Forse senza averne piena consapevolezza, siamo entrati in una nuova epoca del mondo. Ogni anno, il genere umano produce più di un trilione di immagini. Un trilione significa un miliardo di miliardi, 1 000 000 000 000 000 000. È un numero che non può essere davvero pensato da una mente umana. Se consideriamo, infatti, che in epoca medievale un uomo entrava in contatto, nell’arco della sua intera esistenza, con circa quaranta immagini artificiali – mentre oggi si calcola che siano circa dodici miliardi – abbiamo la misura di un passaggio epocale senza precedenti. Pare, quindi, del tutto pertinente affermare che la nostra civiltà stia vivendo la transizione da una biosfera fondata sulla materia a un’iconosfera, in cui la vita tende a smaterializzarsi nell’impalpabilità dell’immagine. Un’epoca, quella dell’iconosfera, che potremmo definire come l’epoca dell’immagine del mondo, cioè l’epoca in cui non ci facciamo più solo immagini del mondo, ma in cui il mondo stesso diviene un’immagine.
Pensare oggi l’immagine – o forse bisognerebbe dire le immagini – significa, dunque, non solo e non tanto dedicarsi a una forma specialistica del sapere, ma, superando ogni specialismo, iniziare a pensare il mondo in cui viviamo a partire dalla sua struttura iconica; significa, in certo senso, valicare le frontiere dei saperi che storicamente si sono confrontati ed hanno studiato le immagini per inoltrarsi in un territorio la cui morfologia resta incerta e la cui consistenza, sostanza e struttura ontologica enigmatica.
Porsi all’altezza di un pensiero dell’immagine, di un’iconologia, che sia anche un’icono-grafia, significa, allora, cercare di comprendere come le forme di vita, con i loro fluidi giochi linguistici, sempre più, comunichino, edifichino saperi, visioni del mondo, sentimenti, pensieri, strutture politiche e sociali attraverso le immagini. In certo senso, quel che oggi necessita è una grammatica – ma anche una metrica e una ritmologia – dell’immagine. Occorre, almeno così ci pare, un dialogo e una compenetrazione tra le sfere antinomiche dell’immagine e della parola, tra un’inedita iconologia e una – ancora tutta da pensare – grammatologia.
Questo sapere richiede una pluralità di approcci: singolarità metodologiche e anti-metodologiche; regola ed estro; discorso scientifico e parola poetica; sguardo artistico e sguardo analitico, esprit de finesse e esprit de géométrie, analisi quantitative e sintesi qualitative, sistemi tassonomici e disseminazioni erranti… Questo nuovo sapere – se mai vedrà la luce – dovrà essere in grado di far proprio il carattere antinomico dei diversi approcci, l’antinomia strutturale e strutturante che si instaura tra due concetti, tra due tesi, tra due voci, tra un principio e l’altro. Un sapere capace di sostare tra la parola e l’immagine: mai davvero di casa né nell’una né nell’altra; sempre inquieto nell’infinito passaggio dall’una all’altra, dagli uni agli altri, da un mondo all’altro.
Federico Ferrari
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«Non sfugge al passato colui che lo dimentica», scriveva Ruth Berlau – l’amante fotografa di Bertolt Brecht che lo aveva aiutato a impaginare la Kriegsfibel, L’abicì della guerra dopo tante traversie pubblicato nel 1955 –; per questo quel libro in tutti i sensi epocale voleva «insegnare l’arte di leggere le immagini»: perché «per chi non vi è abituato, leggere un’immagine è difficile quanto leggere dei geroglifici». Ha commentato queste parole Georges Didi-Huberman mostrando come quell’operazione fosse legata a «una doppia propedeutica: leggere il tempo e leggere le immagini in cui il tempo ha qualche possibilità di essere decifrato». È assai significativo che a fondamento di questa tradizione sia un testo, come quello, che anziché praticare un’inerte armonia fra parola e immagine metteva in scena quello che è, fra loro, un conflitto senza quartiere: a riflettere il conflitto storico che era chiamato a raffigurare. È insito nel codice genetico della modernità, oltre che del modernismo, il precetto che László Moholy-Nagy aveva codificato già negli anni Venti: «non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l’analfabeta del futuro». Non solo di fotografia è questione (anche se l’innovazione tecnologica è sempre stata, appunto dal brevetto di Daguerre, parte integrante di questa storia): sin dagli albori del segno, sulle superfici parietale proto-umane, l’immagine e la parola hanno giocato su un terreno di scontro, di conflitto. Ed è da questo conflitto che, ha insegnato un maestro come W.J.T. Mitchell, si origina la scintilla del senso – se necessario elidendo, o superando, la tautologia del significato. Anche il nostro presente è storia, se solo riusciamo a guardarlo senza fermarci alla banalità della cronaca: in quanto è percorso dalle tensioni e dai conflitti che, della storia, sono il palinsesto ineludibile. Così che guardare alle immagini che, di questi conflitti, sempre più evidentemente sono insieme le armi e la posta in gioco, non sarà l’ultimo ufficio di Antinomie. Guarderemo alle immagini, dunque, anche nella loro valenza sociale e politica: a quello che, parafrasando Rosalind Krauss sul «fotografico», chiameremo «l’iconico».
