, a quel che gli antropologi ci hanno insegnato, della specie umana: la sepoltura dei morti. Il corpo inanimato, se non occultato tramite la sepoltura, porta con sé il terrore della morte, il suo mistero inquietante o quello che i mistici chiamano il mysterium tremendum, l’insostenibile sguardo sulla realtà ultima. E certamente il Compianto, il pianto comune dell’umanità, sul Cristo morto, non è solo la rappresentazione di un lamento funebre, ma incarna, attraverso una potenza plastica ineguagliata, la disperazione derivante da una promessa mancata: la vittoria sulla morte nella resurrezione dei corpi. In un certo senso, in tutta l’arte cristiana, in tutta l’arte nata nell’attesa del realizzarsi della lieta novella, attesa plurimillenaria, quando invece il Cristo annunciava già con la sua venuta l’avvento del Regno, si insinua il sospetto di una promessa mancata, di un’attesa delusa. La storia del cristianesimo e della sua arte (che, in buona parte, coincide con l’arte dell’Occidente) è l’oscillazione visiva tra un atto di fede e la sua delusione più cocente, tra la vittoria sulla morte e il trionfo definitivo di quest’ultima sulla vita.

Le sculture che Robert Morris realizzò negli ultimi anni della sua vita, e che sono ora in mostra a Roma, ricordano le sculture di Niccolò dell’Arca, non foss’altro che per una vicinanza cromatica e per la potente centralità del ruolo delle vesti e dei drappeggi. I due cicli furono originariamente esposti nel 2015 (MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS) e nel 2017 (BOUSTROPHEDONS) presso la Galleria Castelli di New York. Morris aveva ottantaquattro anni quando espose le sue prime opere in lino imbevuto di resina, nelle quali, in modo inequivocabile, il centro della scena è occupato dalla morte. Non sorprende, ovviamente, che un artista di quell’età abbia rivolto la propria attenzione a questo soggetto. Quando, infatti, un essere umano varca la soglia della maturità – e questa soglia può essere posizionata diversamente da individuo a individuo –, quasi ineluttabilmente, subentra un pensiero dominante che, a seconda dei casi, diviene ossessivo o latente: il pensiero della morte appare prepotentemente nella sua enigmaticità. Se, negli anni della giovinezza, lo slancio vitale spinge verso la ricerca di dimensioni ulteriori del possibile, in tutte le sue sfumature – sfumature che, nel caso di Morris, andarono dalla performatività alla più potente e fredda astrazione minimalista – relegando la presenza della morte in una dimensione che si pone al di là della propria esperienza vitale del mondo, con la maturità la sua inquietante presenza irrompe nel quotidiano esistere. La morte non è più semplicemente posta nell’aldilà ma si muove nel qui e ora. Senza tregua, la morte si insinua nelle giornate; nella luce crepuscolare che ogni ricordo assume; nello svanire delle certezze che avevano guidato le nostre scelte; nella corruzione e nel decadimento del corpo. Improvvisamente, il pensiero della morte diventa un’ombra inseparabile dalla nostra vita. La morte instaura un processo speculare alla vita, diventa quasi la scansione ritmica di un va e vieni nel quale il pensiero gira su se stesso, spesso sfinendosi. Continuamente, noi passiamo dalla vita alla morte, in ogni cosa vediamo questo passaggio. La sola certezza che abbiamo di essere vivi è che questo cammino dalla vita alla morte sia bustrofedico, cioè vi sia sempre un ritorno, un ripercorrere i propri passi, alla maniera dell’aratro trainato dal bue che – aprendo solchi, ferite, squarci – rende fertile la terra per mezzo di un percorso che punta in una direzione e poi raddoppia, a ritroso, nel senso opposto. Il pensiero della morte diviene questo movimento ritmico, di andata e ritorno, attraverso cui la vita riconosce il proprio doppio e il proprio sempre nuovo senso o non-senso.

