Ciò che a volte chiamiamo la “crisi del Politico” non è assolutamente una crisi nel senso di un episodio critico di cui sappiamo a quale misura, buona e giusta, va ricondotto. Passiamo infatti attraverso una riflessione fondamentale su ciò che “politica” può significare qualora non sia più possibile vedervi l’assunto di un’esistenza collettiva. È la politica come “destino di un popolo”, come “sovranità di una nazione” e come “identità della comunità” che si ritrova sconvolta dal medesimo sconvolgimento da cui è travolto ciascuno dei concetti appena utilizzati.
La prima risposta a tale sconvolgimento è stata data dai fascismi, risposta modellata a partire da un rimaneggiamento naturalista, storicistico e modernista del principio di sovranità. Ovvero un rimaneggiamento di ciò che il “popolo sovrano” non era riuscito a far valere. La risposta, per quanto rozza, votata a rozze identificazioni (del popolo, del capo, del destino), tentava comunque di rispondere a un disincanto e a un’attesa.
Il comunismo, dal canto suo, rispondeva a un’analoga inquietudine. Ma trovava la sua risorsa più visibile in una scientificità dubbia e in un proclama “materialista” le cui motivazioni non erano meno equivoche, per non parlare degli effetti già visibili di ciò che si proclamava “dittatura del proletariato”.
Da entrambe le parti, in tutti i casi, si può dire che la politica era la sfida prioritaria e che tutto contribuiva alla ricerca del suo rinnovamento e persino della sua rigenerazione o della sua salvezza. In realtà la battaglia politica diveniva una battaglia spirituale o di civiltà, a seconda di come la si voglia chiamare. Gli estremisti di destra, all’epoca senza dubbio più spesso di quelli di sinistra, e forse soprattutto in Francia, furono in generale – non tutti! – i più consapevoli di questa sfida. Blanchot, tra altri che come lui non sposarono il fascismo (ancor meno l’hitlerismo), capì che si stava per entrare in un tale sconvolgimento.
Egli, tuttavia, non capì che la politica non era in grado di raccogliere la sfida. Anzi, credette – come molti altri – che i proclami della politica potessero sorreggere ciò che la superava di gran lunga. Credette che l’incantesimo nazionalista e spiritualista potesse fungere da rivoluzione. Poiché “rivoluzione” era la parola. Questa semplicissima circostanza, ben nota e spesso commentata, introduce un problema di cui i nostri benpensanti non paiono avere la minima idea. Tutti quelli che, in quegli anni, cercavano di riflettere, si imbattevano in questa parola. Era un’idea o un’Idea? Un concetto? Uno slogan? Non avevano ancora avuto il tempo di chiederselo. Per loro essa significava ben più che una presa di potere e un rovesciamento di regime: essa evocava uno sconvolgimento e una nuova creazione, e questo nel momento in cui l’eredità della Rivoluzione francese – una repubblica pallida, incerta – e i bagliori della rivoluzione russa – rossa di fuoco e di sangue più che di vita e d’avvenire – impedivano di richiamarsi semplicemente a esse.
Negli anni Venti e Trenta i più lungimiranti o i meno miopi furono quelli che o si interrogarono sul vero tenore rivoluzionario di ciò che veniva chiamato marxismo o vollero considerare il tenore rivoluzionario dei fascismi in maniera più profonda e ponderata di quanto non lo potesse fare la reazione (tutto sommato perfettamente giustificata) di condanna per dittatura, demagogia e rozzezza. Ma già a quell’epoca, quella stessa reazione spingeva ad abbracciare nella condanna anche coloro che cercavano di pensare al di là di essa (e non contro di essa).
Come ha scritto Denis Hollier in un’analisi la cui finezza contrasta in modo singolare con lo spessore di molte prove a carico, “[negli anni Trenta] tutto ciò che non era rifiuto fobico nei confronti del fascismo veniva facilmente tacciato di complicità. La volontà di sapere diventava una forma di simpatia. Il solo fatto di investigare sul fascismo, di interrogarsi sul meccanismo del suo successo, faceva sospettare che si avesse per il fenomeno un interesse che oltrepassava l’epistemologia”. È lecito affermare che queste righe descrivono in modo assai appropriato una situazione ancora attuale.
Senza dubbio potevano esserci allora, come possono esserci oggi, delle ambiguità. E il testo di Hollier prosegue proprio su questo tema. Tuttavia, come egli afferma più avanti nello stesso libro, “un po’ di ambiguità avvicina al fascismo, molta ne allontana” – frase ch’egli esplicita sottolineando la differenza tra un’equivocità politica, superficiale e che cela soltanto un’adesione identificabile, e un’equivocità più profonda in cui il pensiero si confronta con ciò che, appunto, non può essere semplicemente svelato e identificato.
Ciò che qui tento di affermare, con Hollier, e a favore del quale si potrebbero addurre altre riflessioni e altre testimonianze, verrà senza dubbio tacciato se non di indulgenza, perlomeno di sofisticheria ignorante delle esigenze morali e politiche. Ma è vero il contrario: nello stato attuale della politica – sotto tutti gli aspetti, come modo di governo o come regime, come sfera distinta o meno della vita in comune, come intermediario o meno del dominio economico e ideologico –, è essenziale prendere le distanze nei confronti di determinazioni politiche prestabilite. Non possiamo più ignorare come la politica stessa, il suo concetto e la sua esistenza sociale, sia sottoposta a una domanda fondamentale. Quest’ultima nasce essenzialmente dalla mutazione della civiltà nel suo insieme.
Qualcuno potrebbe ribattere che i “meccanismi del successo” del fascismo sono stati smontati e analizzati approfonditamente. Qui, per citare un autore che non sarà certo messo in discussione, basterà fare riferimento a Hannah Arendt e al suo esame sulle origini del totalitarismo. Arendt, tuttavia, rimane bloccata in un equivoco – di tipo profondo, non politico – tra la constatazione di una crisi di civiltà e i punti di riferimento ch’essa serba per la sua costruzione teorica dello spazio pubblico e dei diversi modi di vita (attiva, contemplativa). È ormai evidente che la mutazione della civiltà ha ora travolto quei punti di riferimento e che dobbiamo pensare in termini più ampi. Ciò che è diventato chiaro – sempre che non chiudiamo gli occhi – è proprio ciò che persone come Blanchot cominciavano a capire alla vigilia della guerra.
(Questo testo è tratto da J.-L. Nancy, Maurice Blanchot. Passione politica, a cura di Federica Corecco e Christian Zürcher, Mimesis 2020, 102 pp., 8 € – in uscita in questi giorni in libreria.)
Immagine di copertina « Le 14 juillet 1936 » © Willy Ronis