Pubblichiamo questo saggio di Andrea Pinotti, in occasione della presentazione che si terrà oggi 28 gennaio, alle ore 16.30, presso l’aula 13 dell’Accademia di Belle Arti di Brera, del volume Visual Studies. L’avvento di nuovi paradigmi, a cura di Tommaso Gatti e Dalia Maini, Mimesis 2019.
1. Presenze immergenti
In questi ultimi anni è fiorita un’impressionante letteratura relativa all’esperienza di “immersione” tanto nelle scienze umane, quanto nei media e computer studies: in un modo o nell’altro, ci troveremmo sempre immersi in una situazione: nell’apprendimento[1]; nell’uso dei media[2] e delle tecnologie[3]; nelle pratiche del potere[4]; in letteratura[5] e a teatro[6]; nelle arti visive[7] e nei videogame[8].
La diffusione pervasiva di tale desiderio immersivo, e la possibilità di indagarne i prodromi in epoche anche assai distanti dalla nostra – non si potrebbe forse chiamare Narciso una figura proto-immersiva? – sembrano poterlo qualificare come una sorta di universale antropologico. L’archeologo dei media Erkki Huhtamo ha messo in guardia contro il rischio di adottare un approccio lineare e continuistico, come se la pulsione immersiva costituisse una specie di struttura astorica. Eppure, la sua stessa intenzione di esplorare tale pulsione da una prospettiva storica non pare in grado di evitare del tutto il rischio da lui stesso paventato: parlare dell’esigenza di “tracing and comparing some of its manifestations”[9] implica pur sempre che un nucleo sia stabile al di sotto delle differenti manifestazioni storiche, che condividono almeno una wittgensteiniana aria di famiglia.
Nelle dinamiche immersive che caratterizzano lo scenario contemporaneo degli ambienti virtuali un ruolo cruciale è giocato dagli avatar: rappresentazioni grafiche che fungono da procuratori digitali tramite i quali gli utenti di Internet, di una comunità cyber o di un’interfaccia informatica (come nel caso dei videogames) negoziano la loro presenza e interagiscono con oggetti sintetici o altri avatar nel mondo digitale.
Nel suo operare come surrogato o rappresentante dell’identità personale, l’avatar è apparentato a una più ampia costellazione di concetti, che abbraccia figure analoghe quali il “doppio”[10], l’“alter ego”[11], il “Doppelgänger”[12], l’“ologramma”[13]. Lo spettro funzionale dell’avatar va dalla rivelazione del Sé (una sorta di autoritratto veritiero) alla dissimulazione della maschera: in virtù di una gamma così vasta di possibilità, l’avatar funge da operatore d’identità che consente un numero virtualmente infinito di negoziazioni. Esso permette quell’esperienza peculiare che è stata denominata “auto-empatia”[14]: la possibilità cioè di empatizzare con l’altro-in-me, di assumere la prospettiva sul mondo come da un punto di vista esterno al mio, eppure sempre in qualche modo mio.
Lungi dall’essere un accesso univoco dal reale al digitale, gli avatar costituiscono una mediazione biunivoca, che consente anche interventi dal mondo virtuale verso quello reale. Recenti esperimenti neurocognitivi hanno provato che gli avatar impattano sulla vita reale, modificando ad esempio pregiudizi di genere o di razza attraverso la produzione della cosiddetta “full body ownership illusion”: adottare un avatar di genere diverso (per esempio nel caso di violenza domestica[15]) o mettersi in un avatar dal colore della pelle differente[16] nell’ambiente virtuale è un’esperienza che può riverberarsi nel mondo reale, contribuendo a correggere stereotipi sociali attraverso l’adozione di un “perspective-taking” alternativo e la stimolazione di processi empatici. Rappresentazioni corporee di livello inferiore condizionano atteggiamenti e credenze di livello superiore. Come è stato efficacemente formulato da un gruppo di ricercatori che lavorano intensamente su tali questioni, “Changing bodies changes minds”[17]. Inoltre, il ricorso agli avatar si è dimostrato particolarmente significativo nel trattamento clinico di sindromi patologiche, come nel caso dell’individuazione di BID (Body Image Disturbance) connessa all’anoressia e ad altri disordini alimentari[18], o di sintomi PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder)[19].
