Corredo per il terzo giorno

A mia mamma, sarta.
“Meglio avere un cane che una figlia”

Tutto fu scoperto per caso in una piccola stazione ferroviaria della Cina, all’interno della regione dello Hunan; si era a metà degli anni ’50: una ragazza, presa da malore, svenne nella sala d’attesa, e venne subito soccorsa da due militari di servizio, che però s’accorsero di un fazzoletto uscito dalla tasca della ragazza con strani ricami, e cioè chiaramente con una scrittura indecifrabile. Immediato il sospetto di spionaggio e l’arresto della fanciulla. Si credette senza dubbio a un codice segreto, per spionaggio internazionale, i servizi segreti convocarono subito i maggiori esperti in decifrazione di lingue sconosciute e criptate. Ma non si venne a capo di niente.

Solo a fatica, con incredulità, e un certo sgomento, si è capito che si trattava di una lingua segreta delle donne, meglio di una scrittura segreta impiegata per secoli in quella regione e trasmessa da donna a donna, ricamata su vesti, lenzuoli, stoffe, abiti da sposa, corredi, attraverso cui le donne si trasmettevano pensieri all’insaputa degli uomini, senza essere comprese dagli uomini, in un società maschilista che  le  riteneva  esseri inferiori, figlie della disgrazia, di ogni disgrazia, e che non permetteva loro l’accesso a nessuna forma di istruzione  e stentava a credere che fossero capaci di parlare. Solo al 1989 risale la prima notizia ufficiale dell’esistenza di questa lingua segreta delle donne, chiamata Nushu e che probabilmente può farsi risalire a 2500 anni fa, scrittura sillabica, completamente diversa dalla scrittura ideografica della cultura cinese, particolarmente sonora e melodica: i maschi la prendono per scarabocchi e  ornamenti, a volte ne sanno l’esistenza ma non si preoccupano di capirla e comprenderla, giudicando cicaleccio e starnazzamento quando è parlata, non potendo poi neppure sospettare che si tratta di un sistema di scrittura trasmessa da madre a figlia, da sorella a sorella, da zia a nipote con cui le donne si dicono i loro segreti, le pene, il disprezzo per i mariti. Quasi tutti i frammenti decifrati parlano, in versi, di botte, umiliazioni e violenze. Veniva cantata e scritta, ma soprattutto cucita sui vestiti che gli uomini prendevano per ricami. Al centro c’è il libro del terzo giorno, raccolta di versi che si regalava ad una giovane sposa per l’addio e che veniva intessuto poi anche nel corredo che portava via, quando a tre giorni dal matrimonio diveniva definitivamente proprietà del marito e lasciava la propria casa, le amiche, ogni legame femminile, le uniche consolazioni. Libro interamente intessuto, e ricamato a mano, di grida e lamenti e parole e espressioni di conforto e in cui non si fa altro che ripetere che solo quando si sta con le sorelle non c’è posto per la disperazione. Ma soprattutto era sull’abito nuziale che le amiche, le sorelle o la madre ricamavano per la bambina sposa, apparentemente ghirigori e ornamenti, in realtà la traccia dolente e consolatoria del destino che la attendeva, l’addio delle sorelle, delle amiche, delle nonne: per bambine mandate come spose e schiave a uomini che neppure avevano mai visto, significava portarsi vesti, abiti, panni, teli con su intessuti carezze, parole di conforto e ricordi e la consapevolezza del proprio destino: una madre augura alla figlia, sul lenzuolo, di sentire ogni volta l’impronta dei suoi baci materni sopra ogni livido di percosse che si ritroverà; un’altra come un ruscello fluente le cuce lungo il perimetro del cuscino la ninna nanna che le cantava da piccola, da intonare ogni sera, prima di prendere sonno; una terza, una ragazza, consola la sorellina che andrà sposa con la semplice affermazione ricamata tutt’intorno all’orlo dello strascico dell’abito nuziale: “nessuno mi merita”.  

È stato Marco Giovenale a parlarmi la prima volta della lingua Nushu, ad accennarmi alla leggenda della scrittura segreta delle donne, mentre guardava e sfogliava la mia collezione di libri, tessuti, stoffe, teli, manufatti, fogli, con scritture e ricami indecifrabili di artiste di ricerca quali Maria Lai, Etlinger, Blank, Prunas, Gut, Niccolai ecc.  e avendolo io informato che mio fratello aveva appena acquistato all’asta un abito da sposa confezionato, ricamato, ornato da Maria Lai. Certo non è stato più possibile, dopo le sue parole, non vedere e riconoscere nei pezzi della collezione una passamaneria micidiale.

Maria Lai, Libro cucito, 1979
cm 7 x 6, coll. Giuseppe Garrera

Tutti libri e corredi del terzo giorno – ci siamo ripetuti, avendo l’impressione netta per la prima volta di avere in casa una lingua nemica, cuciture di segreti e intese tra donne, nel senso peggiore per noi maschi, e che non avremmo mai decifrato;  o  che addirittura, per suggestione di cineserie e misoginia, si dovesse immaginare che ricami, lenzuola, abiti, cuscini che ci hanno circondato e avvolto fin da bambini in realtà contenevano insulti e furori nei confronti della nostra razza: la leggenda  porta a leggere tutta la tradizione tessile femminile nell’Arte alla luce della lingua segreta delle donne. La scrittura Nushu costituisce un mito fondativo. Ma soprattutto c’è il tremendo sospetto che si sia presa tutta la scrittura femminile per un ricamo.