© 2020 The Estate of Robert Morris / Artists Rights Society (ARS), New York
Le figure che Robert Morris presenta nelle due serie BOUSTROPHEDONS e MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS sono manifestazioni di questa tonalità emotiva fondamentale, di questa incombenza della morte, della sua enigmatica presenza. Morris, a dispetto dell’immagine più diffusa e stereotipata di esponente di un’arte minimale, astratta e di totale rottura con ciò che l’ha preceduta, è stato uno degli artisti del secondo Novecento che più ha riflettuto e più è entrato in dialogo con la tradizione artistica antecedente. Inevitabile era, quindi, per lui, il confronto con i temi e i soggetti portanti di questa tradizione. E, ovviamente, con il soggetto più ricorrente di tutta l’arte occidentale: la morte. Le figure che costituiscono l’umanità di questo ciclo morrisiano sono state realizzate utilizzando manichini sui quali sono stati posti i drappeggi, imbevuti di resina. I manichini sono stati poi rimossi, dando vita, una volta ricomposti i drappeggi, a esseri senza corpo; esseri di cui è rimasta solo la traccia di un corpo ormai assente, rimosso.
In un certo senso, queste opere di Morris parlano, in primo luogo, di una rimozione del corpo. Una rimozione, naturalmente, anche in senso psicanalitico. Il corpo è il grande rimosso della nostra civiltà. E, ancor più, il corpo morto. Quali siano le ragioni di questa rimozione è, chiaramente, domanda che si presta a molteplici risposte. Non ultima credo sia quella attesa escatologica frustrata sulla quale si fonda l’Occidente nella sua anima messianica. Il corpo morto è la prova inconfutabile del non mantenimento della promessa. L’Occidente si fonda su questa promessa, la vittoria sulla morte e la resurrezione dei corpi. Una volta rotto il patto sancito dalla promessa dell’avvento del Regno, il solo modo per non sprofondare nella disperazione, testimoniata dai volti delle figure di Niccolò dell’Arca, è allora rimuovere il testimone di questo fallimento, il corpo, non solo il corpo di Cristo ma il corpo dell’umanità mortale. E questo mostra Morris: una civiltà ossessionata dalla morte e che rimuove il corpo morto, lasciando solo un simulacro di morte, una morte virtuale, immateriale, inumana. I panni di lino di Morris sono, in fondo, dei sudari. Estremi resti simbolici di veroniche sulle quali non è impresso nessun volto. Resta solo il volume di un corpo, svanito e non risorto. Il ciclo di Morris è un’interrogazione su questo assentarsi o scomparire del corpo.

In un’opera come Keep It To Yourself (2014-15), chiaramente ispirata al Cristo morto (1475-78 ca.) del Mantegna, questa rimozione appare evidente anche nelle sue conseguenze psicologiche e individuali. L’assenza del corpo del Cristo, che nel quadro del Mantegna si concentra in modo geniale sui piedi posti in primo piano, così come nel venir meno del volto corrugato e straziato della Vergine ai piedi di Gesù, lasciano lo spettatore abbandonato a se stesso, costretto a “tenersi per sé” l’angoscia del venir meno della vita (mentre nel quadro del Mantegna l’angoscia veniva, in qualche modo, riassorbita in una in una dimensione di empatia che si instaurava nel va e vieni tra i piedi del morto e lo sguardo della madre). La visione straziante del corpo va rimossa, affinché la morte sia negata. Non si vede più nulla, si distoglie lo sguardo da ciò che lo immobilizza.
[…]

Non è, così, certo a caso che un altro evidente richiamo alla tradizione artistica occidentale ripreso da Morris, in questa sua ultima produzione, sia quello a Francisco Goya e al Goya più di denuncia della condizione catastrofica e claustrofobica in cui cade l’uomo quando dimentica la propria natura pensante, la propria capacità di illuminare sia con la ragione sia con una fede aperta l’oscurità, l’ignoranza, la paura e, naturalmente, infine, la morte. In Dunce I Dunce 2 (2014-15) è ben riconoscibile la coroza (il grande copricapo conico portato da due figure prive di volto, di mani e di piedi, arrovellate e attorcigliate su se stesse). La coroza era il copricapo tipico del periodo dell’Inquisizione spagnola. Veniva, in particolar modo, posto sul capo degli eretici. La coroza,assieme al sambenito, sorta di sacco di lana con un’apertura per la testa, era, originariamente, un simbolo di contrizione per gli uomini pii e, in seguito, un segno di infamia per coloro che erano sospetti di eresia o stregoneria. Entrambi compaiono in diverse opere di Goya, come ad esempio nell’Escena de Inquisición, (1812-19) o nel magnifico Vuelo de brujas (1797-98), sul capo di tre figure volanti. E Morris sembra riprendere entrambi gli elementi creando una sorta di cortocircuito temporale, passando da un’epoca all’altra: l’eresia è quella di ricordare la presenza irriducibile del proprio corpo e l’infamia diviene, specularmente, quella di un oblio ormai completo della vita, dell’elementare e semplice presenza dell’esistenza. Non restano che emblemi vuoti, simboli senza più alcuna consistenza, senza più neppure un corpo singolare da punire. E’ un’umanità, quella di Morris, senza volto, senza corpo e senza qualità. E, in questo, è vicina ma anche distante da quella di Goya. Quella del pittore spagnolo era, infatti, un’umanità per la quale era ancora possibile una redenzione; per la quale il ricordo di un momento originario, di una promessa di salvezza era ancora presente, seppur nell’estenuante ed estenuata attesa costellata di delusioni, di mancati compimenti. Per Goya l’Illuminismo è chiaramente, come per tutta la civiltà occidentale uscita dalla modernità, una nuova alleanza quando la fede in quell’antica vacilla. E’ l’ultima speranza di una redenzione dell’uomo tramite la sola forza della ragione e le sue applicazioni, in campo sociale, morale e medico. Il sonno della ragione genera mostri (1797) perché la ragione è l’ultima possibilità di sconfiggere il terrore e l’incomprensibilità del mysterium tremendum. Ma nella ragione, nella sua lucida ed astratta realtà, e nel mondo generato dalla tecnica che da essa deriva, è compreso, in nuce, il più grande dei rischi (e questo probabilmente Goya non poteva vederlo): la ragione o, meglio, la sua potenza astrattiva e dimentica di ciò che la sottende e, in primis, del corpo porta verso un mondo spersonificato, verso un’umanità senza volto, senza identità. La paura non è vinta, è solo rimossa. Della sua consistenza, così corporea, rimane solo il calco di un involucro, vuoto e anonimo. E Morris ben coglie quanto sia terribilmente inquietante e angosciante questo svuotamento, questo resto con il quale, quotidianamente, ci troviamo a confrontarci. Morti senza corpo, disperazioni senza lacrime, dolori senza spasmi.
Con la comparsa della fibra di carbonio, dalla prima serie alla seconda, al posto del lino, ultima presenza di una tradizione tragica (il sudario), si compie il disegno di questa disumanizzazione della morte e del suo mistero. Tutto assume le tinte oscure, fredde, di una freddezza tecnologica e non più organica. Non c’è più spazio per una dimensione di pietà, di lamento o di compianto sul cadavere irredimibile. The Big Sleep (2016) appare senza redenzione possibile. Puri volumi che simulano corpi, ma di cui non sappiamo nulla, di cui non possiamo sapere più nulla. Più nessun richiamo a una tradizione precedente. Giacciono a terra, senza un ordine, senza una logica, senza una liturgia che li contenga. E’ la morte senza più alcun alone di mistero. Rinchiusa in una struttura tecnologica, in una materia fredda e gelida che la occulta. Più nessuna traccia del vivente che lì giacque in attesa del trapasso. Nessuna sindone. Nessun volto. Nessun corpo.

