Nulla dies sine imago
Andrea Cortellessa su Tommaso Pincio
Tommaso Pincio definisce il suo un «diario cinematografico». Spesso di cinema ha trattato, il narratore che ha esordito (o meglio, ri-esordito), nel 2000, con una storia, Lo spazio sfinito, fra i cui protagonisti figuravano Marilyn Monroe e Norma Jeane Baker; ma questo suo interesse – ovvio, in uno scrittore la cui vocazione letteraria si è sovrapposta a una precedente formazione da artista visivo – si è intensificato negli ultimi tempi e prelude a sviluppi, c’è da scommettere, anche letterariamente rilevanti. Al momento su «Tommaso Pincio Post» ci sono una quantità di “post”, appunto, che sono anche dei “post”, o dei “d’après”, da film dei quali Pincio scrive di getto, appena li ha visti, direttamente sulla sua pagina Facebook. Come mi scrive lui: «non dico come una scrittura automatica ma quasi. A volte lo scrivo troncando a metà la recensione con l’avvertenza “post interrotto, poi lo finisco”, e suscitando ovviamente le proteste di chi si aspetta un verdetto chiuso. Ma anche quando finisco, la prima versione pubblicata è comunque scritta di getto, spesso in maniera avventurosa, sulla tastiera del telefono e dunque piena di refusi, ripetizioni, costruzioni irrisolte e altre storture che raddrizzo in un secondo momento anche dietro segnalazione di chi mi segue e sapendo come procedo contribuisce alla fase di revisione. Quando poi il testo ha raggiunto una sua accettabilità e qualora il film lo meriti, capita che lo trasferisca sul blog copiando e incollando da Facebook».
Il film col quale inaugura la sua collaborazione ad «Antinomie» è davvero emblematico: non solo un apologo sulla pittura e sulla letteratura (essenziale il ruolo che gioca Le metamorfosi di Ovidio, il libro che presta Marianne a Héloïse, fra il mito di Narciso, quello di Orfeo e quello di Pigmalione), sul rapporto fra artista e suo soggetto (in tutti i sensi del termine: anche in chiave di “doppio”), fra ragione e sentimento, fra vocazione e desiderio. Sempre commentando i suoi «post» prosegue Pincio: «tempo fa, tenendo una conferenza su Lynch, ho anche spiegato nel dettaglio perché parlo di film scrivendo in questa bislacca maniera, ma per dirla con due parole: ha a che fare con l’impermanenza dell’immagine cinematografica e l’effetto emotivo che questa implica e comporta». Il ritratto della giovane in fiamme è soprattutto, in effetti, un apologo sul rapporto fra immagine e memoria. Quando la fantesca Sophie ascolta narrare il mito di Orfeo, protesta disperata contro la scelta improvvida del poeta: di voltarsi comunque a guardare Euridice, e così perdere il suo amore per sempre. A quel punto Héloïse, traboccante d’emozione, formula un’ipotesi (che alla fine vedremo dipinta da Marianne): quello fra i due sposi è in effetti un ultimo saluto, in quanto è Euridice che ha chiesto a Orfeo di voltarsi. Perché vero amore non è quello che si consuma nel realizzarlo nella vita di ogni giorno, ma quello che inconsutile, sempre trapassato e sempre a venire, si serba dipinto nella memoria e nell’immaginazione.
Andrea Cortellessa
Se è vero, come affermava Leonardo, che ogni dipintore dipinge se stesso, il ritratto è forse la massima opera di infedeltà cui può tendere un pittore, in particolare se il ritratto è del genere più convenzionale, quello realizzato con il soggetto che si offre immobile e in posa allo sguardo dell’artista. Non sempre però il pittore gode di un simile fortuna; a volte deve cavarsela da solo e se oggi all’indisponibilità del soggetto si può facilmente rimediare con la fotografia – che ha però svalutato anche molto l’importanza del ritratto dipinto – in passato si doveva ricorrere a ritratti altri, più o meno infedeli, a descrizioni fornite da terzi, ovvero alla propria capacità di fissare nella mente un volto anche con pochi colpi d’occhio soltanto. Nell’Italia del Cinquecento, quest’ultima maniera di ritrarre veniva chiamata «alla macchia», perché il pittore era chiamato a ritrarre dopo avere visto il soggetto brevemente, se non di sfuggita, alla macchia appunto. L’esito era spesso una versione addolcita della persona, come il Caravaggio ritratto da Ottavio Leoni, che pur avendo una memoria visiva straordinaria tendeva a smussare i lineamenti con il velo che è tipico del ricordo. Esistono poi, spiega la pittrice di Ritratto della giovane in fiamme, convenzioni e idee che sempre influiscono nella rappresentazione della figura umana ma che in assenza della persona in carne e ossa finiscono ovviamente per acquistare un peso maggiore.

