Nous deux encore apparve nel 1948 per J. Lambert et Cie (23 pp., in-12°, stampato senza data dall’Imprimerie Union a Parigi, in tiratura limitata a 750 esemplari, di cui 100 fuori commercio). Il nome dell’editore nasconde Jacques-Olivier Fourcade, l’editore di Mes propriétés, amico intimo di Henri Michaux.
Con Épreuves, exorcismes, Nous deux encore è il solo libro di Michaux per il quale una data è associata visibilmente al titolo: la morte della moglie Marie-Louise Termet. A seguito di un incendio divampato al contatto tra la fiamma di un fornello e l’accappatoio di nylon, Marie-Louise riporta ustioni di terzo grado. Dopo due mesi di atroci sofferenze, il 19 febbraio del 1948, muore in ospedale per un’embolia polmonare. Michaux confidava in una lettera a Supervielle, il 3 febbraio: “Le sue mani e le sue braccia totalmente immobilizzate, e per tanto tempo ancora, la rendono completamente dipendente dagli altri, il che non mi dà tregua fino alla notte”.
Mettere la mano sul fuoco è mettere la parola sulla carta.
Noi due ancora è poema del fuoco che gioca col corpo.
La parola riporta le stesse ustioni di terzo grado di chi non ha saputo giocare.
Noi due ancora nell’inchiostro di colui che non cessa di pronunciare l’altro.
Noi due del suo sangue, di uno mai.
Per dire ancora «essere insieme possibile dell’amore».
Ancora due, essere uno nella veglia che dispera la parola, nel dolore dell’assenza.
Essere qui tradotto, indirizzato alla morte, agli amici, nel luogo intimato del lutto.
Dal fuoco cade la cenere, la lingua di luce dal buio dell’altro.
E per tanto tempo ancora…
Domenico Brancale
Aria di fuoco, non hai saputo giocare. Hai gettato sulla mia casa un drappo nero. Perché quest’opaco dappertutto? L’opaco che ha oscurato il mio cielo. Perché questo silenzio dappertutto? Il silenzio che ha taciuto il mio canto.
*
La speranza, mi sarei accontentato di un rivolo. Ma tu ti sei presa tutto. Mi è stato sottratto il riverbero del suono.
*
Tu non hai saputo giocare. Hai tirato la corda. Ma non hai saputo giocare. All’improvviso hai rovinato tutto. Hai rotto il violino. Hai lanciato una fiamma sulla pelle di seta per farne un’orrenda palude di sangue.
*
La sua felicità rideva nell’anima. Ma tutto era inganno. Questo non ha fatto ridere a lungo.
*
Lei stava su un treno in corsa verso il mare. Era in un razzo filante sulla roccia. Si slanciava, benché immobile, verso il serpente di fuoco che l’avrebbe divorata. All’improvviso fu lì, mentre fiduciosa si pettinava la chioma contemplando la propria felicità allo specchio.
*
E allorché venne assalita da questa fiamma, oh…
*
Di colpo le è stata strappata la coppa. Le sue mani non hanno stretto più niente. Si è vista stretta all’angolo. Si è soffermata come su un enorme oggetto di meditazione che bisogna risolvere prima di ogni cosa. Due secondi più tardi, due secondi troppo tardi, fuggiva verso la finestra invocando soccorso. Allora l’intera fiamma l’ha circondata.
*
Lei si ritrova in un letto in cui la sofferenza cresce fino al cielo, fino al cielo, senza imbattersi in alcun dio… dove la sofferenza discende fino al fondo dell’inferno, fino in fondo all’inferno, senza imbattersi in nessun diavolo.
*
L’ospedale dorme. La bruciatura veglia. Il suo corpo, come un parco abbandonato…
*
Defenestrata da se stessa, fa di tutto per rientrare. Il vuoto dove voga non risponde ai suoi movimenti.
*
Il suo grano brucia lentamente nel fienile.
*
Cieca, attraverso le lunghe briglie della sofferenza, nel corso di un mese, risale il fiume della vita, nuoto atroce. Paziente, nell’innominabile gonfiore rintraccia le sue forme eleganti, cuce di nuovo la camicia della sua pelle delicata. La guarigione è qui. Domani cadrà l’ultima medicazione. Domani…
*
Aria di sangue, non hai saputo giocare. Neanche tu, non hai saputo. Hai gettato improvvisamente, stupidamente, il tuo piccolo misero grumo ostruttivo in mezzo a una nuova aurora. Di colpo non ha trovato più il suo posto. Bisognava pur voltarsi verso la Morte. A malapena ha scorto la strada. Un secondo spalancò l’abisso. Quello dopo vi precipitava.
*
Siamo rimasti storditi. Non abbiamo avuto il tempo di salutarci. Non abbiamo avuto il tempo di una promessa. Lei era sparita dalla pellicola di questa terra.
*
Lou
Lou
Lou, nel retrovisore di un breve istante
Lou, non mi vedi?
Lou, il destino di essere insieme per sempre
per cui avevi così tanta fede
Ebbene?
Non sarai mica come le altre che inghiottite dal silenzio
mai fanno un cenno.
No, la morte non può sottrarti all’amore, non con te.
