Alla memoria di Sebastian, prezioso amico e maestro.
Sono passati ormai diciotto secoli da quando Gesù Cristo camminava sulla terra. Ma non si tratta di un fatto come gli altri i quali, una volta passati, si dileguano nella storia e a lungo andare cadono nell’oblio. Invece la sua presenza in terra non diventerà mai un evento del passato, tanto meno qualcosa di sempre più passato, qualora si trovi ancora la fede sulla terra; infatti, se questa manca, la vita terrena di Cristo diventa un fatto remotissimo. Ma fin quando esiste un credente, bisogna che egli per essere divenuto tale, sia stato e, come credente, sia contemporaneo della sua presenza come i primi contemporanei; questa contemporaneità è la condizione della fede o più esattamente essa è la definizione della fede. Signore Gesù Cristo, fa che a questo modo possiamo diventare tuoi contemporanei così da vederti nella tua vera figura e nell’ambiente dove realmente camminavi sulla terra e non nella forma di un ricordo, vuoto e insignificante, frutto di un’esaltazione spensierata o sommersa nelle chiacchiere della storia.
Non riesco a non pensare a te, non riesco a non farlo. Mentre stringo tra le mani un libro, questo, il tuo preferito. Mi stupisco nel sentire riecheggiare brani di un testo che recitavi a memoria e nella mia memoria incisi come su un vinile, scanditi da una voce che non è la tua ma ha il tuo timbro, la tua inflessione. Sorpreso nel constatare come un libro possa sopravvivere a chi lo scrisse, ma non al ricordo di te, la cui morte ha fatto d’ogni frase un geroglifico impenetrabile.
Leggo di Cristo ma penso a te. Al paradosso di questa tua assenza che ti ha reso quanto mai presente. Quasi invadente, nel tuo esser dappertutto. Leggo Kierkegaard ma ciò a cui penso è l’uso che tu ne hai fatto, le parole con cui lo hai raccontato. L’intuizione con la quale hai fatto a pezzi il suo pensiero per impossessarti dei suoi strumenti e farli tuoi. La contemporaneità, scevra così d’ogni significato teologico, divenuta il pilastro su cui edificare la tua teoria estetica. Cristo e la sua astoricità come metafora della natura atemporale d’ogni opera d’arte.

E ripenso a Felix Gonzalez-Torres, che tu avevi conosciuto ancor prima che venisse a mancare, e la cui opera era diventata l’esemplificarsi del tuo pensiero. Al modo in cui usavi persone e cose, opere e artisti, come attrezzi con i quali intessere la trama del tuo discorso, senza aver paura di mentire, di omettere le fonti, perché a importarti non è mai stato il grado di verità d’una dissertazione ma il valore del suo messaggio.
Ripenso a Ross Laycock, che una volta affermasti non essere mai esistito, un artificio, come una musa, che l’artista ebbe inventato per poter rivolgersi a tutti ma a nessuno. Il simulacro di un’assenza, per poter parlare di ogni assenza e della propria. E mentre penso a tutto questo, mi abbandono all’idea che anche tu possa non essere mai stato che l’invenzione della mia mente persa in pensieri oziosi.
Era il 1850, dicevi sempre. Il 1850 dopo Cristo, mille e ottocento cinquant’anni dopo la sua nascita. L’anno in cui Kierkegaard scrisse:
È possibile riuscire a sapere dalla storia qualcosa di Cristo? No. Perché in generale su Cristo non si può sapere nulla; egli è il paradosso, è oggetto di fede, esiste solo per la fede. Ma poiché ogni comunicazione storica è comunicazione di sapere, dalla storia non si riesce a saper nulla di Cristo. Infatti, anche potendo sapere qualche cosa di lui, poco o molto che sia, egli non è colui che è in verità. (…) La storia trasforma Cristo in qualcuno ch’è diverso da chi egli è in verità. La storia allora riesce a sapere molto di Cristo? No, non di Cristo, perché di lui nulla si può sapere. Egli può essere soltanto oggetto di fede.
