“Non ho una faccia da commedia”
Non c’è comico senza cognizione del tragico.
Lo sa bene Charles Spencer Chaplin che il mondo conobbe e amò come Charlot. Chaplin che impersona sempre e solo un carattere: l’individuo perseguitato dal destino. Chaplin che si sente più vicino a Shakespeare che a Dickens. Chaplin che vorrebbe interpretare Amleto ma non può, perché si vede troppo tragico, e «soltanto un grande comico può interpretare il Danese». Chaplin il tragico mancato, per il quale la commedia è la faccenda più triste del mondo. Chaplin il romantico che al massimo del successo parla di stanchezza del mondo e dice di amare i film che sono come la vita: senza speranza.
Chaplin che non ride davanti ai suoi film.
Chaplin l’orfanello cui negano il regalo di Natale, una mela, perché di notte tiene svegli gli altri bambini dell’orfanotrofio con storie di pirati. Chaplin il milionario che, in fondo al cuore, è rimasto quel bambino privato, sul più bello, della mela rossa della felicità.
Chaplin il «satirista mimetico», così si definiva. Chaplin il parodiatore che dice al suo intervistatore: «Capisce, non nutro esattamente il massimo rispetto per il genere umano». Ti capiamo, Charlie.
Chaplin che si porta dall’Inghilterra la camminata a piè di papera. La ruba al mendicante ubriacone sempre davanti al pub dello zio: «Quando una vettura si fermava davanti alla porta, lui si precipitava arrancando a tenere fermi i cavalli, e si affannava talmente, con i suoi poveri piedi doloranti nelle scarpe vecchie e sfondate, che camminava più o meno nel modo in cui cammino io nei film».
Chaplin il pacefondaio cacciato a pedate dagli Stati Uniti, accusato di essere una strega comunista e mangiabambini.

Il cinema di Chaplin è il corpo di Chaplin: una cinepresa che non si sente davanti a un uomo che ha sofferto. Che sia barbone o circense, soldato o uxoricida, Hitler o barbiere ebreo, il corpo Chaplin è un prisma schizoide che rifrange la balordaggine di una società che, se non lo ficca dentro un ingranaggio industriale, lo sottopone a un’operazione di plastica facciale che gli rende impossibile ridere – e qui mi riferisco a una geniale scena di Un re a New York (1957), «il mio film più ribelle», capolavoro sospeso tra la satira e l’horror, anticipatore di Brazil (Gilliam, 1985) e Ginger e Fred (Fellini, 1985), censurato negli Usa, dove apparve soltanto nel 1973.
Devi conoscere la vita e l’orrore della vita per far ridere di un riso che sia un antidoto all’orrore: è la grande lezione di Chaplin. A riguardo c’è una ghiottoneria aneddotica che delizierà il mio amico Luca Ferri e che introduco con una frase di Orson Welles: «I comici fanno paura».
Si tratta di un ricordo del filosofo francofortese Theodor Wiesengrund Adorno, pubblicato nel 1964, in un articolo omaggio per il 75esimo compleanno di Chaplin, e apparso in italiano nel 1976 su “Cinema nuovo”, col titolo Quel giorno che Charlie Chaplin mi fece l’imitazione.
Malibù, California, secondo dopoguerra. Durante il suo esilio statunitense, “Teddy” Adorno si ritrova a un party in una villa sul mare. Tra gli invitati c’è Charlie Chaplin. Ma non è l’unica celebrità del cinema.
C’è anche l’attore Harold Russell, che nel 1947 venne insignito di due premi Oscar: uno come miglior attore non protagonista per I migliori anni della nostra vita (Wyler, 1946), nel ruolo del reduce di guerra Homer Parrish, e l’altro onorario, con la motivazione di avere instillato coraggio e speranza nei reduci grazie a questa interpretazione. In guerra Harold aveva perso ambo le mani, sostituite da artigli prensili di metallo.
Ebbene, al momento di salutare Harold Russell, che si congeda anticipatamente, Adorno gli tende la mano e stringe un artiglio. Colto di sorpresa, ritrae subito la destra, come un automa. Cercando di non lasciare trasparire il turbamento, il pensatore tramuta all’istante la propria espressione spaventata in una smorfia di circostanza, «che dev’essere risultata ancora più disgustosa», commenta rammaricato a posteriori. L’episodio si svolge repentinamente, un paio di secondi o poco più, ma Chaplin registra tutto e, appena Harold si allontana, non esita a ripetere la scenetta, immagino con incontenuta ilarità dei presenti.

Distilla Adorno: «Ogni riso è molto vicino all’orrore che lo prepara, e solo in una simile vicinanza trova la sua legittimazione e il suo significato di salvezza». Il riso che incrina la maschera sociale – che è convenzione dunque scappatoia e costrizione – smaschera l’orrore che essa copre e, mettendo alla berlina l’orrore, allenta la morsa dell’orrore.
In Un re a New York, la faccia tirata col bisturi di re Shavdov di Estrovia si spacca per colpa di una risata che non riesce a trattenere, si spacca letteralmente, durante una gag comica di cui è spettatore. Ma è proprio grazie a questo incidente crepa-pelle che il nostro sovrano spodestato e depresso recupera la sua vera faccia, con le sue vere rughe e le sue vere espressioni, insieme alla sua gioia di vivere malgrado tutto.
Quel che si dice: un riso liberatore.
In copertina: Charlie Chaplin sul set di Luci della ribalta (1952)