Testo pubblicato in occasione della mostra Time Machine. Vedere e sperimentare il tempo, curata da Antonio Somaini con Éline Grignard e Marie Rebecchi, da un’idea di Michele Guerra (Parma, Palazzo del Governatore, 13 gennaio-3 maggio 2020), specificamente concepita come parte del programma di Parma Capitale della Cultura Italiana 2020, «La cultura batte il tempo». La mostra esplora il modo in cui il cinema e altri media fondati sulle immagini in movimento hanno trasformato, nel corso della loro storia, la nostra percezione del tempo. La mostra è accompagnata da un catalogo, in italiano e inglese, pubblicato da Skira, dal quale proponiamo una versione ridotta del contributo di Marie Rebecchi.
‘Se lei conoscesse il Tempo come lo conosco io’ rispose il Cappellaio,
‘non direbbe che noi ne perdiamo. Non si tratta di me, ma di lui’.
‘Non so che ella si dica’, osservò Alice.
‘Sicuro, nol sa!’ disse il Cappellaio, scuotendo il capo con un’aria di disprezzo.
‘Scommetto che lei non ha mai parlato col tempo!’
‘Forse no’, rispose prudentemente Alice;
‘ma so che debbo battere il tempo quando imparo la musica’.
‘Ah! e questo spiega tutto’, disse il Cappellaio. ‘Ei non vuol essere battuto.
Se lei non si bisticciasse con lui, egli farebbe dell’oriuolo ciò che ella vuole’.
(Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, trad. it., 1872)[1]
Nei deserti dell’Ovest rimangono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi;
in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle Discipline Geografiche.
(Suárez Miranda, Viajes de varones prudentes, 1658, in Jorge Luis Borges, Del rigore della scienza (Storia universale dell’infamia), 1935, 1954 [2].
Viaggio al di là dello specchio nel Paese del “nowhere”. Il tempo elastico e l’intelligenza di una macchina

Se si attraversa lo specchio, la lastra di cristallo, come narra Lewis Carroll nelle prime pagine di Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò (1871) [Fig. 1], appare di colpo l’immagine di un sogno: uno spazio-tempo labirintico, un Paese geograficamente indisciplinato, una visione caleidoscopica, una “pantomima cosmica” che solo i “grandi specchi velati”[3] fuoriusciti dalle memorie d’infanzia di Borges, sull’onda delle meraviglie di Carroll, possono riflettere:
Conobbi bambino, codesto orrore di una duplicazione o moltiplicazione spettrale della realtà, ma davanti ai grandi specchi. Il loro infallibile e continuo funzionare, la loro persecuzione dei miei atti, la loro pantomima cosmica, erano soprannaturali allora, dal momento in cui annottava.[4]
Per vedere l’immagine di un altro tempo, un tempo che non esiste, astratto, già trascorso e dimenticato, futuro e a venire, presente ma invisibile a occhio nudo, bisogna azionare una macchina del tempo: inventare un medium per scavalcare il reale e viaggiare al di là del presente. Attraversare uno specchio, assumere una sostanza allucinogena, immergersi in una piscina di lacrime, perdersi in un labirinto, guardare dentro un caleidoscopio, osservare la materia inerte al microscopio, leggere la fantascienza di H. G. Wells, vedere il tempo e la storia accorciarsi, accelerare, smontarsi e rimontarsi durante una proiezione cinematografica.
Da un lato, la letteratura europea del “nowhere”, fantastica e fantascientifica, della seconda metà del XIX secolo (da Voyage au centre de la Terre di Jules Verne, 1864, a Erewhon: or, Over the Range di Samuel Butler, 1872, passando per i viaggi nel Paese delle meraviglie di Carroll) ha nutrito e preparato l’immaginario fantascientifico di Time Machine di Wells, che a sua volta ha contribuito a costruire il mito dell’anno 1895, convenzionalmente il primo nel calendario della storia del cinema[5]; dall’altro, l’incontro delle nuove leggi della fisica con la tecnologia dei nuovi media ha reso possibile la visione di un altro tempo: un tempo elastico, in uno spazio ristretto. Quello del cinema. È a Friedrich Kittler, teorico della letteratura e dei media, che dobbiamo l’ipotesi secondo cui grazie all’invenzione di tre fondamentali media tecnici – grammofono, cinema e macchina da scrivere –, e alla loro diffusione negli ultimi tre decenni del XIX secolo, ha inizio l’era dei nuovi media tecnici (Mediengründerzeit).
