La coppia dei paraventi che costituiscono l’opera Shōrin-zu byōbu di Hasegawa Tōhaku non è una rappresentazione o, peggio, una raffigurazione di un bosco di pini avvolto dalla nebbia e dalla pioggia, ma una scrittura ritmata di pieni e di vuoti, di visibile e di non visibile, di presenze e di assenze consegnata a un uso apparentemente prosaico (decorare un paravento): il bosco di pini ritma, invece, gli spazi della casa e chiama l’occhio (presenza della mente aperta sul mondo) a soffermarsi sull’apparire e sullo scomparire, sull’illusorio e sul transeunte. Chiama la mente a pensarsi illusoria e transeunte.
Claude Monet a Giverny dipinge le ninfee sull’acqua facendone scrittura dello svanire e dell’impermanenza: a chi osservi quei dipinti si dà a vedere il paradosso dell’atto pittorico che ha fermato in forma d’immagine quello che incessante si muove (l’acqua) e quello che per breve stagione si schiude (il fiore della ninfea), così che quello che sembra fissato dal pennello è contemplante memoria del divenire e dello svanire, dell’impermanente e dell’illusorio.
Ettore Sottsass dedica (Domus, 300, novembre 1954, ora leggibile in Per qualcuno può essere lo spazio, Milano, Adelphi, 2017) una riflessione a Katsura, villa imperiale a sud-ovest di Kyoto.
Dopo aver riflettuto sul rapporto tra tradizione occidentale e tradizione orientale (“L’una, la tradizione occidentale, è inesorabilmente determinata dall’imperativo economico e dalla volontà a risolverlo seguendo una linea precisa che è quella di rinunciare a ogni cosa che non sia la struttura. Su questa idea di partenza si innestano, a integrarla, le imposizioni, le azioni e le reazioni di una società che attribuisce alla macchina la sua rovina, ma che ripone anche nella macchina la speranza della sua salvezza. L’altra, la tradizione giapponese, è invece determinata da un imperativo mistico che ha dotato quella società di un ordine e di un equilibrio perfetto, antico e astratto fino ad una sublime purezza; dove tutte le cose e gli uomini e le azioni e le reazioni e il mondo intero è stratificato e catalogato e ordinato e gustato non certo secondo una legge economica ma per leggi astratte e simboliche, per dogmi, definizioni, convenzioni”, pag. 154 – ovviamente Sottsass fa riferimento alla tradizione giapponese classica senza tener conto, in questo caso, delle contraddizioni anche estreme e dei traumi profondi che caratterizzano il Giappone del secondo dopoguerra) Sottsass si sofferma sul parco che circonda la villa sottolineandone il rapporto con tre classici della letteratura giapponese (Kokinshū, Man’yōshū e Storia di Genji): fioriture, piante, alberi sono stati pensati in rapporto diretto a personaggi, luoghi e situazioni di quelle opere letterarie.
A lasciarsi affascinare dalle riflessioni di Sottsass (“quella estrema dolcezza e morbidezza tremante degli spazi, quella proporzione incantata, quella signorilità casta e diretta, senza voce e senza gesti, fatta soltanto di rispetto per le cose più banali del mondo: la paglia, il legno, la pietra, la carta”, pag. 159) ci si potrebbe spingere a riconoscere anche nella villa di Katsura una scrittura che, dentro un paesaggio totalmente modellato dalla mente umana, dialogando con la letteratura, scrive l’alternarsi delle stagioni e il susseguirsi dei giorni, in un (ossimorico?) permanere dell’impermanenza e ciclico ripetersi dello svanire.

Nella serie fotografica Forms of Japan che Michael Kenna pubblica nel 2015 raccogliendovi circa trent’anni di sue frequentazioni con il paesaggio e con la cultura giapponesi si coglie forse, proprio dentro la maestria del fotografo e del suo bianco e nero, quello che ancora Sottsass scrive: “resterebbe da vedere (…) fin dove (…) gli occidentali hanno (…) cercato e trovato conferma nell’architettura giapponese ai loro sogni e alla loro nuova idea della realtà estetica: (…) forse architettura moderna occidentale e architettura classica giapponese coincidono quasi per caso, per somiglianze piuttosto formali che reali, o per lo meno vagamente reali “(op. cit., pagg. 153 e 154). Sottsass rivolge la sua attenzione in particolare all’architettura, ma credo che il discorso possa essere allargato e, in effetti, il Giappone coltivato e vagheggiato da molti intellettuali e artisti occidentali veniva (viene) a soddisfare un bisogno di pulizia formale e interiore, di rigore di linee e di idee; non è allora un caso che Kenna riconosca nel paesaggio e in alcune architetture (come quella di un torii shintoista, per esempio, o di un ponte in pietra) la purezza delle linee e dei profili, che gli alberi fotografati appaiano quali kanji stagliantisi tra terra e cielo (una sorta di scrittura della natura, dunque, che l’occhio umano ha l’impressione di riconoscere e sentire prossima), che le immagini della successione dei profili montuosi o collinari ritmati nelle nebbie e nelle foschie restituiscano la percezione come di una prosodia dell’orografia mentre in lontananza tutto sembra svanire. E neppure è un caso che Michael Kenna abbia scelto di stampare le fotografie in bianco e nero e su gelatina d’argento, in quanto le immagini guadagnano una distanza e una sospensione metafisica senza pari, non ultime le visioni del Monte Fuji.
