«Tenere un diario per vederci chiaro. Non lasciare sfuggire le sfumature, i piccoli fatti che non sembrano avere alcuna importanza, e soprattutto classificarli. Bisogna dire come io vedo questa tavola, la via, le persone, il mio pacchetto di tabacco, poiché è questo che è cambiato». Antoine Roquentin, il protagonista della Nausea (1938), esprimeva così, nel proairetico «feuillet sans date» posto all’inizio del romanzo, le sue incertezze sul modo in cui sarebbe stato più opportuno descrivere la scoperta dell’esistenza nella sua pura contingenza. La scelta di disporsi alla descrizione di tutto quanto si osserva, in modo da «annotarlo come viene alla penna, senza cercare le parole», rispondeva in Sartre all’esigenza di ricondurre la propria esperienza intellettuale a osservazioni quotidiane, racchiuse in un orizzonte che si constata come limitato dal proprio sguardo e che sfuma dal centro verso i confini del proprio occhio; e ciò peraltro senza che si possa dubitare dell’esistenza di altri orizzonti. I quali – ricordava a sua volta Enzo Paci nel Diario fenomenologico (il Saggiatore 1961) – «sono sempre presenti nella stessa percezione dell’orizzonte che ora vedo» e, ove venissero meno, «esso non sarebbe quello che è»: orizzonti che si possono e potranno raggiungere; ma anche quelli che sono preclusi dall’impenetrabilità dello spazio e dall’irreversibilità del tempo, e dei quali la memoria sembrerebbe rendere ancora più manifesto il carattere sfuggente, non potendo essa che infinitamente anelare al qui-e-ora dell’intuizione, quale grado di conoscenza che precede l’attività di concettualizzazione.
Non si tratta tuttavia dell’affermarsi di un tardivo slancio romantico, necessariamente frammentario, quanto di un’apertura incondizionata all’esteriorità, la quale richiede in primo luogo una disponibilità alla descrizione che, dopo Husserl, non parrebbe poter prescindere da quella decisiva unità di misura rappresentata dal vedere. «Il vedere è l’ultimo, e il vedere non si può dimostrare, perché», si afferma in uno dei manoscritti husserliani, «ogni argomentazione fallisce se non presuppone la validità del vedere, ossia che il vedere è davvero vedere». La presa di distanza da un cartesianesimo convenzionale, incline a delegare unicamente allo “spirito” il compito di “vedere” si mostra qui già molto netta, ma è soprattutto nell’ambito delle eresie fenomenologiche sorte all’interno della scolastica husserliana che essa si mostrerà ancor più evidente, fino a cedere a un manierato uso del sofisma – «vedere è un non-vedere», si compiace di appuntare Merleau-Ponty nel Visibile e l’invisibile (Bompiani 2003) – pur di affermare che la coscienza non si vede per ragioni di principio, «come la retina è cieca nel punto in cui si diffondono in essa le fibre che permetteranno la visione». L’anatomo-fisiologia o l’oftalmologia del punctum cæcum si trovano così a essere considerate come un indice analogico della visione in generale: «quella che», si legge in Memorie di cieco di Jacques Derrida (Abscondita 2003), «pur vedendosi vedere, non si riflette, non si “pensa” in modo speculare o speculativo»; e in luogo di ogni forma di visione si fa spazio una sorta di nebbia ostinata. Se infatti accedere all’esteriorità vuol dire in primo luogo eterogeneità, allora nessuna generalizzazione astratta risulta ammissibile. Ne è prova il sempre più evidente trascorrere d’ogni forma d’espressione dal piano dell’interiorità a quello dell’esteriorità, sebbene «all’inizio vi sia solo opacità, nomi che non evocano niente», se non vaghe ombre erranti (così George Perec in À propos de la description, in Espace et Représentation, Éditions de la Villette 1982).
È dunque in questa prospettiva che il diario abreativo e confessionale di John M. Hull, vittima di una irreversibile quanto graduale cecità, riesce ad assumere la forma di uno scandaglio capace di cogliere – rileva Oliver Sacks nella prefazione – «le profondità di una fenomenologia della percezione in continuo mutamento». Non andrà tuttavia evocata la lezione di Wittgenstein relativa al cosiddetto «cieco all’aspetto», come ancora Sacks suggerisce. Quanto Hull descrive non può apparentarsi soltanto all’asomatognosia descritta dal filosofo austriaco. Diversamente che nei romanzi di Kawabata – si pensi a Denti di leone (Mondadori 2019) – lo sbiadire dell’immagine del volto altrui non assume nella sua testimonianza alcun significato allegorico. Piuttosto, lo smaterializzarsi degli altri, «diventati delle voci senza corpo, che parlano dal nulla», e la progressiva perdita dell’immagine di sé, conducono a fare esperienza di quella stessa disgregazione del mondo che, secondo il Diderot della Lettera sui ciechi (1749), affligge chi sia privo della vista e gl’impedisce di organizzare il proprio schema corporeo in rapporto a un universo già di per sé incerto. Essendo cieco – scrive Hull – il mondo per lui non varia veramente, nella misura in cui esso è sempre alla portata della sua mano; ovvero, non esiste apparenza, ma solo realtà; e questa realtà, che all’inizio della malattia si lasciava scorgere già molto sgretolata, come dietro «un vetro zigrinato», assume sempre più i tratti di un simulacro sfrangiato.