1850. Ti piaceva indugiare su questo numero, come per rendere evidente il paradosso. Mille e ottocento cinquant’anni dopo il momento in cui Cristo venne al mondo, un uomo mise in dubbio il valore storico della sua nascita. La storicità d’un evento, il cui nome d’Anno domini denota il momento d’origine del nostro sistema di misurazione del tempo, messa in discussione da un uomo che divenne, per noi in seguito, un fatto storico. La morte di Cristo, come qualcosa di non più soggetto alle ineludibili leggi della storia, come qualcosa di cui non si può accettare che il ricordo un giorno invecchi e cada nell’oblio. Un presente perenne. Il compito preciso e puntuale d’ogni fedele, assumersi la responsabilità di interpretarne l’azione salvifica non come un fatto storicamente remoto, ma come qualcosa di a noi contemporaneo. Ridurne la distanza storica e con lei un altro tipo di distanza, una distanza del sentire in cui scompare il carattere radicalmente paradossale del messaggio cristiano e la cristianità diventa la via più facile.
Nel cristianesimo continua la filastrocca delle chiacchiere domenicali sulle verità magnifiche e incomparabili del cristianesimo, sulle sue dolci consolazioni, ma mettendo bene in risalto che Cristo visse 1800 anni fa! Il segno di scandalo e l’oggetto di fede è diventato la più fantastica figura fiabesca una specie di Bertoldo divino. Non si sa più che cosa ci debba scandalizzare e si sa ancor meno cosa si deve adorare.
«Assumersi la storia biblica in quanto contemporanea» dicevi sempre «significa assumersi tutto il peso, la sofferenza e la responsabilità d’esser Cristiani. Lasciare che la storia biblica diventi un fenomeno in grado di agire sulla nostra coscienza, che ogni parola di Cristo sia significante per noi oggi. Condividere empaticamente il dolore del suo sacrifico, il dramma della sua persecuzione.» Parlavi di questo mentre dal taschino estraevi l’involucro argentato d’una caramella, che stringevi tra le dita un poco, prima di portare alla bocca, domandando al tuo uditorio di concederti l’attenuante d’un presunto mal di gola. Non capivo perché a volte uscissi fuori con certi discorsi, in situazioni del tutto estranee all’argomento delle tue dissertazioni. Ora invece mi è chiaro che in tutto quel che facevi, in ogni tuo gesto, si nascondevano allusioni sottili ed un certo surreale umorismo.
Ad un qualche convegno, alla presentazione d’un libro, quando da te ci si aspettava parlassi solo di Felix, amavi recitare a memoria certi passi della Bibbia. Parlavi di Kierkegaard, celebravi i profondi e misteriosi paradossi della fede e ti guardavi intorno, come per godere dell’espressione imbarazzata e ostile di chi ti stava ad ascoltare. E ti perdevi in chiacchiere vane, in un apparente pourparler su liturgia ebraica o ebraico-cristiana, mentre tutti attorno a te recitavano Foucault e si riempivano la bocca di post-colional e gender studies.
E solo quando l’esasperazione generale, il diffuso sentore di non comprendere quale fosse il punto, quale la conclusione logica del tuo chiacchierare, raggiungeva il culmine e il tuo pubblico sentiva di non poter più continuare a dissimulare la propria perplessità, solo allora, per sommi capi, riprendevi in mano le redini del tuo discorso.
«Parlare di contemporaneità, in questo contesto, il nostro, il mondo iper-contemporaneo dell’arte, potrebbe generare ambiguità. In questo mondo, contemporaneità, ha più spesso un altro significato. Contemporaneo — al passo coi tempi — è quel che ognuno di noi vorrebbe essere, malgrado tutto, sempre e comunque. Ma nel parlar di contemporaneità, Kierkegaard intende parlare di qualcosa di diverso. Per Kierkegaard, contemporaneità è la capacità di vivere un evento del passato come qualcosa di a noi contemporaneo. Contemporaneità, è per lui, prima di tutto, responsabilità. Una responsabilità frutto di una particolare educazione ermeneutica che consiste nell’applicare alla lettura dei testi sacri uno sguardo contemporaneo. La contemporaneità, non come ingenuità del credere, ma come facoltà a cui si arriva tramite un costante e duro esercizio. Solo attraverso questo esercizio Cristo torna ad essere segno di scandalo e oggetto di fede.»