Nella sfera delle arti new media, l’impiego di avatar coinvolge in misura rilevante tanto la produzione quanto la ricezione. Si tratta di un processo che va di pari passo con la tendenza dominante all’immersività: non solo si organizzano mostre sull’arte immersiva (come The Art of Immersion al Center for Art and Media in Karlsruhe, 2017-18, che esponeva opere d’arte e performances digitali immersive), ma le stesse esposizioni adottano una modalità immersiva di display, così che persino un Van Gogh può diventare immersivo[20]. Considerando tale tendenza, non è sorprendente che anche gli avatar giochino un ruolo decisive in questo scenario, che è stato esemplarmente modellato sul mondo virtuale di Second Life[21]. Vediamo qualche caso paradigmatico.
Cao Fei è un’artista cinese multimediale che ha documentato in un video intitolato i.Mirror (2007) la vita del proprio avatar China Tracy in Second Life. Nel medesimo anno, e sempre su SL, Cao ha progettato e sviluppato RMB City, una città virtuale che offre una piattaforma per attività creative e sperimentazioni della soglia tra mondo fisico e mondo virtuale, nonché mostre d’arte virtuali. Questa entità ibrida – tanto opera d’arte in sé e per sé quanto spazio istituzionalizzato per esporre alter opera d’arte digitali – è stata acquisita dal Guggenheim Museum nel 2008 (https://www.guggenheim.org/artwork/23251).
Anch’egli attivo su SL, l’artista canadese Jon Rafman si auto-definisce come dominato da uno sguardo da flâneur – “as if I were a passing explorer or an amateur anthropologist”[22] – nel mentre fa esperienza, tramite il proprio avatar, delle sub-culture virtuali che proliferano in questo cyber-mondo parallelo (2008–11: http://koolaidmaninsecondlife.com). Un suo lavoro più recente, Dream Journal (2015–16: https://vimeo.com/jonrafman/review/179476655/1552a7d383) – un immaginario generato al computer che mira a dare espressione visive alle sue fantasie oniriche – ci permette di tracciare una distinzione importante: benché si possa essere tentati, almeno per ragioni stilistiche, di designare gli enti digitali che affollano il suo film animato come “avatars”, essi sono personaggi animati al computer che mancano di quella necessaria correlazione con un individuo reale per il quale l’avatar opera da procuratore. Gli avatar nella realtà virtuale sono una sotto-classe di figure generate al computer che viene identificata dalla relazione col soggetto reale che essi rappresentano.
Tale fondamentale correlazione non deve tuttavia essere necessariamente concepita come un rapporto univocamente gerarchico fra il “padrone” umano e il “servo” digitale: combinando arte generata al computer e stilemi da videogame, l’artista americano Ian Cheng sovverte questa idea, introducendo nelle proprie opere avatar canini del proprio cane Mars: è ad esempio il caso di Bad Corgi (commissionato nel 2015 dalla Serpentine Digital Commission, e diventato successivamente una app per smartphone[23]; o ancora di avatar di razza Shiba Inu, come in Emissary Forks at Perfection (2015–16), un’opera che compone la triologia “Emissary” insieme con Emissary in the Squat of Gods (2015) e Emissary Forks For You (2016). Mettendo in scena una sorta di dialettica servo-padrone cyber-hegeliana, Ian Chengribalta i ruoli convenzionali e obbliga gli utenti umani, equipaggiati con tablet Google Tango, a seguire l’avatar canino nelle sue peregrinazioni attraverso ecosistemi digitali, invertendo così la convenzionale relazione di potere uomo-animale[24].
La negoziazione dell’autorialità permessa dall’impiego di avatar può assumere diverse forme, analogamente a quanto accade nel mondo reale: l’avatar può rappresentare una molteplicità di individui, come nel caso dell’autore collettivo di testi letterari e opera musicali Luther Blissett; o può riferirsi allo pseudonimo di un autore individuale che intende rimanere anonimo, come nel caso della scrittrice italiana Elena Ferrante o dell’artista britannico Banksy. In nessuno di questi casi reali l’identità visiva del soggetto è accessibile. Al contrario, il mondo virtuale può garantire al contempo anonimato e visibilità: è il caso di LaTurbo Avedon[25], un avatar che opera dal 2008 su piattaforme di social network tanto come artista quanto come curatore. Il suo nome corrisponde a un volto che viene presentato in diversi autoritratti, proteggendo simultaneamente l’identità visiva del soggetto umano (o soggetti umani) che lo controlla. Come primo residente virtuale dei Somerset House Studios di Londra, LaTurbo Avedon ha anche, e paradossalmente, esposto la sua opera in una personale intitolata New Sculpt alla galleria Transfer di New York in 2013. Il che consentirebbe, dopo tante ricerche intorno alla questione della presenza del reale nel virtuale, di sollevare la questione opposta: “Will you be ‘there’ at the opening?”, le ha chiesto un intervistatore, ottenendo in risposta: “As much as I can be! I’ll be chatting with everyone during the reception using various devices, but as you can imagine, I have my limitations”[26].