Tutto ciò è ben noto alle attuali teorie dei media. Ma occorre oggi collegarlo a un altro parametro, quello della manipolazione del tempo, che a tutta prima potrebbe apparire distante da un’indagine archeologica sui media tecnici. La seconda metà del XIX secolo è infatti anche il teatro di una sorprendente coincidenza anacronica tra l’invenzione di un mondo preistorico scomparso e un futuro disumanizzato, tra una “prima natura” immaginata come un giardino infernale attraversato da dinosauri e una “seconda natura” popolata da macchine emancipate dai loro creatori. Un tempo lontanissimo, quello che nel sistema spazio-temporale di Borges possiamo definire “l’Aleph”[6] della storia, dell’origine del tempo della terra e dell’uomo, dove si trovano già da sempre, in potenza, senza confondersi, tutti gli spazi e tutti i tempi; un tempo che reclama di essere mostrato in un vicinissimo presente come presagio inquietante di un futuro prossimo. Come il cinema, e la macchina del tempo – e il cinema come macchina del tempo –, “la preistoria è un’invenzione del XIX secolo”, una tra le più enigmatiche e potenti della modernità. Con queste parole Maria Stavrinaki, nel suo libro Saisis par la préhistoire. Enquête sur l’art et le temps des modernes[7], inaugura una labirintica investigazione sul tempo lunghissimo dell’uomo, della terra e dell’arte condotta all’epoca dei moderni, che non solo non sono mai stati moderni[8], ma guardano alla preistoria come chimerica origine della cultura moderna e contemporanea. Il tempo della preistoria è così, come quello manipolato dal cinema, un tempo elastico, e l’età della Terra uno spaziotempo impenetrabile. All’epoca dei moderni, cosmologi e naturalisti come Buffon avevano già intuito che la Storia naturale nel XVIII secolo doveva avviare un processo di metaforizzazione del tempo fluttuante e incalcolabile della Terra per costruire un racconto dell’origine in grado di prendere il posto vacante lasciato dalle Sacre scritture. Un tempo flessibile, esteso a dismisura per approssimarsi il più possibile alla realtà del tempo scolpito nella natura, e, simultaneamente, accorciato a misura d’uomo per conformarsi alle possibilità limitate dell’intelletto umano. Sono gli anni in cui Charles Darwin pubblica On the Origin of Species (1859), Charles Lyell, tra i fondatori della geologia moderna insieme a James Hutton, pronuncia davanti alla British Society for the Advancement of Science il suo discorso “On the Occurrence of Works of Human Art in Post-Pliocène Deposits” sull’antichità dell’uomo attestata dalla geologia, l’antropologo John Lubbock inventa la suddivisione della preistoria in “paleolitico” e “neolitico”, pubblicando nel 1865 a Londra Pre-historic Times, as Illustrated by Ancient Remains and Manners and Customs of Modern Savages. La preistoria e il cinema sono due costruzioni della modernità che hanno reso pensabile e visibile un tempo profondo e invisibile, spesso ma manipolabile.
Ciò che una macchina del tempo, progettata non solo per viaggiare in un’altra epoca ma anche per plasmare e manipolare il tempo, deve essere in grado di fare è, ad esempio, portare a visibilità il tempo lunghissimo della preistoria in un lasso ristretto di tempo. I primi esempi di questa manipolazione del tempo sono da ricercare nella cultura visiva dell’evoluzionismo a cavallo tra XIX e XX secolo, e, in particolare, in una serie di film, realizzati all’inizio del XIX secolo da F. Martin Duncan, naturalista inglese e pioniere della microcinematografia, volti a tradurre con il linguaggio delle immagini in movimento le teorie darwiniane sull’origine della specie e la selezione naturale[9]. Anche Franck Percy Smith (1880-1945), precursore del documentario naturalista, si unisce alla tradizione di coloro che hanno tentato di escludere le scienze biologiche dal dominio di un’élite per aprirle alle classi popolari, contribuendo così alla diffusione dei film di divulgazione scientifica (“popular-science film”)[10]. Nella lista dei film del catalogo Duncan, il viaggio nel tempo si percorre secondo due diverse direzioni: quella dell’evoluzionismo, come time travel scientifico nel tempo profondo delle origini (si pensi al film The Amoeba, the beginning of life, 1905)[11], e quella delle tecniche di manipolazione del tempo, come trip foto-cinematografico, reso possibile dalla fotografia ultra-rapida (high-speed photography) e dalla tecnica del time-lapse.
Già a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, il fisico e filosofo Ernst Mach immagina una possibile applicazione del cinema ai principi che regolano i fenomeni di lunga durata. Come osserva Oliver Gaycken, ipotizzando un’applicazione della tecnica del time-lapse alla cronofotografia, Mach fornisce nel 1888 una delle prime formulazioni della tecnica del time-lapse cinematografico: “Non dovrebbe anche il principio della diminuzione temporale avere valore? Infatti, prendiamo in considerazione la possibilità di fissare fotograficamente le fasi di crescita di una pianta, le fasi di sviluppo di un embrione, le ramificazioni dell’albero genealogico darwiniano degli animali, e di esporle in una rapida sequenza di immagini proiettate dalle lanterne magiche”[12].

