I livelli dell'ambiguità

30/01/2020

Le due versioni dell’immaginario

Vi sono quindi due possibilità dell’immagine, due versioni dell’immaginario, e questa duplicità dipende dal doppio senso iniziale che la potenza del negativo reca con sé e il fatto che la morte è sia il lavoro della verità nel mondo sia la perpetuità di quel che non sopporta né inizio né fine.

È dunque vero che, come vogliono le filosofie contemporanee, nell’uomo la comprensione e la conoscenza sono legate a quel che viene chiamata la finitezza, ma dove sarebbe la fine? Di certo è compresa nella possibilità della morte, ma è anche «ripresa» da essa, se nella morte viene a svanire la possibilità stessa della morte. E appare chiaro poi che, per quanto l’intera storia umana rappresenti la speranza di superare tale equivoco, il fatto di porvi fine o di oltrepassarla, in un senso o nell’altro comporta sempre grandissimi rischi: come se la scelta tra la morte come possibilità della comprensione e la morte come orrore dell’impossibilità dovesse essere anche la scelta tra la verità sterile e la prolissità del non-vero, come se alla comprensione fosse legata la penuria e la fecondità dell’orrore. Ne consegue che l’ambiguità, sebbene essa sola renda possibile la scelta, resta sempre presente nella scelta stessa. Ma in questo caso, in che modo si manifesta l’ambiguità? Che cosa succede quando si vive un avvenimento in immagine?

Vivere un avvenimento in immagine non significa distogliersi da questo avvenimento, disinteressarsene, come vorrebbero la versione estetica dell’immagine e l’ideale sereno dell’arte classica, ma non significa nemmeno impegnarvisi con una decisione libera: vuol dire lasciarsi prendere, passare dalla regione del reale, in cui ci teniamo a distanza dalle cose per meglio disporne, a quest’altra regione in cui è la distanza che tiene noi, distanza che è allora profondità senza vita, indisponibile, lontananza incalcolabile divenuta la potenza suprema e ultima delle cose. Questo movimento implica gradi infiniti. La psicoanalisi dice poi che l’immagine, lungi dal lasciarci fuori causa e dal farci vivere sul piano della fantasia gratuita, sembra consegnarci profondamente a noi stessi. Intima è l’immagine, perché essa fa della nostra intimità una potenza esteriore che noi subiamo passivamente: al di fuori di noi, nel regresso del mondo che essa provoca, trascina, smarrita e brillante, la profondità delle nostre passioni.

La magia trae il suo potere da questa trasformazione. Per mezzo di una tecnica metodica, si tratta di condurre le cose a svegliarsi come riflesso e la coscienza a condensarsi in cosa. Al partire dal momento in cui noi siamo fuori da noi – nell’estasi costituita dall’immagine –, il «reale» entra in un regno equivoco in cui non vi sono più limiti, né intervalli, né momenti, e dove ogni cosa, assorbita nel vuoto del suo riflesso, si avvicina alla coscienza la quale si è essa stessa lasciata riempire da una pienezza anonima. Così sembra ricostituita l’unità universale. Così, dietro alle cose, l’anima di ogni cosa obbedisce alle attrattive di cui dispone adesso l’uomo estatico che si è abbandonato all’«universo». Il paradosso della magia appare evidente: essa pretende di essere iniziativa e dominazione libera, quando, per costituirsi, accetta il regno della passività, il regno in cui non vi sono fini. Ma la sua intenzione rimane istruttiva: quel che essa vuole è agire sul mondo (manovrarlo) a partire dall’essere anteriore al mondo, l’al di qua eterno in cui l’azione è impossibile. È per questo che essa si volge di preferenza verso la stranezza cadaverica, e il suo nome autentico è magia nera.

Vivere un avvenimento in immagine non significa farsi un’immagine di questo avvenimento, e nemmeno conferirgli la gratuità dell’immaginario. L’avvenimento, in questo caso, ha avuto luogo per davvero, ma tuttavia esso ha davvero avuto luogo? Quel che accade ci afferra, come ci afferrerebbe l’immagine, vale a dire ci priva, sia di esso sia di noi stessi, ci tiene al di fuori, fa di questo «di fuori» una presenza in cui l’«Io» non «si» riconosce. «Movimento che implica gradi infiniti.» Quelle che abbiamo chiamato le due versioni dell’immaginario, e cioè il fatto che l’immagine può di sicuro esserci d’aiuto per riprendere idealmente il possesso della cosa, per cui essa è allora la negazione che vivifica, ma anche, al livello in cui ci trascina la gravità che la contraddistingue, che essa rischia anche di rinviarci continuamente non più alla cosa assente, bensì all’assenza come presenza, al doppio neutro dell’oggetto nel quale l’appartenenza al mondo si è dissipata: questa duplicità non è tale che la si possa risolvere con un aut aut, in grado di autorizzare una scelta e di scorporare dalla scelta l’ambiguità che la rende possibile. Questa duplicità rinvia essa stessa a un doppio senso sempre più iniziale.

I livelli dell’ambiguità

Se per un istante il pensiero potesse mantenere l’ambiguità, sarebbe tentato di dire che essa si annuncia in tre livelli. A livello del mondo, l’ambiguità è possibilità d’intesa; il senso sfugge sempre in un altro senso; il malinteso serve alla comprensione, esprime la verità dell’intesa che vuole che non ci si intenda mai una volta per tutte.

Un altro livello è quello che si esprime attraverso le due versioni dell’immaginario. Qui non si tratta più di un perpetuo doppio senso, del malinteso che aiuta o che inganna l’intesa. Qui, ciò che parla a nome dell’immagine, «ora» ci parla ancora del mondo, «ora» ci introduce nell’ambiente indeterminato del fascino, «ora» ci conferisce il potere di disporre delle cose in loro assenza e attraverso la finzione, trattenendoci così in un orizzonte ricco di senso, «ora» ci fa scivolare là dove le cose forse sono anche presenti, ma nella loro immagine, e là dove l’immagine è il momento della passività, non ha alcun valore né di significato né di affetto, è passione dell’indifferenza. Cionondimeno, quel che distinguiamo dicendo «ora, ora», l’ambiguità lo dice dicendo sempre, in un certa misura, l’uno e l’altro. Essa dice anche l’immagine significativa in seno al fascino, ma ci affascina già con la chiarezza dell’immagine più pura, più compiuta. Qui, il senso non sfugge in un altro senso, ma nell’altro di ogni senso e, a causa dell’ambiguità, nulla ha più senso, ma tutto sembra avere infinitamente senso: il senso è ormai solo una parvenza di senso, e tale parvenza fa sì che il senso divenga infinitamente ricco, che questo infinito di senso non abbia bisogno di essere sviluppato, ma che sia invece immediato, ovvero che non possa essere sviluppato, ma che sia soltanto immediatamente vuoto.

(tratto da M. Blanchot, Lo spazio letterario, postfazione di Stefano Agosti, traduzione di Fulvia Ardenghi, il Saggiatore, Milano 2018, 302 pp., 29 €)

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