Considerando la correlazione fondamentale fra produzione e ricezione delle opere d’arte, non meraviglia che l’avatarizzazione condizioni anche la dimensione della spettatorialità. Si tratta di un processo che appartiene al più vasto fenomeno di virtualizzazione delle istituzioni artistiche, grazie al quale musei e gallerie che esistono IRL (In Real Life) offrono sempre più spesso la possibilità di visite virtuali on line delle loro collezioni. Un caso particolarmente rilevante è rappresentato da Google Arts & Culture (precedentemente noto come Google Art Project)[27], una sorta di gigantesco meta-museo on line che coinvolge centinaia di istituzioni internazionali. Lanciato nel 2011, il progetto si appoggia su una versione “indoor” del sistema Google Street View 360°, il quale consente di registrare immagini a una risoluzione molto elevate, nella scala dei giga-pixel. I visitatori sono invitati a camminare attraverso le gallerie, a “zoomare” per evidenziare i dettagli a livello microscopico, e anche a creare una collezione virtuale personale di opere d’arte (“Be your own curator”) selezionando pezzi dalle differenti istituzioni: il musée imaginaire di Malraux trova qui il suo compimento più sofisticato.

In tale contesto, una sotto-classe specifica riguarda il caso in cui lo spettatore sia rappresentato dal proprio avatar che lo sostituisce durante la visita virtuale. Ancora una volta, Second Life è stata un’esperienza pionieristica che ha permesso la diffusione di un gran numero di spazi espositivi[28]. Ma che cosa accade alla nostra esperienza estetica quando andiamo al di là della navigazione on line individuale e ci troviamo a condividere le nostre emozioni in co-presenza e interazione con altri avatar? Un setting virtuale del genere impatta in modo specificamente qualitative sulla nostra esperienza vissuta? Domande di questo tipo hanno ispirato un recente esperimento interdisciplinare intitolato Art Distance Sharing[29], progettato per valutare i processi neurali, cognitivi e percettivi che si innescano allorquando un certo numero di utenti, fisicamente distanti fra loro ma co-presenti insieme nello spazio virtuale, condividono attraverso i loro avatar l’esperienza di opere d’arte. I dati che ne sono risultati sono ancora in stato di elaborazione e se ne attende la pubblicazione; ma la configurazione stessa dell’esperimento attesta la fecondità di questo campo di ricerca, che promette di dischiudere nuovi orizzonti nell’ambito degli studi sulla spettatorialità VR e su quella che è stata ormai da tempo definita “la vita sociale degli avatar”[30].
2. Un approccio genealogico
L’elenco delle pratiche artistiche avatariali potrebbe essere arricchito da molti altri casi. Ma a questo punto è forse più utile adottare una prospettiva genealogica al fine di provare a comprendere lo sfondo storico e culturale di questo fenomeno, a partire dall’origine stessa del termine “avatar”.
Lungi dall’essere un termine coniato in tempi recenti, la nozione di “avatar” getta le sue radici nell’antica tradizione induista: il termine sanscrito avatāra si riferisce alla discesa sulla terra e all’apparizione sensibilmente percepibile di una divinità, in particolare Vishnu, che interviene nelle faccende terrene per ristabilire l’ordine cosmico. Le forme assunte dalla divinità possono variare a seconda delle circostanze: fra quelle incarnate da Vishnu troviamo ad esempio il pesce, la testuggine, il cinghiale, l’uomo-leone, il nano, il Buddha. Ogni avatāra è dunque da considerarsi solo una manifestazione parziale della divinità corrispondente che esso rende visibile. Una volta eseguito il compito affidatogli, l’avatāra torna a fondersi nella sua divinità originaria[31]. Dal punto di vista della storia comparata delle religioni, l’idea induista espressa nell’avatāra è stata associata con altre rappresentazioni analoghe dell’apparenza divina, come è il caso dell’“incarnazione” cristiana[32].