Marianne si trova appunto nella scomoda situazione di ritrarre un soggetto riottoso, la giovane Héloïse da poco uscita da un convento perché promessa, anzi perché proposta in sposa a un gentiluomo milanese che non l’ha mai vista. Il ritratto serve proprio a evitare un contratto totalmente alla cieca: verrà spedito al futuro sposo eventuale e se risulterà di suo gradimento, la giovane partirà per Milano insieme alla madre per diventare moglie e godersi il trambusto e i concerti della città della musica, come viene definito nel film il capoluogo lombardo. Il guaio è che la prospettiva non garba affatto a Héloïse: rifiutando l’idea del matrimonio, ella rifiuta infatti anche l’idea di farsi ritrarre. Marianne compare sulla scena quando altri artisti hanno già fallito, tanto che ora il piano è mutato: la pittore dovrebbe avvicinarla, studiarla in incognito frequentandola senza svelare le sue vere intenzioni. Ci troviamo però nella seconda metà del Settecento, in un anno imprecisato ma comunque prima della Rivoluzione Francese, in un tempo cioè in cui è poco indicato che un uomo si accosti con insistenza a una donna senza un motivo preciso e rispettabile. Diversamente da un pittore però, una pittrice può spacciarsi per dama di compagnia e osservare il soggetto senza destare sospetti. Ecco allora le due giovani, Marianne e Héloïse, l’artista e il soggetto riluttante, darsi a lunghe passeggiate in una terra aspra e disabitata, sferzata dalle onde di un oceano che potrebbe l’Atlantico. Sembra di essere in Bretagna ma anche in un’isola senza nome, anzi soprattutto in un’isola perché Marianne vi giunge con una barca e il luogo ha un che di isolato e inaccessibile. Da ciò che ci è dato vedere, si direbbe abitato soltanto da donne e che gli uomini vi giungano solo come traghettatori e vi si trattengano giusto il tempo di caricare e scaricare donne e bagagli nei loro spostamenti tra quest’isola di femmine e il trambusto maschile della terraferma. Del trambusto ci viene fornita una idea peraltro vaga soltanto negli struggenti minuti finali del film, in forma di teatro e prima ancora di una mostra di pittura in cui Marianne è presente ancora una volta in incognito ovvero iscritta con il nome del padre perché altrimenti non le sarebbe stato permesso di esporre. Il trambusto del teatro e della mostra stridono non poco con il mondo remoto e solitario che lo spettatore ha conosciuto per tutto il film, coltivando la sensazione che la vita umana sulla Terra si perpetui in due sfere separate, quella dei grandi spazi aperti e remoti in cui le donne vivono confinate trovando un’armonia con la forza comunque ruvida della natura e quella affollata e affumicata della città maschile in cui ci si deve far largo a spintoni in una ressa di corpi. Il trambusto degli uomini, il confino delle donne e la loro impossibilità di esprimersi in termini manifesti ricorderebbe un po’ la brughiera delle sorelle Brontë, non fosse per la presenza del mare. Come le sorelle Brontë, le protagoniste del film sono difatti tre. A Marianne e Héloïse si unisce spesso la giovane domestica, la quale, proprio perché domestica, è l’unica ad avere contatti abbastanza ravvicinati con i traghettatori maschi da restarne inguaiata, per così dire. Del resto, sono anche altre le suggestioni che il paesaggio offre. A tratti questa terra quasi senza tempo pare spostarsi ancora più a nord nell’isola svedese in cui Bergman, con un pugno di attori, girava i suoi film oppure in Lezioni di piano, un’altra isola all’altro capo del mondo. In un paio di frangenti vengono evocati perfino Hitchcock e il suo Vertigo.