Il bisogno di scomporre il movimento per vedere gli istanti del suo svolgersi nel tempo, la necessità di rendere disponibili all’occhio umano, e a quello perspicuo dello scienziato, i fenomeni ultraveloci (dallo “splash”[13] di una goccia che sprofonda in uno specchio d’acqua e latte, all’impercettibile traiettoria di un proiettile che perfora una bolla di sapone) [14] [Fig. 2], e quelli ultra lenti (dal germogliare e l’appassire di un fiore, alle fasi di sviluppo di un embrione), sono alla base degli esperimenti e delle invenzioni tecniche che conducono alcune delle figure più interessanti del panorama scientifico della seconda metà del XIX secolo – Jules Janssen, Etienne-Jules Marey, e Lucien Bull suo allievo – all’invenzione delle prime tecniche di manipolazione del tempo attraverso la fotografia e il cinema: dal fucile fotografico alla cronofotografia, dalla fotografia ultra-rapida in grado di registrare fenomeni velocissimi, alla fotografia e al cinema capaci di riprodurre i movimenti ultra lenti (time-lapse). Ecco la “magia” di un cinema che ha iniziato a rivelare l’inconscio del visibile e l’esattezza scientifica dell’invisibile.
Bisognerà aspettare gli scritti e i film di Jean Epstein, qualche decennio più tardi, tra la fine degli anni venti e gli anni quaranta, per una teoria e una pratica del cinema come macchina capace non solo di mostrare l’invisibile, ma anche di mettere alla prova la propria intelligenza animando tutte le cose, mettendo in movimento l’apparentemente inerte grazie alla propria abilità di manipolare il tempo delle immagini, rendendo così visibili le forme del vivente attraverso una serie di alterazioni temporali. Teorico di un “cinema animista”, Jean Epstein in un testo del 1935 intitolato L’Intelligence d’une machine, pubblicato su Inter-Ciné[15](da non confondere con un altro testo, che porta lo stesso titolo, pubblicato nel 1946), riconosce al cinema un’intelligenza propria, una capacità tecnica innata di animare “l’inerte e il vivente” iuxta propria principia.
Le macchine inventate dall’uomo hanno una propria intelligenza, dalla quale l’intelligenza umana attinge. Probabilmente il tratto più evidente dell’intelligenza cinematografica è il suo animismo. Sin dalle prime proiezioni al ralenti o accelerate, tutte le barriere che avevamo immaginato separare l’inerte dal vivente, si sono cancellate. E l’azione del cinematografo ci mostra che non v’è niente di immobile, di morto. I cristalli crescono, si spostano, si moltiplicano come cellule. Le piante hanno gesti animali. Gli insetti, incontrandosi, chiacchierano a colpi di antenna, come fanno certi infermi quando le dita dell’uno picchietta le palme dell’altro. Dove stanno allora i limiti tra i regni della natura?[16]
Negli anni quaranta anche Sergej Ėjzenštejn, nelle note su Walt Disney, che avrebbero dovuto essere integrate alla sua opera Metodo[17], incompiuta e pubblicata postuma,contribuirà a definire i lineamenti di una teoria animista del cinema. In un paragrafo di queste note su Disney intitolato appunto Animismo, Ėjzenštejn coglie nel medium del disegno, e della linea grafica, la possibilità di dotare l’inerte di un’anima, ovvero di mettere in movimento l’inanimato: “Il disegno mobile di Disney in inglese si chiama animated cartoon. In questa definizione si sono fusi i due concetti l’“animizzazione” (anima) da una parte e la “mobilità” (animation-animazione, movimento) dall’altra[18].
Le forme della natura e il “miracolo delle piante”

Com’è possibile partecipare del ritmo di “vita” di una pianta, osservarne l’animazione dei movimenti e le impercettibili metamorfosi in un tempo che incontra le nostre capacità percettive, al di là di ogni antropocentrismo e antropomorfismo[19]? È la domanda che all’inizio del XX secolo scienziati, biologi, cineasti e artisti si sono posti nel momento in cui il potere euristico ed espressivo del cinema ha aperto le porte alla possibilità di manipolare il tempo e lo spazio attraverso l’uso di tecniche come l’accelerazione, il time-lapse, l’ingrandimento e la sovrimpressione, rivelando così sullo schermo la “vita delle piante” [20]. Nel corso del XIX secolo, l’intimo legame tra le forme del vivente e le forme artistiche era già stato centrale nelle ricerche del biologo e filosofo tedesco Ernst Haeckel, che, sulla base della teoria evoluzionistica di Charles Darwin e dell’opera di Goethe sulla metamorfosi delle piante, aveva considerato il potere trasformativo della vita biologica da un punto di vista artistico e ornamentale. Il suo atlante sulle Forme d’arte della natura [21] (1899-1904), [Fig. 3] costituisce, insieme ai primi studi fotografici sulle forme vegetali (come i fondamentali cianotipi di Anna Atkins pubblicati in British Algae: Cyanotype Impressions, 1843), un punto di riferimento fondamentale per la cultura visiva del tempo. Se l’impatto degli studi scientifici sulla morfologia del mondo vegetale nell’ambito dell’estetica risale dunque al XIX secolo, i primi a lasciare un’impronta nella teoria del cinema sono proprio i film scientifici sul movimento delle piante: dagli Studies of Plant Movement realizzati da Wilhelm Pfeffer (1898-1900) a Birth of a Flower di F. Percy Smith (1910); da Das Blumenwunder di Max Reichmann (1925) [22] alla Croissance des végétaux di Jean Comandon (1929). Anche il cinema delle attrazioni dei primi tempi guarda al mondo vegetale: i film colorati a mano realizzati per Pathé Frères da Gaston Velle, con la fotografia di Segundo de Chomón, come La Fée aux fleurs (1905) et Les Fleurs animées (1906), ne sono l’esempio più evidente e seducente. Nel corso degli anni ‘20 l’avanguardia europea e sovietica, da Germaine Dulac a Sergej Ėjzenštejn, rimane affascinata dal potere espressivo di questi erbari cinematografici. Lo stesso Ėjzenštejn già nel 1929 avanza l’idea di fare un film d’animazione sul “movimento espressivo delle piante” [23].