Nonostante le prime occorrenze del termine nelle lingue occidentali possano essere rintracciate nel XVIII secolo, ed esso campeggi come titolo di un romanzo breve pubblicato da Théophile Gautier nel 1856, la fortuna del termine si deve al suo massiccio impiego nell’ambito dei videogame (a partire da Avatar, sviluppato nel 1979 dallo University of Illinois’ Control Data Corporation PLATO system), delle chat-room, dei social network e più in generale della comunicazione digitale. L’uso del termine si è esponenzialmente diffuso negli ultimi anni anche grazie al successo di botteghino del film Avatar diretto da James Cameron, uscito nel 2009 e girato con sofisticate tecniche stereoscopiche[33].
Al pari dell’impulso immersivo, che può essere fatto risalire indietro nel tempo fino alla dimensione a-storica del mito, anche lo stato avatariale nel senso più ampio del termine – cioè come presenza surrogata del produttore o fruitore dell’immagine – può essere identificato come una strategia che è all’opera fin da epoche ancestrali. Consideriamo a tal riguardo la rappresentazione delle mani nelle pitture parietali del Paleolitico superior. Le tecniche possono variare: le mani venivano dipinte (con pigmenti perlopiù rossi, bianchi o neri) e poi applicate sulla superficie della roccia (è il cosiddetto “positive handprint”), oppure si appoggiava la mano sulla pietra e se ne evidenziava il contorno spruzzando il pigmento attraverso un tubo o semplicemente sputandolo dalla bocca, o anche percorrendone il perimetro con un pennello (il cosiddetto “negative hand stencil”). A tutt’oggi il più antico stencil (databile circa al 37.900 a.C.) è stato ritrovato nell’isola indonesiana di Sulawesi[34].
Anche se non sappiamo molto delle ragioni ultime che motivavano tali manufatti, non sembra peregrino ravvisarvi degli avatar parziali del Sé preistorico, rappresentanti iconici del corpo umano nella sua identità arcaica, che consentivano al contempo auto-riconoscimento e auto-duplicazione. Come una sorta di prototipo arcaico del lacaniano stadio dello specchio (con il quale condividono il ribaltamento laterale, così che la mano destra che funge da modello risulta sinistra una volta raffigurata in immagine, e viceversa), “handprints” e “hand stencils” possono venire considerati come figure che trasformano la superficie opaca in una superficie speculare sulla quale il Sé può riflettersi. Le luci ondeggianti delle torce avranno certamente aggiunto all’insieme un’adeguata dinamizzazione, ottenendo così un effetto proto-cinematografico.
Da queste forme di primitivo rispecchiamento alle pratiche degli autoritratti e dei selfie[35] il passo è certamente lungo dal punto di vista cronologico, ma forse non altrettanto da quello concettuale. Uno dei primi autoritratti di solito menzionati dalle storie di questo genere artistico[36] venne realizzato in quarzite dallo scultore Bak sotto il regno del faraone Akhenaton intorno al 1353-35 a.C. (conservato all’Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino): esso rappresenta lo scultore insieme con sua moglie, entrambi raffigurati in posa frontale.
Hans-Georg Gadamer ha sostenuto che siamo in grado di distinguere fra due rappresentazioni del volto umano quale sia un ritratto e quale invece una semplice rappresentazione generica di un essere umano, anche se non riconosciamo la persona ritratta[37]. Potremmo dire lo stesso della distinzione fra ritratti e autoritratti? In tal caso la distinzione sembra assai più difficile da operare, ma quel che è certo è che è il Sé implicato nell’autoritratto, il suo riferirsi al soggetto a un’autorappresentazione, a costituirne lo status avatariale: gli avatar necessitano della riflessione dell’identità, dle suo raddoppiamento, che consente al contempo la schisi fra il Sé e la sua rappresentazione da un lato, e la loro connessione o persino identificazione dall’altro. In questo senso è la postura frontale più che non quella di profilo a costituire la “forma simbolica” specifica per una auto-rappresentazione avatariale. Meyer Schapiro ha sottolineato in un saggio brillante la differenza fra queste due posture:
“The profile face is detached from the viewer and belongs with the body in action (or in an intransitive state) in a space shared with other profiles on the surface of the image. It is, broadly speaking, like the grammatical form of the third person, the impersonal ‘he’ or ‘she’ with its concordantly inflected verb; while the face turned outwards is credited with intentness, a latent or potential glance directed to the observer, and corresponds to the role of ‘I’ in speech, with its complementary ‘you’. It seems to exist both for us and for itself in a space virtually continuous with our own, and is therefore appropriate to the figure as symbol or as carrier of a message”[38].