«Questo discorso sfiora, anche se solo marginalmente, la questione dell’opera d’arte. La contemporaneità, teorizzata da Kierkegaard all’interno d’un discorso puramente teologico, può diventare il modello con il quale approcciarsi all’esperienza dell’opera d’arte. Sforzarsi di guardare un’opera d’arte per quello che è. Qualcosa di a noi presente, e non, piuttosto, il retaggio d’un passato. Sembrerebbe banale, ma non lo è.»
«Permettetemi una digressione. Nella liturgia Ebraico-Cristiana esiste una differenza abissale tra una memoria e un memoriale. Memoriale è, per l’appunto, l’atto liturgico di attualizzare, render presente, un ricordo. Di riviverlo in prima persona, arrivando a percepirlo come qualcosa di non-più-passato. Un ebreo che celebra la Pesach, la Pasqua, è un ebreo che pur vivendo in un’epoca storica lontana secoli, millenni la fuga dall’Egitto, si considera reduce di quella fuga. Un ebreo che ha vissuto, e rivive, ogni anno, quella fuga. Allo stesso modo, un cristiano che celebra l’eucaristia si considera, o dovrebbe considerarsi, contemporaneo della passione di Cristo. Un commensale, uno dei tanti, presenti alla sua tavola. Ora, è senz’altro nota a tutti, se ne sente spesso parlare, l’allusione cristologica presente in alcuni tra i lavori di Felix Gonzalez-Torres. Nelle sue pile di caramelle, ad esempio. È un dato assodato, a lungo tempo discusso dalla critica, non certo una novità. Ma se smettessimo, per un solo istante di considerarla una semplice allusione e provassimo a percepirla come l’effettiva transustanziazione d’un corpo in un’opera, in che modo cambierebbe la nostra fruizione?»

«Conobbi Felix che eravamo ragazzi, nel periodo in cui Sophia, la mia compagna d’allora, viveva a Los Angeles. Lei e Felix frequentavano lo stesso giro, capitava spesso quindi, nei miei periodi di permanenza in città, di incontrarci a cena a casa d’amici. Non eravamo particolarmente legati, ma io lo stimavo in quanto artista e credo lui apprezzasse i miei primi sforzi di costruirmi una carriera di critico. Il giorno in cui mangiai per la prima volta una delle sue caramelle, era il 1991. Allora aveva trentaquattro anni e presenziava alla Whitney Biennial con Untitled (Portrait of Ross in L.A.). Era reduce, quell’anno, della morte del compagno e del padre, il primo malato di Aids, il secondo d’un tumore alla gola. Felix stesso si sapeva ammalato di quel male che lo ucciderà cinque anni più tardi. Presenziammo alla sua mostra come si presenzia ad una veglia funebre, con l’angoscia e l’imbarazzo di non saper davvero che dire, giunti fin lì per contribuire con nient’altro che le nostre condoglianze. Sophia era distrutta. Felix dissimulava bene il proprio dolore e il peso che allora gravava sulla sua intera esistenza. Non solo il peso d’una sua fine imminente, ma tutto il peso d’una generazione, di cui si era fatto portavoce, dilaniata da un male incurabile e costretta a viverlo come uno stigma, abbandonata a sé stessa da una società di ignoranti e di benpensanti. Quella caramella fu tutt’altro che dolce, tutt’altro che un gesto d’umana gentilezza, il dono di Felix al suo pubblico. Quell’opera era un pugno nello stomaco nei confronti di chi, come noi, aveva contribuito, con il proprio disinteresse, al diffondersi dell’ignoranza e della paura nei confronti di quel che allora veniva chiamato “il castigo divino”. Mi sentii offeso da quel che credevo un j’accuse nei confronti anche miei, che non mi consideravo di certo uno sprovveduto ma che desideravo in cuor mio solo di tenermi a distanza da tutto ciò che non mi toccava personalmente e di cui ero, oltretutto, profondamente imbarazzato. Non dissi a Felix, par délicatesse, quel che pensavo di quell’opera ingiuriosa e davvero poco elegante che allora considerai come un piangersi addosso, un farsi scudo delle proprie disgrazie e me ne andai covando la rabbia che cova chi si trova costretto a guardare il volto della propria miseria. Non volevo in alcun modo considerarmi l’inconsapevole fautore della scomparsa di Ross, ciò cui quell’opera sembrava alludere. Mi disinteressai completamente di Felix, che da allora non rividi mai più. Solo cinque anni più tardi, quando la mia vita aveva ormai preso una piega diversa ed avevo già smesso di frequentare Sophia, ricevetti da lei notizia della sua morte. Ripensai a quell’ultimo giorno in cui lo vidi, con tutto il sano, sincero egoismo e la nostalgia di chi ripensa ad un passato, nonostante tutto, felice. Ritornare col pensiero a lui era anche e soprattutto il mio modo di ritornare a lei. Fino a che, pian piano, ripensare a Sophia divenne nient’altro che ripensare a Felix, e al suo lavoro.»