Time-lapse machine ed eterotemporalità vegetale
Tentare di vedere l’invisibile attraverso la mediazione della tecnica cinematografica (e microcinematografica) è una delle vie d’accesso privilegiate alla percezione della vitalità di tutto ciò che ci appare inerte. Solo in questo modo si possono osservare i movimenti ultra-lenti, impercettibili, con alcune tecniche specifiche come il time-lapse. Il time-lapse è un effetto ultra accelerato realizzato immagine per immagine. Per ottenere l’effetto di accelerazione, la frequenza di cattura dei fotogrammi non deve corrispondere alla velocità standard di proiezione, impostata su 24 fotogrammi (o 25 fotogrammi) al secondo, ma deve essere di 12-8-6 fotogrammi al secondo per accelerare la proiezione di 2-3-4 volte. Il naturalista britannico F. Percy Smith è stato uno dei pionieri della tecnica del time-lapse nel cinema con il suo film del 1910 The Birth of a Flower realizzato in Kinemacolor. Il film contiene nove scene che mostrano l’apertura e la trasformazione spettacolare di nove diversi tipi di fiori, compresi giacinti, gigli, giunchiglie, tulipani, rose, e anemoni che chiudono e dischiudono i propri petali come lenti di un caleidoscopio [Fig. 4]. Fiori che sbocciano e appassiscono in uno spazio-tempo manipolato dalla tecnica cinematografica: la vita delle piante può così essere percepita dall’occhio umano. È a Jean Comandon, medico e biologo francese, che si deve l’invenzione di una serie d’innovativi dispositivi per osservare l’invisibile nel vivente: l’ultra-veloce e l’ultra-lento. “Il mondo vegetale che egli filma a velocità molto lenta, per lunghi periodi di tempo, cessa di apparire immobile; i fiori sbocciano, si consegnano nella loro pienezza e poi appassiscono”[24]. Il suo film, La croissance des végétaux (1929), così come i primi film in time-lapse sulla vita vegetale del botanico tedesco Wilhelm Pfeffer e del fotografo americano Arthur Pillsbury, sono stati probabilmente influenzati dagli scritti di Charles Darwin sul movimento delle piante – The Power of Movement in Plants, 1880 – e dalle scoperte di Ernst Mach nell’ambito degli studi sulla velocità supersonica della seconda metà del XIX secolo[25]. Il bisogno di rendere visibile il movimento delle piante richiede necessariamente, come abbiamo visto, di intervenire sulle coordinate temporali: la temporalità delle piante è una “etero-temporalità” [26]: una temporalità quantitativamente e qualitativamente differente da quella che caratterizza l’esistenza degli altri esseri umani; un “tempo-vegetale” che richiede l’intervento del cinema come medium tecnico, capace di aumentare e prolungare le potenzialità del sensorio umano, trasformando il tempo “altro” delle piante in una temporalità gestibile dall’occhio umano.

Con i film time-lapse, il cinema ha rivelato nelle piante una sensomotricità complessa, vale a dire una sensibilità che consente loro di eseguire movimenti adattati al loro ambiente, come la capacità di percepire diversi tipi di stimoli (luce, temperatura). La sensibilità e il movimento, resi visibili dalle manipolazioni spazio-temporali del cinema, conferiscono quindi alle piante due facoltà generalmente considerate animali. Questa “anima” comune tra le forme di vita animale e vegetale, questa porosità tra le piante e gli animali, che la fotografia e il cinema rivelano, delinea una sorta di “unità di vita”, come dice Jean Epstein in un passaggio molto conciso tratto dal suo saggio L’Intelligence d’une machine: “L’intero universo è un’immensa bestia le cui pietre, i fiori, e gli uccelli sono organi esattamente coerenti nella loro partecipazione ad un’unica anima comune. Così tante classificazioni rigorose e superficiali, che si suppongono proprie alla natura, costituiscono solo artifici e illusioni. Sotto questi miraggi, il popolo delle forme è essenzialmente omogeneo e stranamente anarchico” [27].
Il caleidoscopio della materia: cristalli in movimento
Ô ce cri sur la mer, cette voix dans les bois !