In epoca pre-virtuale, al fine di stabilire una relazione avatariale con il proprio surrogate iconico, l’“Io” al di fuori dell’immagine deve rivolgersi all’altro “Io” all’interno dell’immagine in un rapporto “Io-Tu” per poter produrre un auto-riconoscimento speculare. Questa esigenza ha probabilmente contribuito a determinare il numero statisticamente più elevato di autoritratti frontali o di tre quarti rispetto a quelli di profilo: si tratta di un vincolo che l’invenzione della fotografia ha reso meno stringente, e che però è tornato a imporsi con la pratica dei selfie, che richiede al soggetto di porsi frontalmente all’obiettivo al fine di poter controllare l’inquadratura.

Un caso particolarmente interessante è rappresentato dall’autoritratto di ruolo[39], nel quale il Sé viene raffigurato come un “altro”: casi celebri sono il presunto autoritratto di Michelangelo come San Bartolomeo scuoiato nel Giudizio della Cappella Sistina, o l’autoritratto di Rembrandt come l’apostolo Paolo; in epoca contemporanea, le serie realizzate da Cindy Sherman e Yasumasa Morimura.
Una notevole eccezione all’autorappresentazione frontale – o piuttosto un caso perfettamente complementare – è costituita dalla cosiddetta Rückenfigur: la figura vista di spalle resa celebre dai paesaggi romantici di Caspar David Friedrich, che contengono figure di schiena, come nel caso della Donna al tramonto del sole o del Viandante sul mare di nebbia (entrambi del 1818), o della Donna alla finestra (1822)[40]. Si tratta di una scelta compositiva che ha esercitato una notevole influenza su diversi artisti, come ad esempio Edvard Munch e Gerhard Richter. Le origini di questo topos sono molto antiche: se la presenza di figure di schiena nella pittura paleolitica è controversa (considerato il livello di stilizzazione dei corpi)[41], è per contro inequivocabilmente attestata in antichi mosaici, affreschi e pitture vascolari[42].
Svolgendo una “funzione-cerniera”[43], la figura di schiena risulta essere una vera e propria entità dialettica, i cui effetti sono paradossali e ossimorici: da un lato, volgendo le spalle all’osservatore, essa sembra voler assicurare la chiusura dello spazio iconico, separandolo dallo spazio reale in cui si trova lo spettatore; dall’altro, essa rende permeabile e transitabile la soglia tra lo spazio finzionale interno all’immagine e lo spazio reale esterno, offrendo la possibilità di una “riflessione” dello sguardo dell’osservatore esterno nello sguardo della figura dipinta[44], in modo da invitare lo spettatore a fondersi empaticamente con il personaggio raffigurato e a guardare al paesaggio dal suo stesso punto di vista.
Sfruttando appieno le possibilità tecniche offerte dal dispositivo fotografico, nel 1971 Giovanni Anselmo puntò l’obiettivo in direzione di un prato, e regolò l’autoscatto in modo da poter correre di fronte alla macchina e, alla lettera, Entrare nell’opera (come il titolo della fotografia appunto suggerisce). In tal modo, venendo immortalato di schiena dalla macchina, Anselmo realizzò una perfetta combinazione di autoritratto e Rückenfigur.
Anche nella produzione post-fotografica di immagini la tradizione iconografica della Rückenfigur ha esercitato una notevole influenza, ispirando ad esempio un notevole numero di avatar in terza persona nei videogame[45].