© 2020 The Estate of Robert Morris / Artists Rights Society (ARS), New York
Siamo ormai completamente Out of the Past (2016). Subentra un elemento quasi farsesco. Il tragico si trasforma in grottesco. Le figure sospese nel vuoto tendono più verso i personaggi della Marvel che verso i disegni dell’ultimo Goya. Si tratta di un’umanità di pura finzione, sprofondata nella finzione di un mondo inesistente, fatto di plastica e ritrovati tecnologici, di superpoteri e superuomini. E’ la riduzione, presagita dallo Zarathustra nietzscheano, di ogni verità a canzone da organetto. C’è davvero un che di grottesco in Dark Passage (2017), in quelle figure che, ormai lontanissime dalle figure umane eroiche e angosciate del Rodin de Les Bourgeois de Calais (1895), vagano senza una meta, come condannati a morte con un cappio al collo, in una sorta di cieco ondeggiare nel nulla; o ancor più in quel groviglio di corpi volanti che, in Criss-Cross (2016), sembrano mimare un improbabile giudizio universale.
Ma Morris riesce a rappresentare ancora con forza il movimento bustrofedico dalla vita alla morte, dalla tragedia alla farsa, dalla verità alla post-verità e così davanti ai corpi rimossi e nascosti di The Big Sleep, sale l’angoscia verso ciò che quei teli neri e gelidi ricoprono. Riaffiora l’angoscia del corpo, la sensazione che qualcosa vi sia e che anche lì sotto il corpo morto non sia davvero rimosso. E’ l’esperienza più profonda del tragico, dell’impossibilità di un’azione redentrice, l’esposizione a una aporia, a una indecidibilità. In fondo, è l’esperienza dell’umano che, ancora una volta, risorge e ci pone davanti a quello che, da quando ci siamo staccati dal resto del regno animale, abbiamo voluto nascondere: il cadavere – ovvero, il mistero della nostra condizione mortale, della nostra umanità. La promessa fatica ad essere dimenticata e l’attesa continua.
Robert Morris. Monumentum 2015–2018, a cura di Saretto Cincinelli, Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma (fino al 31 marzo 2020).
Il catalogo, edito da Silvana editoriale, sarà presentato il 13 febbraio 2020, alle ore 18, presso la GNAM, in viale delle Belle Arti 131. Tra i relatori Saretto Cincinelli, Cristiana Collu, Lucia Corrain, Federico Ferrari e Elio Grazioli. Ringraziamo Cristiana Collu, direttrice della GNAM, e Silvana editoriale per aver concesso la riproduzione del testo su Antinomie.
Immagine di copertina:
Robert Morris, Out of the Past, 2016
© 2020 The Estate of Robert Morris / Artists Rights Society (ARS), New York