Ce sera comme quand on ignore des causes ;
Un lent réveil après bien des métempsycoses :
Les choses seront plus les mêmes qu’autrefois
(Paul Verlaine, “Kaléidoscope”, in Jadis et Naguère, 1884) [28]
Nel suo libro The Kaleidoscope, its History, Theory and Construction with its Application to the Fine and Useful Arts (1856), Sir David Brewster, inventore del caleidoscopio, descrive questo “giocattolo” scientifico come un dispositivo in grado di trasformare la percezione ottica degli oggetti attraverso un sistema inclinato di lenti distribuite lungo un tubo. Con questa scoperta stava avvenendo un cambiamento decisivo nella cultura visiva del XIX secolo[29]. Una nuova forma di conoscenza fondata sulla decostruzione e ricostruzione della percezione della realtà avrebbe perturbato il quadro epistemologico entro cui i rapporti tra scienza, arte e ottica (tra esperimento, astrazione e ornamento) erano stati concepiti fino a quel momento. Negli anni venti il modello ottico del caleidoscopio emerge dal suo stato d’invisibilità – secretato nella geometria molecolare di cui sono composti i cristalli –, nel cinema scientifico di Jan Cornelis Mol e nei film sulle tecniche per visualizzare la cristallizzazione di alcuni elementi chimici (come il potassio). Fotografo dilettante, affascinato dalla microcinematografia del fisico tedesco Henry Wilhelm Friedrich Siedentopf, realizza nel 1924 con il dottor H. W. Van Seters dell’Università di Leyda il film Antoni van Leeuwenhoek, che contiene già una caleidoscopica sequenza cristallina[30]. Nel 1928 una nuova versione di Antoni van Leeuwenhoek fa il suo ingresso nelle sale cinematografiche dell’avanguardia, prima a Amsterdam e poi a Parigi, dove viene mostrato come film autonomo con tre proiettori – e con la supervisione di Abel Gance –, allo Studio 28.

Del Regno dei cristalli (Uit het rijk der kristallen), film di 13 minuti realizzato nel 1927, esistono oggi più versioni (con il nuovo titolo di Kristallen in kleur), sonorizzate negli anni trenta e colorizzate a partire dalle nuove tecniche sul colore sperimentate negli stessi anni da Louis Dufay [Fig. 5]. Come nota Jean-Michel Durafour nelle pagine del suo “trattato di econologia”, l’osservazione al microscopio della crescita e della trasformazione dei cristalli sotto un fascio di luce polarizzata al prisma di Nicol, produce una condizione di progressiva animazione delle forme: i cristalli si animano proprio grazie al cinema. La cristallogenesi in questo senso è indissociabile dal movimento accelerato delle immagini che la mostrano attraverso un uso calcolato del montaggio. I cristalli, seguendo la riflessione di Durafour, sono dunque “filmici” per loro natura.

Un altro mirabile risultato dell’incontro cinematografico tra l’ottica caleidoscopica e l’osservazione al microscopio dei cristalli è Cristaux liquides (Transition de phase dans les cristaux liquides) [Fig. 6], film di 7 minuti realizzato nel 1978 da Jean Painlevé, biologo, regista, fondatore dell’Institut de cinématographie scientifique e figura ponte tra il rigore del documentario di studio scientifico e l’estetica del cinema surrealista a partire dagli venti. All’intersezione tra un film psichedelico, un documentario sulla pirotecnica e l’osservazione di una “cromo-metamorfosi” della materia al microscopio, Cristaux liquides mostra attraverso un microscopio polarizzante la cristallizzazione di alcuni liquidi in una varietà sorprendente di forme e colori, secondo differenti condizioni di temperatura e pressione[31]. I cristalli liquidi, come le immagini dei film di Painlevé, sono composti organici (scoperti nel 1888 dal botanico austriaco Friedrich Reinitzer) che restano sospesi tra due differenti forme di organizzazione della materia: lo stato liquido e lo stato solido coesistono in fasi intermedie, presentando caratteristiche tanto dello stato cristallino quanto di quello liquido.
La storia della realizzazione del film è intimamente legata alle ricerche scientifiche e alla collaborazione tra Painlevé con Yves Bouligand presso il laboratorio di Arago di Banyuls-sur-Mer nel corso degli anni Sessanta[32]. Sarà il successivo incontro al Festival di animazione di Annecy nel 1973 con François de Roubaix, compositore e sub appassionato del milieu sottomarino, a produrre quello che lo stesso Painlevé aveva nominato lo “hasard cosmique”[33] tra la sincronizzazione delle immagini dei cristalli liquidi, frutto delle riprese effettuate in microcinematografia da Painlevé e Bouligand, e la musica composta da de Roubaix l’anno stesso della sua morte in un incidente durante un’immersione alle Canarie. L’effetto sullo spettatore di questo incontro audiovisivo, cosmico e fortuito, è quello di un “mental time trip”, di un viaggioaccelerato dalle metamorfosi cromatiche della materia, di un trip psichedelico sotto l’effetto di LSD. Si potrebbe ipotizzare che il soggetto scientifico del film, i cristalli liquidi, possa terminare il suo ciclo di trasformazioni sostituendosi alla materia stessa dello schermo: un monitor LCD (a cristalli liquidi).