Nella prima raccolta di Valerio Magrelli la stessa immagine si fa metafora dell’unica conoscenza possibile attraverso la scrittura: «La scrittura / non è specchio, piuttosto / il vetro zigrinato delle docce, / dove il corpo si sgretola / e solo la sua ombra traspare / incerta ma reale. / E non si riconosce chi si lava / ma soltanto il suo gesto. / Perciò che importa / vedere dietro la filigrana, / se io sono il falsario / e solo la filigrana è il mio lavoro». Del resto il titolo di quel libro, Ora serrata retinæ (Einaudi 1980), era mutuato proprio dal lessico dell’oculistica: che si serve di quest’espressione per indicare, avvertiva a margine il poeta, «il margine frastagliato della retina, cioè la linea al di qua della quale l’occhio risulta percettivo. Si potrebbe tradurre bene come “linea di confine della percettività”». Ma se il «margine frastagliato» dal quale si percepisce è interno all’atto del percepire e a ciò che viene percepito, l’«archetipo della cecità», come Hull lo definisce, elide il bordo già costituzionalmente imperfetto che accompagna lo scambio incessante fra “chi guarda” e “chi è guardato”, per lasciare spazio alla cancellazione d’ogni distinzione «fra ciò che è conosciuto e ciò che non lo è, ciò che è qui e ciò che non è qui, il dentro e il fuori, il particolare e il generale. È la dissoluzione, la terra di mezzo fra l’essere e il non essere». Quando il mondo circostante viene progressivamente eclissandosi dietro una macchia scura, a forma di disco e dai contorni cangianti, nulla oltre ai suoni, emblematicamente incorporati nella punteggiatura di deiscenza dettata dalla pioggia, soccorre a garantire chi è cieco sul senso della realtà. E infatti, ogni volta che si torna alla coscienza del reale, se ne perde la vista – scrive Hull – ubbidendo alla forza centrifuga di un diallelo che non lascia scampo. La cecità fa sì che nessuna conoscenza possa essere apportata dalle immagini, né dai ricordi, ma soltanto dal “sensorio comune” rappresentato dal corpo, secondando soprattutto le diacronie che il tatto accorda, quasi che «i sensi tutti siano soltanto tatto».
La formazione teologica sostenuta da una fede incapace di cedimenti sembra a questo riguardo concorrere a esaltare, nelle pagine di Hull maggiormente intimiste, le risorse della percezione aptica, riconoscendone la funzione che le assegna la religione cristiana, dove propriamente ciò che salva – si pensi anche soltanto a ciò che si legge in Mt 14.36 o a Mc 3,11 – non è il tatto, ma la fede significata e testimoniata dal toccare. Nondimeno non si ha mai, da parte di Hull, la tendenza a interpretare in senso metaforico la cecità, come accade invece in Aldous Huxley, colpito a sedici anni – ricorda lui stesso nell’Arte di vedere (Adelphi 1989) – da una forma severa di keratitis punctata, i cui effetti si riverbereranno sulla sua «attitudine, distaccata e scostante, a vivere» non meno che in alcune sue opere, a partire dalla scelta dei versi miltoniani, Eyeless in Gaza at the Mill with slaves…» per intitolare il suo sesto romanzo (tradotto inspiegabilmente da Mondadori come La catena del passato nel 1950). La privazione della vista – «lo stagliarsi di un impenetrabile e spesso velo di fumo che ha il peso ed il calore della roccia» – impone il permanere in un’oscurità notturna che precipita ogni cosa in un’estraneità che esclude ogni autentica vicinanza – afferma Hull – e sarebbe stolido e illusorio volere esorcizzare questa condizione ricorrendo agli artifici della retorica.
D’altra parte, per Hull, la cecità non è come nell’Ensaio sobre a Cegueira (1995) di Saramago (ancora troppo precipitosamente tradotto, da Feltrinelli, come Cecità) un «male bianco» che con il suo lucore latteo divora, più che assorbire, «non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri», quanto il conclamarsi della profondità di un’assenza inesauribile. Si è come intrappolati in un nascondiglio insopportabile, lamenta Hull: inducendo a pensare al racconto di Kafka La tana (1924), dove il massimo della visibilità sprofonda nello sguardo orbato del protagonista. In effetti, lo spazio che Hull descrive è molto simile a «un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo». E tuttavia egli proclama con ridondante insistenza, quasi volendosi autoconvincere, la propria irrassegnazione: sebbene la notte si sia fatta deserta di stelle e la terra sia insicura sotto piedi, non si può – rivendica con ammirevole tenacia – rinunciare ad abitarla. Pur consapevole del proprio destino, non ci si può lasciare sopraffare dalla disperazione. A impedirlo è la persistenza degli affetti: i quali, anche quand’ormai gli amici non hanno volto, «le donne sono quello che furono in anni lontani» e «non hanno lettere i fogli dei libri», riescono come per miracolo a rendere visibile l’invisibilità del visibile, sollecitando ancora a cercare ciò che sfugge dalla sua forma sensibile per offrirsi alla tenerezza commossa che suscita la carezza, «cammino nell’invisibile» lungo il quale l’occhio come fonte delle lacrime sembra ritrovare significato: sono, queste lacrime, l’espressione della nostra impotenza a esprimere, a liberarci dall’oppressione di ciò che siamo

John M. Hull, Il dono oscuro, traduzione di Francesco Pacifico, Adelphi 2019, pp. 221, € 20
Immagine di copertina: Albarrán Cabrera, The Mouth of Krishna, #103