3. L’avatarizzazione dello sguardo
Il cinema ha ereditato varie strategie rappresentazionali dalla storia dell’arte, compreso il ricorso a figure di schiena parziali e totali, con variazioni sul tema a seconda delle diverse tradizioni cinematografiche[46]. Si potrebbe persino concepire la soggettiva[47] – ripresa grazie alla quale vediamo esattamente quello che vede il personaggio – come il risultato del progressivo avvicinarsi dello spettatore alla figura di schiena fino alla completa incorporazione del primo nella seconda; un’incorporazione che consente una piena identificazione di tre sguardi: della cinepresa, del personaggio e dello spettatore.
L’inquadratura di quinta (“over-the-shoulder shot”: OTS), una ripresa dalla spalla del personaggio (nella quale parte della testa dello stesso è inclusa nel lato destro o sinistro dell’inquadratura stessa nella misura più o meno di un terzo del campo) rappresenta uno stadio intermedio fra la ripresa “oggettiva” e quella “soggettiva”. La testa parziale del personaggio opera come una sorta di avatar parziale dello spettatore, che è invitato ad assumerne il punto di vista.
L’effetto di embodiment prodotto dalla soggettiva – “camera-eye”/“camera-I” – è ulteriormente intensificato da quello che è stato definito il “first-person shot”[48]: un tipo di ripresa reso possibile da innovazioni tecnologiche come la Steadicam, le videocamere a mano o montate su caschi, i sensori digitali, e i videogame sempre più fluidi e realistici (in particolare i generi dello “sparatutto” e dei simulatori di guida e pilotaggio). Un esempio paradigmatico è offerto da Hardcore Henry (2015) diretto e interpretato da Ilya Naishuller, che è stato interamente girato con videocamere GoPro.
Nella registrazione dell’evento propria del first-person shot, quel che importa non è tanto l’evento in sé, quanto il fatto di veicolare la presenza sulla scena dell’utente che sta riprendendo, dando un’impressione delle sue reazioni neurofisiologiche: si viene così a produrre quella che è stata felicemente definita una “somatic image” realizzata grazie a una “body-camera”[49]. È un invito a empatizzare somaticamente quello che viene rivolto allo spettatore da questo tipo di ripresa, che si fonda su un’idea di esperienza condivisa. È lo stesso dispositivo a subire una sorta di “avatarizzazione”, divenendo il sostituto dell’utente (meglio, dell’experiencer) e generando in tal modo una specie di autoritratto mobile, un proxy dinamico. È questo il termine usato da Nick Paumgarten per descrivere la sua reazione alla vista di una ripresa in GoPro realizzata dal figlio di dieci anni durante una discesa di sci:
“I didn’t need a camera to show me what he looked like to the world, but was delighted to find one that could show me what the world looked like to him. It captured him better than any camera pointed at him could. This was a proxy, of sorts”[50].
La versione più radicale di questa empatizzazione somatica in prima persona è stata immaginata in Strange Days (1995), il thriller sci-fi scritto da James Cameron e Jay Cocks e diretto da Kathryn Bigelow. La storia ruota attorno allo squid, un dispositivo illegale “head-mounted” in grado di registrare su un supporto tipo MiniDisc le sensazioni fisiche direttamente dalla corteccia cerebrale del soggetto che lo indossa durante l’effettiva esperienza. Il dispositivo consente successivamente il playback, così che un altro utente possa vedere e sentire quello che era stato esperito dal soggetto in fase di registrazione: una possibilità che alimenta un remunerativo quanto abbietto mercato nero di scene di violenza, stupri, sesso e omicidi[51]. Nonostante l’ambientazione del film fosse la Los Angeles del 1999, l’esperienza integralmente riproducibile immaginata da Strange Days sembra essere ripresa e rilanciata oggi dagli sforzi che vengono compiuti nell’ambito della realtà virtuale e del cosiddetto “expanded cinema” (un’etichetta coniata ormai nel lontano 1970 da Youngblood)[52] al fine di ottenere un coinvolgimento sempre più multimodale e multisensoriale con le immagini tramite l’implicazione del complessivo ambito della sensibilità umana in vista di una simulazione quanto più completa della vita reale. È un processo che ha condotto allo sviluppo di sistemi audio immersivi[53], all’integrazione di stimoli aptici[54], olfattivi e gustativi[55].