Che tempo fa? Time Lapse-Manipulation e le nuvole di Abe Masanao
For instance, it is the practice of nature to give character to the outlines of her clouds, by perpetual angles and right lines. Perhaps once in a month, by diligent watching, we might be able to see a cloud altogether rounded and made up of curves; but the artist who paints nothing but curved clouds must yet be considered thoroughly and inexcusably false.
(John Ruskin, Modern Painters, I, ch. IV, 1843) [34]
Dall’invisibile, a occhio nudo, movimento di trasformazione della materia agli indeterminabili, con esattezza, movimenti dei pianeti, a partire dalla seconda metà del XIX secolo una delle maggiori preoccupazioni dello scienziato – astronomo, biologo, fisiologo – è stata quella di fare uso delle differenti tecniche e invenzioni fotografiche per osservare, registrare e scomporre il tempo del movimento dei corpi celesti e terrestri. Nel 1873 l’astrofisico Jules Janssen si rivolge alla fotografia per risolvere in maniera oggettiva la questione della determinazione esatta del passaggio di Venere davanti al Sole: la soluzione sarà l’invenzione di un nuovo dispositivo, “il revolver fotografico” [Fig. 7], che avrebbe dovuto misurare con precisione il tempo di questo passaggio per conoscere la distanza media tra il centro del Sole e quello della Terra.

Al di qua delle stelle e dei pianeti, un altro fenomeno, quello della formazione delle nubi, ha imposto all’occhio dello scienziato di munirsi di strumenti adatti all’osservazione del tempo meteorologico, per registrare fotograficamente e cinematograficamente gli istanti del tempo delle sue trasformazioni. Occorre viaggiare nello spazio, e non solo nel tempo, per leggere uno dei trattati visivi di nembologia più interessanti del XX secolo. Siamo in Giappone, agli inizi degli anni venti, e il conte Abe Masanao (1891-1966), meteorologo, discendente di una famiglia aristocratica della nobiltà di origine militare, esteta con una “mania ottica” per l’osservazione delle nuvole sin da bambino[35], fonda nel 1927 il suo osservatorio meteorologico ai piedi del Monte Fuji, “L’Osservatorio Abe per la ricerca sulle nuvole e le correnti atmosferiche”, dedicando così tutta la sua vita allo studio e alla registrazione fotografica e cinematografica delle correlazioni perturbanti tra le nuvole e le correnti atmosferiche intorno al Fuji. Nel 1923, durante un viaggio in Italia, resta colpito dalla permanenza di una nuvola dalla forma lenticolare, sospesa immobile sopra l’Etna prima di sparire definitivamente tra le montagne: a questa nuvola, che sarà ribattezzata la “Contessa dei Venti”, egli dedicherà a partire dal 1925 gran parte del suo tempo di osservazione. Inventore di nuove tecnologie dell’immagine e ingegnere di inediti dispositivi fotografici, Abe Masanao progetta egli stesso i propri strumenti di misurazione e di registrazione metereologica, facendo ampio uso delle immagini stereoscopiche animate e delle tecniche di ripresa accelerata, come il time-lapse (registrando le immagini a una velocità variabile, fino a un fotogramma per secondo, e proiettandole poi a velocità normale, le riprese risultavano accelerate) [Fig. 8]. Manipolatore del tempo e dello spazio, come osserva Helmut Völter[36], Abe Masanao aveva progettato macchine che gli permettevano di registrare e osservare i processi temporali in spazi tridimensionali. La conoscenza di tecniche topografiche per l’osservazione della montagna, adattate alla macchina da presa stereoscopica, gli aveva suggerito di modificare e aumentare la distanza standard tra le due lenti del dispositivo stereoscopico (costruendo un secondo punto di osservazione a circa cinquecento metri di distanza dal primo e mettendo i due punti in comunicazione attraverso un cavo elettrico in modo da rendere simultanea l’apertura dell’otturatore), permettendogli così di ottenere un’immagine, illusoria ma efficace, del transito e della formazione delle nuvole sopra il Monte Fuji.

rotatoria a Ninooka, intervallo di 10 secondi
Da una prospettiva contemporanea, e alla luce della teoria di Friedrich Kittler sulla “Time Axis Manipulation”, alcuni film di Abe Masanao degli anni venti realizzati con lo scopo di restituire una visione globale del cielo sopra il Fuji (possibile grazie all’uso di lenti “whole sky”)[37] possono essere riletti oggi come una serie di esperimenti di “Time-Lapse Manipulation”. Questi esperimenti fotografici e cinematografici veicolano difatti una forma di spazializzazione del tempo attraverso gli strumenti del cinema scientifico. Come osserva Kittler, la manipolazione dell’asse temporale implica anzitutto una spazializzazione dei singoli istanti che compongo una sequenza: la quarta dimensione può in tal modo essere vista in una condizione d’inversione dell’asse temporale[38].
