Fermo
Eri stato fermo in quel punto. In piedi vicino a qualcosa e con altro attorno.
Un quadro che era stato aperto per farti entrare.
Da lì guardavi, ma come senza vedere. Le cose… spesse e resistenti.
Un giorno che non cessava di cadere.
Sporto in avanti, leggermente inclinato, come a cercare un’apertura.
Sei uscito e ti sei fermato.
Da fuori non c’era più niente da vedere. Quel che era dentro, richiuso.
Un’impronta che pensavi fosse la tua.
Pensavi fossi tu, là.
In piedi, dove i giorni continuavano a cadere.
In un secolo in cui ti eri fermato, un momento, all’aprirsi di un mattino.
*
Si poteva
Si poteva non parlare per attimi lunghissimi; perdere la percezione del tempo e stare in ascolto di qualcosa che tardava a venire. Si conservavano manciate di terra umida nelle tasche, credendo ne sarebbe nato qualcosa o che qualcuno l’avrebbe saputa usare per costruire nuovi regni.
Non si sarebbe arrivati a nulla; solo mani di continuo impegnate a dare forma a un disegno.
Si poteva guardare nella trasparenza dell’acqua e rivedere mondi dimenticati, trovare cose perse. Sentire il loro approssimarsi mentre ritracciavano la via di un ritorno.
Si poteva non guardare e non ascoltare, a volte, ma nessuno si sarebbe sentito abbandonato o non capito per questo.
Si poteva essere forme cangianti di serenità composta.
*
Cadere
Guardavamo le costellazioni venire giù, fitte come la pioggia di certe mattine che ricordavamo.
Un cadere e cadere che non aveva fine, avvolto in arie leggere che ci attraversavano.
Eravamo noi lì, gli occhi pieni di un fuori che era aperto e vuoto e non cercava mondi in cui stare.
I nostri antichi gesti come perduti, lasciati andare.
Il riscrivere la forma di quel cadere che accadeva.
A forma di noi.
(da Vega Tescari, Come, postfazione di Fabio Pusterla, Cronopio, Napoli 2018)