Dalla villa di Torre del Greco Giacomo Leopardi contempla un altro vulcano dialogando con il fiore di ginestra.
Nel ritmo degli endecasillabi e dei settenari la consapevolezza della risibilità di ogni superbia umana è scrittura d’impareggiabile ritmicità pur nella gravità dei temi: davvero un “pensiero poetante” (cfr. Antonio Prete e i suoi studi leopardiani) che si dispiega sinuoso e potente, sulla soglia del nulla.
Poco più di un secolo dopo nei suoi Esercizi vecchi e nuovi (Roma, Luca Sossella Editore, 2011) Giovanna Bemporad, dedicando un componimento proprio a Leopardi, scrive:
(…)
L’aria è tutta armonia: sarebbe dolce
svanire in questa immensità serena.
(…)
La luna va calando all’orizzonte
dove si perde la pianura, e dice
che trapassare al nulla non è male.
(op. cit., pag. 24).
Sua costante, prediletta compagna la notte, la poetessa trama versi di perfetti, armoniosi endecasillabi sui quali torna per anni con un labor limae instancabile e il purissimo azzurro del verso 162 della Ginestra sembra ripercuotersi nei versi di Giovanna Bemporad: “E sale (scil. la luna) / bianchissima / tra azzurre trasparenze, / l’arco del cielo, ritessendo il velo / delle illusioni lacerato in terra” (op. cit., pag. 25).
Rosa Barba gira nel 2009 The Empirical Effect, film nel quale mette in scena un’esercitazione di evacuazione che nella realtà non ha mai avuto luogo: protagonisti gli abitanti di Ottaviano, alle pendici del Vesuvio, in particolare gli scampati all’eruzione del 1944. In un susseguirsi di riprese panoramiche del cratere e della città, di scene oniriche girate nell’osservatorio abbandonato, il ritmo frammentario delle immagini scrive il rapporto dell’uomo con il vulcano e il senso di precarietà che si percepisce nella zona rossa: gli scampati che, in alcune sequenze, guardano muti dalle finestre dell’edificio o osservano gli strumenti scientifici che registrano i sommovimenti del suolo, ritmano a loro volta l’attesa e la consapevolezza di un’impermanenza che, qui, ha i caratteri della catastrofe imminente o, comunque, incombente.

E Rosa Barba espone alla Triennale Setouchi del 2019 la tappa più recente del suo quasi decennale progetto intitolato White Museum: un film fotografato totalmente in bianco stampato su di una pellicola di formato 70 mm viene proiettato sulla superficie marina di fronte all’isola di Shodoshima, così che lo schermo risulta essere l’acqua stessa e il raggio di proiezione ben visibile nel buio (lo stesso aveva fatto l’artista proiettando il film su di un pino marittimo a Villa Medici, sul fiume Saskatchewan, alla Biennale di San Paolo del Brasile…): è intuibile che il film proiettato, il quale nell’esposizione giapponese racconta il variare delle increspature dell’acqua e l’interazione della stessa tecnica di proiezione con le condizioni della luce naturale e meteorologiche, svanisca all’approssimarsi e all’imporsi del giorno, per poi riapparire al crepuscolo serale e celebrare la propria presenza notturna, in una ciclicità inscritta nel proprio rendersi visibile e, pure, invisibile. E altrettanto intuibile è che quel film sia continuamente diverso, del tutto liberato dal montaggio cinematografico, completamente affidato al divenire dei luoghi e delle situazioni.
Mi soffermo su tre immagini dal volume di Roland Barthes L’impero dei segni (per l’edizione italiana faccio riferimento alla ristampa Einaudi del 2007): la prima è una calligrafia da un frammento del manoscritto ora smembrato Ishiyama-gire e che riporta dei versi della poetessa Ise (XII secolo); Barthes scrive di proprio pugno, come a commento della pagina che, nell’originale, è un collage di preziose carte colorate con inserti decorativi in argento o stampati da matrici di legno sui quali l’amanuense ha vergato in inchiostro e pittura i versi della poetessa: “Pluie, Semence, Dissémination, Trame, Tissu, Texte, Écriture”.