«Meditai molto su quella sua “ultima” opera e il mio animo, ormai mitigato dal tempo trascorso, mi permise di giudicarla sotto una luce diversa. Cessai di vedere in quel mucchio di caramelle un’accusa oltretutto così abilmente dissimulata da non potersi nemmeno considerare coraggiosa. Non c’era, in realtà, alcun giudizio in quel suo gesto, ma solo la semplice misericordia dei saggi. Compresi che, senza rendermene conto, presenziai al tavolo della sua ultima cena ma come Giuda, da questa mi congedai per sempre con un bacio sulle guance. Felix, con l’eleganza che sempre lo contraddistinse in vita, fece di Ross e non di sé, il martire della propria generazione, perché il sacrificio di quell’uomo comune non avesse nulla a che vedere con la vana retorica del sacrificio dell’artista. Lo ritrasse a suo modo in un luogo specifico, come la Torino in cui Boetti prende il sole, ma in un arco di tempo non così ben definito e circoscritto in cui, ci basti sapere, Ross era vivo e già malato. Transustanziò il suo corpo, lo parcellizzò, ne fece un mucchio di caramelle, un insieme di dolci unità energetiche offerte a un pubblico. Il loro graduale diminuire divenne metafora del graduale scomparire dal suo corpo d’ogni vigore. Eppure, non permise a quell’opera di scomparire per sempre, come Ross. La rese eterna, realizzando il sogno che milioni di artisti prima di lui avevano inseguito per secoli e secoli. Non lo fece utilizzando materiali resistenti, il marmo o il bronzo della statuaria monumentale, ma materiali deperibili e quotidiani, eterni perché eternamente rigenerabili. E fece d’ogni caramella un memoriale di quella vita spezzata, cosicché chiunque un giorno la mangiasse potesse fare esperienza, contemporaneamente, dell’energia vitale d’un uomo nel suo esaurirsi. E come un’eucaristia farsi nutrimento per il corpo e per lo spirito di molti.»
«Che ne è, oggi, della profonda ambiguità di questo lavoro? Del suo essere così machiavellicamente in bilico tra il farsi biasimo d’un buonismo ipocrita e di quest’ultimo costituirne il manifesto? Com’è che la critica, nel vestire l’opera della fitta trama del suo discorso, è riuscita a trasformarla nello sbiadito spettro di sé stessa, esaltando solo ciò che di accomodante emerge da una sua fruizione superficiale e pretestuosa? A quali occhi, a quale tipo di sguardo, Untitled (Portrait of Ross in L.A) è offerto oggi in mostra?»
«Immaginiamo un ragazzo. Ingenuo ed entusiasta studente all’accademia di belle arti d’una qualsiasi città italiana. Ha da poco iniziato a studiare l’arte contemporanea, frequentando un qualche corso di Ultime Tendenze delle Arti Visive. Assiduo, curioso, sveglio. Ha già memorizzato molti dei nomi che, durante sei ore di lezione a settimana, ha sentito più volte riecheggiare tra le pareti della sua aula. Ha in qualche modo intuito che dietro ogni nome si nascondono forme più o meno ambigue del potere, quel potere a cui tutti aspirano e al cui fascino, lui, non è di certo immune. Ha compreso che i nomi sono incantesimi rivelatori, parole in codice che attestano l’appartenenza ad un insegnamento esoterico. Che pronunciare i nomi giusti al momento giusto, può permetter chiunque di brillare, agli occhi di qualcuno, della loro seppur debole luce riflessa. Che la gente ama far sfoggio di questi nomi, ambisce veder accostato loro il proprio, sulle pagine d’un giornale, sulla locandina d’un qualche evento, nella speranza che un giorno non sia più necessario altro nome oltre il proprio.»