Nell’orribile pompa
che ti dirada fino a chissà quale millesima diluizione
tu cerchi ancora, cerchi un posto per noi
Ma ho paura
Non abbiamo preso abbastanza precauzioni
Dovevamo saperlo
Qualcuno mi ha scritto che sarai tu, martire, a vegliare su di me
per sempre.
Oh! Ne dubito.
Quando tocco il tuo fluido così delicato
rimasto dentro la tua camera e gli oggetti personali che stringo
tra le mani
questo fluido sottile che bisognava sempre proteggere
Oh ne dubito, io ne dubito e ho paura per te,
impetuosa e fragile, offerta alle catastrofi
Eppure, frequentavo uffici alla ricerca di certificati
sciupando i momenti preziosi
che avremmo piuttosto dovuto viverli fra di noi totalmente
invece rabbrividisci
aspettando nella tua meravigliosa fiducia che io venga ad aiutarti,
a tirarti fuori di lì, pensando «Verrà, di sicuro, verrà
Sarà stato trattenuto, ma non potrà tardare ancora
Verrà, lo conosco
Non mi lascerà sola
Non è possibile
non lascerà tutta sola, la sua povera Lou…»
*
Non sapevo niente della vita. La mia vita scorreva per amore di te. Diventava semplice, questa grande faccenda intricata. Semplice, nonostante le preoccupazioni. La tua debolezza, mi rafforzava, tanto più si poggiava su di me.
*
Dimmi, davvero non c’incontreremo mai più?
*
Lou, parlo una lingua morta, adesso che non ti parlo più. I tuoi grandi sforzi di liana in me, vedi, sono riusciti. Lo vedi per lo meno? È vero, tu mai ne dubitasti. Occorreva un cieco come me, occorreva tempo, a lui, occorreva la tua lingua malata, la tua bellezza, che rinviene dalla gracilità e dalle febbri, questa luce in te, questa fede, per trafiggere finalmente il muro della mania della sua indipendenza.
*
Tardi ho capito. Tardi ho saputo. Tardi, ho compreso che «insieme» non sembrava far parte del mio destino. Ma, non troppo tardi. Gli anni sono stati per noi, non contro di noi.
*
Le nostre ombre hanno respirato insieme. Sotto di noi le acque dei fiumi degli avvenimenti scorrevano quasi in silenzio. Le nostre ombre respiravano insieme e ogni cosa ne era ricoperta.
*
Ho avuto freddo nel tuo freddo. Ho bevuto sorsi dal tuo dolore. Ci perdevamo nel lago dei nostri slanci.
*
Colmo di un amore non meritato, colmo, ignoravo di esserlo con l’incoscienza di chi possiede, ho perduto di essere amato. La fortuna si è dissipata in un giorno.
*
Arida, la mia vita riprende. Ma io non rinvengo più. Il mio corpo dimora nel tuo dolce corpo e, sul mio petto, antenne piumate mi fanno patire il vento del ritiro. Colei che non è più, avvince, e la sua assenza divoratrice mi mangia e m’invade.
*
Sono arrivato a rimpiangere i giorni della tua sofferenza atroce nel letto d’ospedale, quando giungevo per i corridoi nauseabondi attraversati da gemiti verso la spessa mummia del tuo corpo bendato e sentivo all’improvviso emergere come il «la» della nostra alleanza, la tua voce, dolce, musicale, controllata, resistere con fierezza all’orrore della disperazione, quando a tua volta ascoltavi i miei passi e mormoravi, liberata «Ah, sei là». Posavo la mano sulle tue ginocchia, sopra la coperta macchiata e tutto allora scompariva, il fetore, l’orribile indecenza del corpo trattato come una botte o come una fogna da sconosciuti affaccendati e inquieti, tutto scivolava indietro, lasciando noi due fluidi, attraverso le medicazioni, ritrovarsi, unirsi, mischiarsi in uno stordimento del cuore, al culmine della sventura, al culmine della dolcezza. Le infermiere, il medico sorridevano, i tuoi occhi pieni di fede spegnevano quelli degli altri.
*
Colui che è solo, la sera si volta verso il muro, per parlarti. Sa che cosa ti animava. Si appresta a condividere il giorno. Ha osservato con i tuoi occhi. Ha ascoltato con le tue orecchie. Ha sempre qualcosa per te.
*
Non mi risponderai mai?
*
Forse la tua persona è divenuta come un’aria di tempo nevoso, che entra dalla finestra, che uno richiude, colto da brividi o da malore foriero di dramma, come mi è capitato qualche settimana fa. Improvvisamente il freddo si avvolse intorno alle mie spalle, mi stavo coprendo in fretta e voltandomi quando eri tu forse, più calda che potessi diventare, sperando di essere ben accolta; tu, così lucida, non potevi esprimerti diversamente. Chissà se in questo stesso istante, tu non attenda, ansiosa, che finalmente io comprenda e venga, lontano dalla vita dove non sei più, a unirmi a te, miseramente, miseramente certo, senza mezzi ma, noi due ancora, noi due…
(la traduzione di Nous deux encore, a cura di Domenico Brancale, è apparsa in 45 esemplari numerati per Prova d’Artista, il 19 luglio del 2012 a Venezia)