Con questa uscita inauguro su Antinomie un’esplorazione a puntate delle forme nelle quali, di questi ultimi tempi, la nostra poesia ha espanso i propri confini (così come, affermava Gene Youngblood già nel 1970, strutturalmente aveva fatto il linguaggio del cinema): nella fattispecie nutrendosi delle risorse dell’immagine. Un movimento che si può dire inizi, nella nostra cultura poetica, negli anni Sessanta (le prime due puntate di questa ricerca, che recano il medesimo titolo, sono infatti l’introduzione al terzo volume delle Poesie complete di Nanni Balestrini, uscite da DeriveApprodi nel 2018 e, ancora inedita, una comparazione fra il poemetto di questi Blackout, del 1980, e La divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini, del 1975, svolta in una lezione dottorale tenuta allo IULM di Milano nel marzo dello stesso 2018; Expanded Poetry # 3, infine, s’intitola una mia prima rassegna di esempi dalla poesia degli ultimi anni, tenuta al convegno Concreta, a cura di Sebastiano Triulzi, all’Accademia d’Ungheria di Roma il 2 maggio 2018, e pubblicata in Ends of Poetry. Forty Italian Poets and Their Ends, numero monografico a cura di Gian Maria Annovi e Thomas J. Harrison di «California Italian Studies», 8, 2019, leggibile on line qui: https://escholarship.org/uc/item/9726v2fz).
È solo negli ultimi quindici anni, però, che questo movimento ha mutato e precisato il proprio segno incontrando quello in precedenza parallelo, della narrativa, in direzione iconotestuale (si parla di iconotestualità, nella critica internazionale, a partire dai tardi anni Ottanta; ma non c’è dubbio che la diffusione di questo device sia seguita al successo, nel decennio seguente, dei libri di W.G. Sebald: il quale peraltro aveva esordito nel 1988, nella scrittura letteraria in proprio, con un testo in versi come Secondo natura, il suo unico che non faccia ricorso alle immagini). Tanto i maggiori iconotesti in prosa (il cui architesto riconosciuto, Bruges-la-Morte, nel 1892 è il primo romanzo del poeta simbolista Georges Rodenbach) acquistano caratteri propri della scrittura poetica – per l’intrinseca ritmicità che alla scrittura verbale conferisce, ha scritto Lilian Louvel, l’«apparizione dell’immagine» che sovrappone loro una «griglia visuale» – quanto gli esperimenti più efficaci di iconopoesia paiono essere attratti, proprio dal ricorso alle immagini, nell’orbita di generi per tradizione affidati alla prosa. Spesso infatti le immagini vi rivestono la funzione di connettore macrotestuale: così “narrativizzando” le cellule liriche (o intenzionalmente anti-tali) dei versi.
Non è estraneo a questa dimensione Vincenzo Ostuni, la cui ricerca però lo spinge piuttosto – in virtù della sua formazione psicologica e filosofica, nonché per “deformazione professionale” della sua attività editoriale – in direzione “saggistica”. Un suo primo iconopoema, dalla datazione alta come il 2005 (anche se raccolto solo sette anni dopo in Faldone zero-venti. Poesie 1992-2006), era dedicato (nella forma di “recensione in versi”, con tanto di professionale indicazione di pagine e prezzo) a un caposaldo della riflessione contemporanea su questi temi come Images malgré tout di Georges Didi-Huberman.
Questo secondo episodio reca la data del 2012 nella ramificatissima meta-struttura dell’opera poetica di Ostuni, il mitobiografico Faldone di continuo auto-aggiornantesi on line: che sottostà a ogni periodica “emersione” su carta delle sue sineddochi editoriali. E, per modi sintattico-diacritici e costruzione del “set” dialogico, ricorda da vicino certi passaggi dell’ultima e più visibile di tali “emersioni”: il Libro di G. che, pubblicato dal Saggiatore nel 2019, raccoglie gli episodi del Faldone che illustrano concezione, nascita e crescita del primo figlio di «V.». Il dialogo, cornice-simbolo della tradizione filosofica, si fa qui micro-teatro famigliare, se non della crudeltà (cioè della “sincerità”), dell’immanenza. Tale è appunto la condizione pragmatica, prima che il referente concreto, della conversazione quotidiana riportata con l’autrice delle immagini, Elisabetta Tomassini: l’istanza dialogica cioè che, nel «sovrainsieme» testuale, si trova «dall’altra parte \ del vedere» (e che condivide l’aspirazione, sempre frustrata e sempre instante – «chi ora non lo ha, ora lo chiama a sé» –, all’«essere di tutti» delle cose del mondo: a partire da quei «tutti» che vi aspirano). Le parole stesse, e i loro immediati dispositivi diacritici («le virgolette o le parentesi» tipiche dello stile di Ostuni), a loro volta vorrebbero farsi «oggetti» e «corpi» – «propriamente materiali», immanenti come possono essere le immagini – ma si rivelano piuttosto «transizioni / di oggetti». Ciò non toglie che da queste «transizioni» passi «lo stretto necessario» al vivere: «passare i deserti» del tempo che ci è dato, popolati da «i desideri, i timori». Perché, scambiandosi parole e immagini, si scopre infine che «quel che si prende dentro si dà fuori».
Leggi Lo stretto necessario (Expanded Poetry #4), di Vincenzo Ostuni e Elisabetta Tomassini