Il modo in cui il cinema manipola il tempo lento e impercettibile dei movimenti di una pianta, dei cristalli o delle nuvole, spazializzandoli in forme caleidoscopiche, permette d’immergerci in una dimensione spazio-temporale sconosciuta, una quarta dimensione che Lewis Carroll pensava raggiungibile solo attraversando lo specchio, e antropomorfizzando il tempo con gli occhi di Alice: “Per esempio, i quadri appesi alla parete accanto al camino sembravano tutti vivi, e perfino l’orologio sulla mensola del caminetto (come sapete, nello Specchio non potete vederne che il retro) aveva la faccia di un vecchietto che le sorrideva”[39].

Immagine di copertina: Jan Cornelis Mol, Bloeiende bloemen en plantenbewegingen [Sbocciare dei fiori e movimenti della pianta], 1932 ca.
[1] L. Carroll, Alice’s Adventures in Wonderland, ill. da J. Tenniel, London 1865, p. 34.
[2] Cfr. L. Carroll, Sylvie and Bruno, London/New York 1889, trad. it. di F. Cordelli, Garzanti, Milano 1978. Il terzo e ultimo romanzo fantastico di Carroll è probabilmente una delle fonti del testo borgesiano Il rigore della scienza, cfr. G. Palsky, Borges, Carroll et la carte au 1/1, in “Cybergeo. Europen Journal of Geography”, 106, 1999.
[3] J. L. Borges, Gli specchi velati (L’Artefice), ed. it. a cura di D. Porzio, in Tutte le opere, vol. I, Meridiani Mondadori Milano 1986, pp. 1115-17. Cfr. L. Marin, L’Utopie et la carte, in “Variaciones Borges”, 5, 1998.
[4] J. L. Borges, Gli specchi velati (L’Artefice), cit., p. 1115.
[5] Il riferimento è alla prima proiezione a pagamento del Cinematografo Lumière, che ha avuto luogo il 28 dicembre 1895, al Salon Indien du Grand Café a Parigi
[6] “Quando aprii gli occhi vidi l’Aleph. ‘L’Aleph?’ ripetei. Sì, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli […]. Come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?”Vedi J. L. Borges, L’Aleph (1949), in Tutte le opere, cit., p. 894.
[7] M. Stavrinaki, Saisis par la préhistoire. Enquête sur l’art e le temps des modernes, Les presses du réel, Dijon 2019.
[8] Cfr. B. Latour, Nous n’avons jamais été modernes: Essai d’anthropologie symétrique, La Découverte,Paris 1991.
[9] A questo proposito, si rimanda alla serie di film realizzati da F. M. Duncan per la Charles Urban Trading Company, intitolata The Denizens of the Deep. Vedi O. Gaycken, Early cinema and evolution, in Evolution and Victorian Culture, a cura di Bernard V. Lightman, B. Zon, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 104-107.
[10] Vedi O. Gaycken, “Revealing Nature’s Closet Secret” e “Juggling Flies and Gravid Plants: F. Percy Smith’s Early Popular-Science Film”, in Devices of Curiosity. Early Cinema and Popular Science, Oxford University Press, Oxford 2015, pp. 15-89.
[11] Vedi O. Gaycken, “Early cinema and evolution”, cit., p. 107.
[12] Ibid., pp. 108-109 e 119. La citazione di Gaycken è tratta da: Ernst Mach, Bemerkungen über wissenschaftliche Anwendungen der Photographie, in “Jahrbuch für Photographie und Reproductionstechnik 2” (1888).
[13] A. M. Worthington, A Study of Splashes, Longmans, Green, and Co, London/New York/Bombay/Calcutta 1908.
[14] Si veda la tesi di dottorato in corso di A. Prévost-Balga sulle tecniche della fotografia e la cinematografia ultra-rapida (high-speed photography e cinematography) applicate alle scienze, tra cui i film stereoscopici del 1904 di L. Bull (proiettati a una frequenza di 1500 fps).
[15] J. Epstein, L’Intélligénce d’une machine (1935), in Id., Écrits sur le cinéma, vol. 1: 1921-1947, Seghers, Paris 1974, pp. 241-42.
[16] Ibid., pp. 243-44.
[17] Esistono due differenti edizioni di Metod: S. Ėjzenštejn, Metod. Tajny masterov, 2 voll., a cura di N. Kleiman, Muzej kino, Mosca 2002; S. Ėjzenštejn, Metod [Méthode], 4 voll., a cura di O. Bulgakowa, Potemkin Press, Berlin 2008. È in uscita, nel 2020, anche la traduzione italiana di Metodo, vol. I, a cura di A. Cervini per Marsilio.
[18] S. Ėjzenštejn, Walt Disney, trad. it a cura di S. Pomati, SE, Milano 2004, p. 74.
[19] A proposito della distinzione tra antropocentrismo e antropomorfismo, cfr. T. Castro, The Mediated Plant, in “e-flux Journal”, #102, settembre 2019. Cfr. T. Castro, P. Pitrou, M. Rebecchi, Puissances du végétal. Cinéma animiste et anthropologie de la vie, Les presses du réel, Dijon 2020 (di prossima pubblicazione).
[20] E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, il Mulino, Bologna 2017.