Eppure Mirella Bentivoglio trattando delle artiste di ricerca aveva già fatto un cenno a delle merlettaie pericolose, e parlato dell’attività femminile di scrittura a filo e ago nei termini di una sartoria clandestina e sovversiva dove si edificano ordigni esplosivi al tombolo e si tramano orli e frange, finiture, pizzi e nappe di disubbidienza e rivolta se non di incitazione alla libertà con tanto di guarnizioni, batiste, piquè, e addirittura (dio ce ne scampi e liberi) scolli e strascichi, coccarde e paillettes (Chiacchierino si chiama un tipo di merletto costruito su una serie di anelli e nodi e catene da cui non ci si libera più).

Tessiamo la rivolta – era stato lo slogan del gruppo femminista delle Pezze, che portava appunto in piazza e per strada pezze e rattoppi e stracci rammendati, e, in un’occasione, addirittura espose mutande di uomini, e lenzuola e coperte ridipinti e ornati a punti e croce e blasoni e orlature a bandiera a punti liberi e senza pudori. Ma pensiamo anche ai grovigli della Etlinger, ai  nodi  e alle maglie a rete per far fronte alla volgarità e alla minaccia continua della lingua costituita, di ogni codice e linguaggio; o ai lavori a tricot di Anna Paci a misurare e perimetrare e perlustrare tutta la propria prigione di donna alla ricerca di un punto di fuga o per organizzare evasioni o strategie di distruzioni, con veri e propri progetti di ingegneria militare all’uncinetto per immaginare assedi alle roccaforti e ai bastioni dell’imbecillità maschile. In alfabeta Cloti Ricciardi addirittura immagina non più un gineceo, ma un atrium  in cui insieme ad  amiche e compagne di lotta  si procede nel compito di parlare al femminile iniziando drasticamente con il cancellare, eliminare, sostituire tutte le parole e gli usi della lingua;  un po’ come nell’itinerario assoluto di Teresa Montemaggiori con  pagine di libri organizzate come organze meravigliose in cui essere finalmente libera almeno dai valori  e  tentare di vivere nell’oceano delle contraddizioni (Renata Prunas comporrà qualcosa di simile utilizzando e stendendo le  calze di nylon delle sue bellissime gambe).

Amelia Etlinger, Senza Titolo, senza data,
cm 95×95, Collezione Garrera

I campi della libertà espressiva sono sempre dolorosi. Tutte le grandi scritture sperimentali, le grafie accidentate, disubbidienti, stralunate sono scritture del disagio, lingue traumatizzate, e in questa linea anche quelle asemantiche che pure paiono scorrere e fiorire nella felicità dell’insensatezza e d’una radicalità al gioco e alla lallazione della veglia sono comunque riconducibili a una radice traumatica, legate a gravissimi disturbi dell’apprendimento e dislessie dell’anima con cui la nostra civiltà dovrebbe imparare a fare i conti. I campi della libertà espressiva sono dolorosi.

Ogni scrittura asemantica è poi di per sé un affronto, già solo nel suo non curarsi di significati e di codici costituiti di senso: se la sua origine è riconducibile sempre ad una mutilazione, ad una violenza subita, la sua indecifrabilità e vocazione all’arabesco rende ridicoli ogni alfabeto e ogni grammatica, smaschera la lingua come potere e sopruso,  come scuola di supponenza e fesseria, in alcuni casi, nella ricerca femminile, diviene nevrosi viscerale contro ogni ortografia, come, ad esempio, le certificazioni grafiche senza senso della Binga  su tutta la bella casa borghese,  sui muri,  sulla carta da parati, sui mobili, le suppellettili, i bei divani, i fornelli,  le cuccume e le  tazze-buoniacquisto della mamma e della figlia dei quattro salti in padella; ma anche i bordi, gli orli, le asole della merceria lirica della Lai sono pendagli e nappi che ricordano la disgrazia, per non dire dei gesti delle mani, estremi inconsolabili, di Ketty La Rocca, addii, saluti, appelli, cenni: una manicure dolente, chiromanzia d’affetti in vista di pratiche di sorellanza e  dei dialoghi intimissimi delle sordomute; o ancora i sussurri, i sospiri, i soffi e le mormorazioni all’orecchio, come nella parte più segreta di un gineceo d’amazzoni, di Patrizia Vicinelli, con tanto di vocalizzi e intonazioni da musica di streghe.

– Meglio avere un cane che una figlia – ci ripetiamo ormai io e Marco Giovenale, persuasi dalla misoginia cinese, ogni volta che ci vediamo e ci ritroviamo a guardare e confrontare questo materiale pericoloso di taglio e cucito e d’armeria, o quando usciamo al parco o a passeggio con le nostre rispettive figlie, e ci immaginiamo, un po’ esaltati, un destino sacrificale di padri,  nella presunzione e nella vana certezza che almeno loro faranno eccezione, che riusciremo a insegnargli  a non ubbidire all’alfabeto e alla grammatica e alla fonazione del mondo.

Immagine di copertina: Renata Prunas, Pagine (collants femminili), 1980, pezzo unico, cm. 18 x 14, collezione Giuseppe Garrera

Questo testo è stato pubblicato alle pp. 277-9 del catalogo (Macerata, Quodlibet, 2018) della mostra MAGMA. Il corpo e la parola nell’arte delle donne tra Italia e Lituania dal 1965 ad oggi, curata da Benedetta Carpi De Resmini e Laima Kreivyt e tenutasi dal 25 gennaio al 2 aprile 2018 all’Istituto Centrale per la Grafica di Roma.

nato a Roma il 21 dicembre 1962, collezionista e storico dell’arte, insegna al Master in Economia e Management dell’Arte e dei Beni Culturali della Business School de "Il Sole 24 Ore" di Roma e Milano.

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