Barthes, che guarda anche al gesto della mano e del corpo intero mentre tracciano i segni scrittori e che pone attenzione al segno in sé indipendentemente dal suo possibile significato o senso, vede pioggia, semina e disseminazione (azioni o accadimenti taluni casuali, altri premeditati) e il tracciarsi di tramature come quando si tesse una stoffa, così che il passaggio al testo (etimologicamente il risultato verbale e tipografico del tessere scrittura e parole) appare inevitabile e, dentro il testo, ecco la scrittura; la pagina offre ritmi che rendono manifesti i segni e che, nello scorrere o per dir meglio vagare dell’occhio attraverso le diverse regioni della pagina, lasciano apparire e poi scomparire quelle tracce, quei segni, quei rimandi – ché in questo caso si tratta anche di parole raccolte in precisi ritmi per trasmettere significato e, nello stesso tempo, di segni pittorici relati con uno spazio polimorfo, capaci essi stessi di dar forma allo spazio, emergendo alla vista di chi guarda/legge e scomparendo all’apparire del segno successivo.
Sulla pagina a fronte della fotografia che riproduce il volto (il quale letteralmente si apre sul volto sottostante) della statua del monaco Hōshi Barthes scrive: “le Signe est une fracture qui ne s’ouvre jamais que sur le visage d’un autre signe”.
Il segno come viso, come ciò che viene visto e come frattura nel continuum della superficie: e, forse, la maiuscola iniziale del primo Signe allude a un segno che è soglia di una serie di segni racchiusi gli uni negli altri (l’uno sotto l’altro), in una sequenza che, teoricamente, potrebbe estendersi all’infinito e che è un ritmo segnico che sembra avere come invitante segnatura la vertigine (Amleto vedeva lo spazio infinito in un guscio di noce, si rammenti).
La terza immagine sulla quale mi soffermo è la foto del giardino del Tempio Tofuku-ji a Kyoto – e Barthes vi scrive: “Jardin Zen: nulle fleur, nul pas: où est l’homme? Dans le transport des rochers, dans la trace du râteau, dans le travail de l’écriture”.
L’assenza è colma delle tracce di una presenza ora svanita – la disposizione delle rocce, i solchi paralleli e sinuosi del rastrello scrivono lo svanire o la mai avvenuta presenza di fiori e di passi umani: scrittura come memoria e allusione. Spazio come instabile risultanza di movimenti.

Torno ora alla carta, materia oltremodo fragile eppure capace di offrirsi quale sublime schermo sul quale far materializzare ancora altri ritmi dello svanire: si prenda in considerazione l’arte fotografica di Ángel Albarrán e di Anna Cabrera, il loro ricorrere alla carta giapponese gampi su cui sovrapporre una foglia d’oro per stamparvi le immagini fotografate; l’impressione che se ne riceve è quella di riuscire a vedere il silenzio e il nulla affacciandosi sulla splendida fragilità di quello che appare e che subito si appresta a svanire e penso alla serie intitolata The Mouth of Krishna, un’andanza della mente e dello sguardo attraverso il Giappone, un vero e proprio universo di universi (come suggerisce già il titolo che si rifà al mito della bocca del piccolo Krishna, ma che, scrivono i due fotografi, è anche suggestionato dal guscio di noce di Amleto e dal granello di sabbia di William Blake) fatto di navi che paiono sospese su di un mare-tempo indefinibile, di rami in fiore, di pesci come nuotanti tra cielo e terra, di paesaggi costieri, della cima innevata del Monte Fuji: perché Albarrán e Cabrera portano a scrittura un complesso processo iniziato con il loro viaggiare, guardare, fotografare, studiare, preparare il foglio da stampare, perché la loro arte continua tradizioni antichissime di pittura e di stampa, perché artisti figli della cultura occidentale (e mediterranea in particolare) cercandosi nell’Oriente estremo ch’è il Giappone celebrano la bellezza di un universo sempre svanente, sì, ma non per questo privo di senso.
E chiudo definitivamente il cerchio di questo scritto: Shōrin-zu byōbu di Hasegawa Tōhaku è anche, molto probabilmente, l’interpretazione pittorica della concezione zen del ma (spazio, intervallo, spazio vuoto tra due elementi strutturali) il cui kanji è 間, vale a dire una porta tra le cui ante si dà a vedere il sole (una versione più antica presenta la luna al posto del sole), per cui l’interpretazione potrebbe essere “luce solare (o lunare) che filtra traverso la fessura della porta”, vale a dire spazio materiato dalla compresenza di pieno e di vuoto, di chiuso e di aperto, di presenza e di assenza, di luce e di buio.