Quel che viene suggerito dai casi menzionati – l’inquadratura soggettiva, il first-person shot e la ripresa in empatia integrale – è che l’esperienza dell’avatar in quanto esperienza della presenza immersiva del Sé nell’ambiente iconico non è necessariamente connessa alla percezione di una figura visibile rappresentativa del Sé, quanto piuttosto a una particolare declinazione dello sguardo, della prospettiva sul mondo esperito come rappresentativa della seità. In più, una GoPro può venire installata su entità non-umane: un uccello, un drone, una barca (come nel caso paradigmatico di Leviathan, il documentario etnografico del 2012 girato da Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel in GoPro nel Nord Atlantico, che ruota attorno ai differenti sguardi – dei pescatori, dei pesci, del natante – che si intrecciano a bordo di un peschereccio)[56]. Questo semplice fatto ci induce ad ampliare la nozione di sguardo – e conseguentemente anche le nozioni di Sé e di avatar – fino ad abbracciare entità non-umane, siano esse animali o artificiali. Tenuto conto della tendenza, di cui si è appena detto, a integrare la percezione audio-visiva con complementi multisensoriali e multimodali, è dunque la nozione stessa di “sguardo” a dover essere intesa in modo “expanded”, fino a coincidere con la nozione di “esperienza” tout court. Correlativamente, il soggetto connesso a tale integrazione non è più un mero “spettatore”, quanto piuttosto un “experiencer”.
Immagine di copertina: Cindy Sherman, Untitled #96, 1981
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[23] http://getbadcorgiapp.com.
[24] D. Kerr, Artificial ecology: Ian Cheng on the strange art of simulating life, and the conceptual merits of Pokémon Go, in “Artspace”, August 26, 2016; https://www.artspace.com/magazine/interviews_features/art-bytes/ian-cheng-interview-54128.
[26] B. Palop, What kind of art does an avatar make? Q&A with LaTurbo Avedon, in “Vice”,May 24, 2013. https://www.vice.com/en_au/article/bmdw4a/qa-with-laturbo-avedon.
[27] https://artsandculture.google.com.
[28] https://secondlife.com/destinations/arts.
[29] Fr. Garnier et al., Art – Distance Sharing: A Virtual 3D paradigm for the study of the influence of co-presence through avatars on the emotional perception of fine arts, in “VRIC ’17. Proceedings of the Virtual Reality International Conference – Laval Virtual”, n. 11, 2017. doi>10.1145/3110292.3110304.2017.
[30] R. Schroeder (a cura di), The social life of avatars. Presence and interaction in shared virtual environments, Springer, London 2002.
[31] P. Hacker, Zur Entwicklung der Avatāralehre, in “Wiener Zeitschrift für die Kunde Süd- und Ostasiens”, n. 4, 1960, pp. 47-70; D. Kinsley, Avatāra, in L. Jones (a cura di), Encyclopedia of Religion, second edition, Thomson Gale, Farmington Hills (MI), 1987, vol. 2, pp. 707-708
[32] E.G. Parrinder, Avatar and incarnation: The divine in human form in the world’s religions, Oneworld, Oxford 1997; N. Sheth, Hindu avatāra and Christian incarnation: A comparison, in “Philosophy East and West”, a. 52, n. 1, 2002, pp. 98-125.
[33] N. Depraz, Avatar “Je te vois”. Une expérience philosophique, Ellipses, Paris 2012.
[34] M. Aubert et al., Pleistocene cave art from Sulawesi, Indonesia, in “Nature”, n. 514, 2014, pp. 223-227.
[35] N. Mirzoeff, Come vedere il mondo. Un’introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora) (2016), Johan & Levi, Monza 2017.
[36] J. Hall, L’autoritratto. Una storia culturale (2014), Einaudi, Torino 2014, “Preludio”.
[37] H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), Bompiani, Milano 1983, pp. 181-182.
[38] M. Schapiro, Frontal and profile as symbolic forms, in Id., Words and pictures: On the literal and the symbolic in the illustration of a text, Mouton, The Hague 1973, pp. 37-49, qui pp. 38-39.
[39] J. Hall, op. cit., pp. 233-95; C. Moran, Staging the artist: Performance and the self-portrait from Realism to Expressionism, Routledge, London 2017, pp. 82-132.
[40] H. Böhme, Rückenfiguren bei Caspar David Friedrich, in G. Greve (a cura di), Caspar David Friedrich. Deutungen im Dialog, Discord, Tübingen 2006, pp. 49-94.