«Immaginiamo questo studente, sedotto dalle esotiche sonorità di questi nomi, immergersi in uno studio forsennato, alla scoperta della conoscenza per padroneggiarli. Ad ogni nuovo libro, ad ogni articolo, nuovi incantesimi appresi, tutti metodicamente annotati su un foglio, per non dimenticarli. Hans Ulrich Obrist, Harald Szeemann, Hanne Darboven, ad aprire la vertigine d’una lista che ha la musicalità d’un abracadabra. E poi Rirkrit Tiravanija, Yoshimoto Nara, Raymond Pettibon, Pierre Huyghe, Parreno, Perrotin, Carol Bove, Cattelan, Katharina Grosse, Kartsen Greve, Andreas Gursky, fino ad arrivare a Gagosian, Douglas Gordon e le Guerrilla Girls. Robert Gober, Leon Golub, Louise Bourgeois, Barbara Krueger, Dara Birnbaum, Daniel Birnbaum, Vanessa Beecroft, Candice Breitz, Matthew Barney e Chris Burden. Goldsworthy, McCarthy e Baldessarri. Thomas Ruff, Thomas Struth, Thomas Hirschorn. Erwin Wurm, Lawrence Wiener, Ai Wei Wei, Kara Walker, Rachel Witheread, Donna Haraway; Oursler, Orozco, Ono, Ofili, Opie, Opalka; Christine Macel, Mike Kelley, Mary Kelly, Ellsworth Kelly, William Kentridge; Xu Bing, Cai Guo-Qiang, Zhang Huan, Yue Minjun, Yayoi Kusama, Mariko Mori, Takashi Murakami, Kawara, Gupta, Kapoor, Koons, Kienholz, Cardiff, Caro, Calle, Cragg, Crag-Martin, Martin Creed, Casey Kaplan, Kader Attia, Sadie Coles, Ligya Clark, Ilya e Emilia Kabakov, Marina (e Ulay), Christo ( e Jeanne Claude) Jake e Dinos, Gilbert e George, Fischli e Weiss, Elmgreen and Dragset, Allora e Calzadilla, Alighiero & Boetti. Hockney, Horn, Hill, Hiller, Hirts, Holmkvist, Hodge, Hofer, Himof, Hoffmann, Hatoum, Hall, Haacke, Hito. E poi Tom Friedman, Hans-Peter Feldmann, Jan Fabre, Andrea Fraser, Konrad Fischer, Lucian Freud, Marion Goodman, Matthew Marks, Gavin Brown, Thaddeus Ropac, Almine Rech, Yvon Lambert, David Zwirner, Mary Boone, Paula Cooper, Blum & Poe, Hauser & Wirth, Whitechapel, White Cube…
In tutto questo marasma di nomi, di libri letti solo a metà, o a malapena cominciati, un nome ritorna più volte, citato in classe da una professoressa forse non esattamente aggiornata su le ultime tendenze delle arti visive. Lui stesso lo annota, Felix Gonzalez-Torres, tra Hal Foster e Dominique Gonzalez-Foerster. E quando si ritrova a leggere Bourriaud, che a lui dedica un intero capitolo, incoronandolo precursore assoluto del brand di successo di cui è inventore, si convince di avere appena scoperto il proprio nuovo artista preferito.»