Per tutti questi motivi su Antinomie la «scrittura» – letteraria, visiva, iconotestuale – è insieme «scrizione», come preferiva chiamarla Roland Barthes per sottolineare il suo rivolgersi alla «significanza» anziché alla «comunicazione». Significanza ha a che fare col significato, certo, ma in qualche misura è anche il suo opposto: un processo anziché un dato, una relazione anziché uno stato, una metamorfosi anziché un assunto. Anche il gesto mentale dell’interpretazione – se è davvero tale, anziché tautologica illustrazione –, come sanno gli scienziati «duri» ormai da quasi un secolo, opera infatti una trasformazione dell’oggetto interpretato: quanto del soggetto che lo interpreta. La scrittura «saggistica», se non si limita a esporre i contenuti di una compilazione, come dice il suo etimo è, anzitutto, esplorazione dei propri limiti: oltre che del proprio campo di indagine.
È per tutto questo che impiantare un cantiere su questi temi, nel campo per definizione volatile del web dove l’impermanenza è tutto, ha il senso di un gesto controcorrente: di una prassi di opposizione. E, se almeno in minima parte questo gesto sortirà degli effetti, scopriremo che la frase di quella fotografa la si può leggere anche al suo rovescio: non si apre al futuro colui che lo dimentica, se è vero che «l’opera è l’attesa dell’opera».
Andrea Cortellessa
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Come il filosofo e critico d’arte francese Hubert Damisch ha ribadito fino agli ultimi anni della sua vita, davanti all’arte non c’è sistema, non c’è metodo, non c’è catechismo, non c’è programma, non c’è definizione né grandi interpretazioni. Un buon sistema è, a conti fatti, quello che ci permette di fuggire dal sistema stesso. Bisogna prendere il rischio di esporci all’arte, di rimetterci all’arte per vedere quello che ci fa dire e pensare. «Dare forza di pensiero a un dipinto» così come «dare forza di pittura a un pensiero»: ecco un abbozzo di programma per quanto riguarda la pittura. Al di là dei suoi confini, trasforma la storia dell’arte nel lavoro dell’arte su se stessa. Non sorprende che Damisch ponesse a se stesso e agli altri domande che, alle orecchie di uno storico o critico d’arte fedele solo alla lezione della filologia, suonano strane. Davanti alla pittura di Signorelli: «Cosa è in gioco in un’opera? Su cosa apre? Cosa permette e rende possibile?»; a Umberto Eco in occasione di un ciclo di conferenze al Louvre: «Cosa fa opera nel tuo lavoro? Cosa per te fa opera?». E ancora: qual è la relazione tra arte e storia? cosa vuol dire la storia quando si parla di arte? O, come si chiedeva Emile Benveniste in un passo riportato da Damisch (L’Origine della prospettiva): «Se c’è storia, di cosa è la storia?». Cosa fa storia in un oggetto, come lo fa e entro quali limiti? Storia e teoria diventano così due fuochi di un’ellisse. Che un’opera d’arte sia un oggetto teorico (objet théorique) vuol dire che funziona secondo norme che non sono storiche, che non è sufficiente scrivere la storia di un problema visivo per risolverlo. Ci sono domande poste in termini storici che non possono essere esaurite storicamente. E ci sono alcune opere d’arte la cui presenza eccede la scrittura della storia e che hanno altresì la capacità di produrre teoria, ovvero di porre un problema e, allo stesso tempo, d’indicare un modo per uscirne. In definitiva, l’opera d’arte è «un oggetto in grado di suscitare più pensieri di quelli che vi sono contenuti […], che mantiene un senso fuori dal suo contesto storico». A tanto si spinge Damisch, in un passo di Merleau-Ponty riportato ne L’Origine della prospettiva e, come puntualizzava divertito Damisch, scomparso nell’edizione economica.
Non ci sfugge però – ed è questa una della pietre angolari di Antinomie – che queste riflessioni, per quanto preziose, vadano oggi radicalmente rivisitate. Concretamente, vanno messe alla prova con la nostra cultura visuale, con quelle Visual humanities di cui la storia dell’arte è sempre più il fanalino di coda. Perché a cambiare non è solo ciò che nell’arte fa opera; non solo la natura dell’opera davanti all’universo sfaccettato delle immagini; non solo lo sguardo che portiamo sulle immagini, ma la natura stessa delle immagini. Molte di queste, infatti, sono ormai generate automaticamente, senza che sia previsto uno sguardo umano che le osservi. Sono prodotte e archiviate allo stesso tempo, senza che la nostra percezione abbia l’occasione d’incrociarle e confrontarle. Se allora, come ricordava Damisch, non c’è sistema né metodo, non ci resta che rivolgerci alla produzione artistica contemporanea e scegliere – con un gesto critico che non ha perso d’attualità – ciò che ci aiuta a vedere e a sentire, a pensare e ad orientarci.
Riccardo Venturi