[41] Cfr. G. Wilks, Das Motiv der Rückenfigur und dessen Bedeutungswandlungen in der deutschen und skandinavischen Malerei zwischen 1800 und der Mitte der 1940er Jahre, Tectum, Marburg 2005, p. 18.
[42] M. Koch, Die Rückenfigur im Bild von der Antike bis zu Giotto, Bongers, Recklinghausen 1965.
[43] R. Prange, Sinnoffenheit und Sinnverneinung als metapicturale Prinzipien. Zur Historizität bildlicher Selbstreferenz am Beispiel der Rückenfigur, in V. Krieger, R. Mader (a cura di), Ambiguität in der Kunst. Typen und Funktionen eines ästhetischen Paradigmas, Böhlau, Köln 2010, pp. 125-167, qui p. 140.
[44] K. Krüger, Der Blick ins Innere des Bildes. Ästhetische Illusion bei Gerhard Richter, in M. Weiß et al. (a cura di), Zur Eigensinnlichkeit der Bilder, Fink, Paderborn 2017, pp. 155-202, qui p. 156.
[45] B. Beil, Avatarbilder. Zur Bildlichkeit des zeitgenössischen Computerspiels, transcript, Bielefeld 2012, pp. 131-170.
[46] G. Kirsten, Zur Rückenfigur im Spielfilm, in “Montage AV”, a. 20, n. 2, 2011, pp. 103-124; B. Thomas (a cura di), Tourner le dos. Sur l’envers du personnage au cinema, Presses Universitaires de Vincennes, Saint Denis 2013.
[47] E. Branigan, Point of view in the cinema. A theory of narration and subjectivity in classical film, Mouton, New York 1984, pp. 103-121; F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani,
Milano 1986; E. Dagrada, Between the eye and the world. The emergence of the point-of-view shot, Peter Lang, Bruxelles 2013.
[48] R. Eugeni, Il First person shot come forma simbolica. I dispositivi della soggettività nel panorama postcinematografico, in “Reti Saperi Linguaggi”, a. IV, n. 2, 2013, pp. 19-23
[49] R. Bégin, GoPro: Augmented Bodies, Somatic Images, in D. Chateau, J. Moure (a cura di), Screens, Amsterdam University Press, Amsterdam 2016, pp. 107-115.
[50] N. Paumgarten, We are a camera. Experience and memory in the age of GoPro, in “The New Yorker”, September 22, 2014. http://www.newyorker.com/magazine/2014/09/22/camera.
[51] Cfr. S. Shaviro, Straight from the cerebral cortex: Vision and affect in “Strange Days”, in D. Jermyn, S. Redmond (a cura di), The Cinema of Kathryn Bigelow: Hollywood Transgressor, Wallflower Press, London 2003 pp. 159-177.
[52] G. Youngblood, Expanded cinema (1970), CLUEB, Bologna 2013.
[53] A.Török et al., It sounds real when you see it. Realistic sound source simulation in multimodal virtual environments, in “Journal on Multimodal User Interfaces”, n. 9, 2015, pp. 323-331.
[54] M. Paterson, The senses of touch. Haptics, affects and technologies, Berg, Oxford 2007; D. Parisi, Archaeologies of touch. Interfacing with haptics from electricity to computing, University of Minnesota Press, Minneapolis (MN) 2018.
[55] M. Ischer et al., How incorporation of scents could enhance immersive virtual experiences, in “Frontiers in Psychology”, n. 5, 2014, pp. 1-11; N. Ranasinghe, E. Yu-Luen Do, Virtual sweet. Simulating sweet sensation using thermal stimulation on the tip of the tongue, in “UIST ’16 Adjunct Proceedings of the 29th Annual Symposium on User Interface Software and Technology”, 2016, pp. 127-128.
[56] Ch. Pavsek, Leviathan and the experience of sensory ethnography, in “Visual Anthropology Review”, a. 31, n. 1, 2015, pp. 4-11; M.A. Unger, Castaing-Taylor and Paravel’s GoPro sensorium: “Leviathan” (2012), experimental documentary, and subjective sounds, in “Journal of Film and Video”, a. 69, n. 3, 2017, pp. 3-18.
(testo contenuto in Visual Studies. L’avvento di nuovi paradigmi, a cura di Tommaso Gatti e Dalia Maini, Mimesis 2019, 136 pp., 12 €.)