[21] E. Haeckel, Kunstformen der Natur (1899-1904), ed. ing. Art Forms in Nature, a cura di O. Breidbach e I. Eibl-Eibesfeldt, Munich-New York, 1998.
[22] M. Vollgraff, Vegetal Gestures: Cinema and the Knowledge of Life in Weimar Germany, in Grey Room, 72, MIT Press, Cambridge 2018.
[23] Cfr. E. Vogman, Le mouvement expressif des plantes. Notes sur un projet de film d’Eisenstein, in T. Castro, P. Pitrou, M. Rebecchi, Puissances du végétal, cit. (di prossima pubblicazione).
[24] “Testo di presentazione di Ballet botanique”, pomeriggio di studi sul cinema di J. Comandon, organizzato alla BnF (Parigi) il 16 febbraio 2012. Cfr. L. Mannoni, Jean Comandon technicien, dans Filmer la science comprendre la vie. Le cinéma de Jean Comandon, Paris 2012, p. 59.
[25] Cfr. O. Gaycken, Early Cinema and Evolution, cit., pp. 108-109.
[26] M. Marder, Plant-Time (I): Vegetal Hetero-Temporality, in Plant-Thinking. A Philosophy of Vegetal Life, Columbia University Press, New York 2013, pp. 95-107.
[27] J. Epstein, L’Intelligence d’une machine (1946), in Écrits sur le cinéma 1,cit., p. 257.
[28] “Oh, quel grido sul mare, quella voce nei boschi! / Sarà come allorché si ignorano le cause; / Un lento risveglio dopo più metempsicosi: / Le cose non saranno più quelle d’un tempo”: P. Verlaine, Kaléidoscope (1884), in Jadis et Naguère, Poèmes, Le Livre de Chevet, Paris 1965.
[29] E. Huhtamo, All the World’s a Kaleidoscope. A Media Archaeological Perspective to the Incubation Era of Media Culture, in “Rivista di estetica”, “Schermi Screens”, 55, 2014, pp. 139-53. Cfr. J. Crary, Techniques of the Observer. On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, MIT Press, Cambridge 1990; trad. it. Le tecniche dell’osservatore, a cura di L. Acquarelli, Einaudi, Torino 2013.
[30] J.-M. Durafour, Cinéma et cristaux. Traité d’éconologie, Mimésis France, Paris 2018, pp. 70-74.
[31] Per un’archeologia dei rapporti tra scienza e arte nella visualizzazione dei cristalli liquidi, cfr. E. Leslie, Liquid Crystals. The Science and Art of a Fluid Form, ReaktionBooks, London2016.
[32] R. Hamery, Jean Painlevé. Le cinéma au cœur de la vie, PUR, Rennes 2009, pp. 254-57.
[33] Ibid., p. 256.
[34] “Ad esempio, una pratica della natura è quella di conferire carattere ai contorni delle sue nuvole, attraverso angoli perpetui e linee rette. Forse una volta al mese, grazie ad un’osservazione diligente, potremmo vedere una nuvola arrotondata e composta da curve; ma l’artista che non dipinge altro che nuvole curve deve comunque essere considerato completamente e inesorabilmente falso” (J. Ruskin, Modern Painters. Of many things, 5 voll., vol. 1, New York 1843-1860, p. 64). Cfr. A. Somaini, The Atmospheric Screen: Turner, Hazlitt, Ruskin, in Screen Genealogies: From Optical Device to Environmental Medium, a cura di C. Buckley, R. Campe, F. Casetti, AUP, Amsterdam (di prossima pubblicazione).
[35] K. Osawa, Des nuages dans les mains: optique et nimbologie chez Masanao Abe, in Le comte des nuages (si veda anche la conferenza di Kei Osawa che si è tenuta presso la Cinémathèque française l’8 novembre 2019).
[36] Cfr. H. Völter, Les films de nuages de Masanao Abe, in Le comte des nuages,cit., pp. 185-188. Cfr. H. Völter, The Movement of Clouds around Mount Fuji, Spector Books, Leipzig 2016.
[37] La fotografia “emisferica” consente di registrare un’immagine del cielo a 180° (è infatti chiamata anche “fish-eye” o “whole-sky”). La “Hill’s Whole Sky Camera”, inventata da Robin Hill nel 1923, offre in questo senso un nuovo approccio per l’osservazione del cielo. Ringrazio Kei Osawa e Adèle Yon per i loro suggerimenti e la discussione su queste tecniche.
[38] Si veda E. Alloa, “Au pied de la lettre. L’infra-structuralisme de Kittler,” in F. Kittler, Gramophone, Film, Typewriter, ed. fr. a cura di F. Vagoz, E. Alloa, E. Guez, Les presses du réel, Dijon 2018, pp. 22-24.
[39] “For instance, the pictures on the wall next the fire seemed to be all alive, and the very clock on the chimney-piece (you know you can only see the back of it inthe Looking-glass) had got the face of a little old man, and grinned at her”. L. Carroll, Through the Looking-Glass and What Alice Found There, cit., p. 34.