Là e dopo, il bisogno. Una visita al Prado (seconda parte)

All’uscita dal Museo, la scena era di esodo. Nel frattempo, era sopraggiunto il buio e nella spianata parallela al Paseo del Prado, priva di lampioni, si intravedevano centinaia di persone sotto la pioggia battente e al freddo. Un intero raggruppamento di sfollati, alcuni con bambini, in attesa di varcare un muro. La scena era militare: un reggimento di soldati in attesa di partire, costretti intimamente a farlo. Come esiliati volontari, che si spostano per una terra promessa, o come soldati volontari: nessuno li obbliga, ma tutti obbediscono a un’intimazione. Qui abbiamo ora due concetti da trattare: intima volontà e intimazione volontaria.

In italiano la parola ‘intimo’ ha due significati apparentemente opposti: il primo è sia un sostantivo sia un aggettivo e significa qualcosa di riposto, interno, segreto e proprio. Il secondo è un verbo, e significa entrare dentro un’intimità e abitarla con forza. E’ un verbo militare, giudiziario ed ecclesiastico. E’ un verbo che raccoglie, nella equivocità del proprio nome, un bisogno vero, un intimo bisogno di consolazione. E’ il bisogno di abitare il proprio corpo, prima di capire o avere idee, ma per farlo occorre qualcun altro che con-soli. Il bisogno di intimità alcuni lo risolvono nell’intimazione, che dice al posto loro cosa devono fare per sentirsi interi, se stessi, propri, e per sentire consolazione; e, se c’è obbedienza e sacrificio, allora l’intimazione ha un sapore, sufficientemente acre, di intimità.

Quella folla era simile a un pellegrinaggio religioso, simile alle folle di Lourdes. Non bisogna disprezzare i pellegrini. Non bisogna sentirsi superiori e illuministi rispetto ai pellegrini irrazionali, perché qui loro rendono chiaro che c’è un problema dell’uso dell’arte. Attenzione: esprimo tutto il mio rispetto verso le persone in coda, perché la stanno facendo anche per me, come soldati. Io non sono una che li osservi da un piano superiore per costruirvi sopra una sociologia. Io ho un obbligo nei loro confronti, e l’obbligo è elevare il loro sacrificio a profezia. Verso la poesia, verso un’arte dell’uso.

Non aspettatevi un altro chiarimento, perché è troppo difficile riuscire a capire e a spiegare una delle pieghe più resistenti dell’arte degli ultimi cento anni: la divaricazione tra genio e tecnica, che è come dire tra proprietà e uso.

Intuitivamente capisco che quella folla non arriverà a usare l’arte, a migliorare la vita quotidiana attraverso una soddisfazione metabolica, cioè una trasformazione. Quell’attesa sfiancante è sostenuta da una teleologia; crea un significato fuori dal tempo e fuori dalla storia che sembra raggiungibile soltanto attraverso il sacrificio del proprio tempo e della propria storia. Ma questo è il punto. Il sacrificio è inutile, perché non c’è uso.

Quando, smaltita la coda, si entra nel Museo e si incontrano una dopo l’altra le opere d’arte, il colloquio si fa vieppiù difficoltoso. L’intimità si disperde e non riesce ad abituarsi all’opera. Non si riesce a sentire la precisione del rapporto tra intimità e opera. Così, era molto più perentoria e corporea la precisione della coda, quanto al rapporto tra intimità e scopo. E quanto alla consolazione, la coda è l’immagine plastica di un insieme di persone unite nel medesimo scopo. Ora, invece, varcata la soglia, si è ritornati individui, e tra il proprio sé e l’opera c’è una distanza immensa e un rapporto fiacco. La distanza della coda di prima, non è stata ancora percorsa quando ci si trova a tu per tu con l’opera. Resta ancora uno spazio disabitato.

Credo che la ragione per cui Las Meninas sia il quadro principale del Museo del Prado consista proprio nello spazio disabitato che Velasquez ha saputo ritrarre. Varcata la soglia del Prado, mi sono diretta subito a vedere Las Meninas. Da lontano, ho scorto il quadro, e mentre mi avvicinavo ho avvertito l’ingrandirsi del soffitto, come se quel quadro fosse spazioso quanto il museo. Infatti l’80% del quadro è solo architettura, e soprattutto è soffitto. Quel grande quadro ha captato e giustificato tutta la distanza che esiste nell’attesa di un incontro. Ha compreso l’apnea della speranza che è insieme debito e credito di energia prima dell’incontro. E quella porta in fondo, con il cavaliere a un passo dall’attraversarla, era la profezia di un attraversamento del quadro, per capire che quella porta è sempre aperta, che lì non c’è la coda, che lì si entra nel mondo dell’uso.

Diego Velázquez, Las Meninas, 1656

Leggi anche la prima parte di Là e dopo, il bisogno. Una visita al Prado.

Drammaturga. Ha fondato diverse scuole cicliche di movimento ritmico, le più importanti delle quali sono state Stoa e Mòra. Quest’ultima si è trasformata in una compagnia di danza. Ha fondato con Romeo Castellucci, Chiara Guidi e Paolo Guidi la Societas Raffaello Sanzio, una compagnia di teatro attiva fino al 2006. Si è formata al Liceo Artistico e all’Accademia di Belle Arti di Bologna, nella sezione di Pittura, e da allora ha continuato a produrre arte. Nel 2014 fonda la Scuola Cònia, un corso estivo di Tecnica della rappresentazione, assieme ad altri docenti. Scrive e pubblica diversi testi di drammaturgia, di teoria della scena e di arte scolastica. Tra questi, "Setta. Scuola di tecnica drammatica" (Quodlibet 2015).

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