«C’è una mostra, una grande collettiva d’artisti degli anni ‘90, nel museo d’arte contemporanea della sua città. Una grandissima inaugurazione, l’evento mondano a cui nessun addetto ai lavori ha intenzione di rinunciare. Il nostro giovane studente prepara con cura il proprio outfit, nella speranza che questo possa assicurargli un posto d’onore nella memoria d’un qualche curatore affamato di studio visit. Cammina tra le opere esposte, completamente immerso in quell’atmosfera d’euforia diffusa e mondana vitalità tipica d’ogni “grande mostra” e si guarda intorno, rivolgendo la propria attenzione a persone e opere, a opere e persone. All’improvviso il suo sguardo forse troppo distratto da considerazioni di natura antropologica, viene catturato da un improvviso luccicore rasente il pavimento, in un punto dello spazio espositivo in cui la folla pare stringersi attorno a qualche cosa di imprecisato. Incuriosito da cotanto fervore si avvicina a passo lento fino al limitare d’un invalicabile muro di schiene. Nella sua mente riecheggiano stralci d’un libro letto, pochi giorni prima, in classe. “C’erano prati e orti di mele. Bianche staccionate fiancheggiavano i campi che scorrevano ai nostri fianchi. Presto cominciarono ad apparire i cartelli stradali: «la stalla più fotografata d’America» ...” Facendosi forza d’una corporatura esile, il ragazzo tenta di farsi strada in mezzo a quell’assembramento di corpi, radunati come folla intorno a un’incidente. Una moltitudine d’uomini ad accogliere materna quel suo goffo sgomitare, e domandarsi cosa possa attirare l’attenzione dei più fortunati, che nelle prime file sostano, lo sguardo rivolto al pavimento, chinandosi di tanto in tanto come per raccogliere qualcosa. Con un ultimo colpo di spalla il ragazzo riesce a sfondare la prima fila per scoprirsi a camminare su quel che ormai rimane di Untitled (Portrait of Ross in L.A). Abbassa lo sguardo ad osservarne la triste carcassa, qualche manciata di caramelle disposte in un parallelepipedo dai bordi ormai sfumati e vaghi, preso a calci troppe volte da un pubblico a quanto pare troppo distratto per prestare attenzione a dove mette i piedi. Ma anziché dispiacersi, anziché imbarazzarsi di quel suo goffo trattenersi con tutti i piedi immerso in quel mare colorato, rivolgendo un sorriso colpevole tutto intorno, si china ad afferrarne una manciata per godere a piene mani della dolcezza del suo sapore e di quel breve bagno di mondana innocenza.»

«Risulta difficile, quasi impossibile, esprimere alcun sincero giudizio riguardo le differenti modalità, qui oggi presentate, di fruire una stessa opera. Come chiunque in questa sala sarei piacevolmente tentato di condannare l’approccio del nostro giovane studente in quanto frivolo e superficiale. Eppure, comprendo, come la sua esperienza non sia tanto più inautentica di quella che io feci allora, con tutta la spontanea onestà intellettuale che mi compete. Ciascuno, a suo tempo e con il proprio bagaglio di conoscenze e pregiudizi si è trovato, almeno una volta, smarrito davanti a un’opera e al suo cospetto abbandonato, nel disperato tentativo di penetrarne il mistero. E chiunque pensi che l’esperienza di un’opera possa valer di più poiché vissuta in maniera coeva all’atto della sua ostensione, ha completamente frainteso il profondo significato del termine “contemporaneo”. La contemporaneità è una freccia scoccata in pieno petto ai fautori dello storicismo in arte, a chi considera l’atto interpretativo come un tentativo d’immedesimazione, un viaggio a ritroso nel tempo per immaginarsi contemporanei di chi per primo ebbe la fortuna di fare esperienza immediata dell’opera. Tentativo peraltro votato all’inevitabile fallimento in cui si incorre nel considerarsi in grado di trascendere totalmente dai propri pregiudizi e pensarsi uomo di un’altra epoca. Inutile quindi affannarsi nel cercar di comprendere meglio l’autore, di quanto potesse fare lui stesso, ma rivendicar l’importanza piuttosto di comprendere diversamente. Riconoscere nella distanza temporale una positiva e produttiva possibilità. E accettare il fatto che anche se potrebbe sembrarci completamente travisato il messaggio originale di un’opera strumentalizzata e ridotta alla patetica e retorica parodia di sé stessa, la sua natura non è in realtà in alcun modo corrotta. Perché da che mondo è mondo le opere sopravvivono alle epoche, perennemente contemporanee agli occhi di chi le guarda, e mutano con il mutare delle opinioni. Una caramella può arrivare così ad assecondare e contenere in sé contemporaneamente tutte le complesse e delicate sfumature del gusto e lasciarci, a seconda dei tempi e dei luoghi, una nota di stucchevole dolcezza o l’amaro in bocca.»