Tra i molti riferimenti messi in campo da Céline Sciamma, regista e autrice del copione – cinematografici, letterari, pittorici, musicali – quello del mito di Orfeo e Euridice è il più esplicito e fondamentale. Come nel mito, l’amore che nasce tra Marianne e Héloïse è una fiamma destinata a bruciare in breve tempo e sarà proprio il ritratto galeotto a decretarne l’estinzione. Terminato il ritratto, terminata la relazione; la pittrice lascerà quella terra lontana dagli uomini e la promessa sposa si preparerà a trasferirsi a Milano con la madre, sempre che la sua immagine venga apprezzata da chi l’attende. Il compimento del ritratto sta alla durata di questo amore come il ritorno di Euridice tra i vivi dipende dal rispetto di una condizione in fondo semplice imposta al suo uomo. La domanda che sgomenta tutti è in apparenza ancora più semplice, e non per niente a sollevarla è la domestica: se Orfeo sa che voltandosi perderà Euridice, perché si volta? Che per noi spettatori di questo film è come chiedere: se Marianne sa che dipingendo Héloïse la perderà, perché porta a compimento il ritratto? E soprattutto: quand’è che un ritratto può dirsi finito? E in base a cosa si capisce che lo sia? In realtà, le due domande sono interscambiabili soltanto in apparenza. Più che rivisitare in chiave lesbica il mito, Céline Sciamma lo ribalta in senso femminista. Se voltandosi, preferendo cioè il ricordo dell’amata all’amata in carne e ossa, Orfeo ci dice in fondo di preferire l’arte, il proprio sguardo, all’amore, Marianne e Héloïse non hanno scelta. «Fugere non possum», non possiamo scappare, cantano le donne attorno a un falò in un momento centrale del film. Il ritratto va comunque finito perché il trambusto dei maschi le aspetta e non è loro concesso di trattenersi a tempo indeterminato in quel mondo lontano dal mondo. Per questa e altre ragioni, l’oggetto di Ritratto della giovane in fiamme va molto oltre la semplice passione tra due donne. Il profondo legame a tre che le due amanti costruiscono con la domestica, in un’atmosfera in cui la distanza di censo svanisce scansata dalla solidarietà femminile, indica che è in gioco qualcosa di più vasto che riguarda i limiti imposti all’espressione della persona; la possibilità negata di essere ciò che si è o si vuole essere. Il tema viene peraltro rimarcato palesemente quando Marianne spiega che il vietare alle pittrici di servirsi di modelli maschili nudi le esclude di fatto dall’arte che conta perché non consente loro di misurarsi con i grandi soggetti della pittura, a cominciare proprio da quelli mitologici come Orfeo e Euridice. Ci sono momenti in cui la costrizione viene presentata con allusioni puramente visive come la stupenda scena sulla spiaggia che mostra le ragazze coperte da un velo per ripararsi dalla sabbia sollevata dal vento.

Benché mosso da un pensiero forte e preciso, il film non resta comunque vittima del suo contenuto politico. Mantiene intatta la sua bellezza sensuale anche quando la regista manda allo spettatore segnali fin troppo dichiarati. Semmai siamo noi a restare intrappolati nell’incanto di una geometria perfetta; nella costruzione di certe inquadrature; nella trama di sguardi che si osservano soltanto tra loro senza essere più gli oggetti passivi di una contemplazione tutta maschile; nell’assenza di una musica che non sia interna alla storia, parte dei rumori che rendono percepibile le distanze tra le cose e la loro consistenza fisica; un pennello che gratta la tela, il rombo ininterrotto del mare. I dialoghi, spesso risolti con scambi di una parola soltanto, sono bruschi e scontrosi come la natura di questo mondo talmente sospeso da sembrare a volte un aldilà, un’Ade di sole donne, un’isola delle morte dove Marianne si reca per riportare tra i vivi la sua Euridice. Se a Héloïse è imposto il matrimonio – ci viene spiegato all’inizio del film – è perché sua sorella, la promessa sposa originale, si è tolta la vita gettandosi da una scogliera. Potrebbe dunque anche essere che non vi è nessuna sorella; che a uccidersi sia stata Héloïse e Marianne abbia già provato a ritrarla; che quanto stiamo vedendo sia cioè una replica infera di qualcosa che è già accaduto in questo mondo. In questo caso, il ritratto non sarebbe che l’elaborazione di un lutto: accettare che l’amata viva nel ricordo dell’immagine.
Il finale del film, in cui l’assenza del marito a teatro rende misterioso il dipinto che mostra Héloïse ritratta in compagnia di una bambina, non scioglie nessuno di questi dubbi, piuttosto li esalta al punto da indurci a concludere di avere assistito a qualcosa di jamesiano, un giro di vite saffico, un film di fantasmi alla maniera di The Others. In quel ritratto non dipinto da Marianne è inoltre evocato un autoritratto, l’immagine di sé che Marianne offre in ricordo a Héloïse in prossimità della loro separazione. Una conferma di ciò che sosteneva Leonardo? Alla fine della fiera ogni pittore dipinge davvero se stesso? Forse. La sensazione prevalente è però un’altra ovvero che nel labirinto artistico e erotico di Sciamma non vi sia più una gerarchia patriarcale per cui l’unico tenutario dell’immagine è il pittore e la modella può offrirsi solo allo sguardo, essere solo l’oggetto di un ricordo senza poter ricordare a sua volta.

Pittrice e modella finiscono per scambiarsi i ruoli. Marianne si autoritrae per Héloïse, riflette il proprio volto nel sesso dell’amante, pittore e modella diventano una cosa sola. E non è da escludere che anche Héloïse non diventi a sua volta pittrice. Non sappiamo chi sia l’autore del dipinto che ce la ripresenta madre e con il dito infilato in un libro, a segnare la pagina in cui Marianne ha disegnato per lei un’immagine di sé. Nulla ci vieta di pensare che quel ritratto sia un autoritratto. Vista la solitudine cui tende Héloïse è un’ipotesi magari tirata per i capelli ma non implausibile. E comunque lo si voglia leggere, il film rimane bello, forse il migliore dell’anno.