Lo shock

01/01/2020

Da bambina le mie giornate contenevano, proprio come ora, una gran quantità di questa ovatta, di questo non-essere. Le settimane passavano, a St Ives, una dopo l’altra, e non vi era nulla che lasciasse la minima traccia su di me. Poi, apparentemente senza alcun motivo, una scossa violenta e improvvisa. Accadde qualcosa, e con una violenza tale che non ho più dimenticato quei momenti. Ne darò qualche esempio. Ecco il primo: stavo facendo la lotta con Thoby sul prato. Ci stavamo prendendo a pugni. Proprio nell’istante in cui levavo il braccio per colpirlo, sentii una domanda sorgere dentro di me: perché fare del male a un’altra persona? Abbassai immediatamente il braccio, e rimasi lì, lasciando che Thoby mi picchiasse. Ricordo la sensazione. Era una sensazione di tristezza inesorabile. Come se avessi acquisito la consapevolezza di qualcosa di terribile. E della mia impotenza. Mi allontanai in fretta, di nascosto, da sola, profondamente depressa. Anche il secondo episodio ebbe luogo nel giardino di St Ives. Guardavo l’aiuola dei fiori vicino alla porta di casa. “Ecco il tutto”, dissi. Osservavo una pianta con un ventaglio di foglie e, all’improvviso, mi parve chiaro che il fiore era esso stesso parte della terra; che la cosa che era il fiore era racchiusa all’interno di un cerchio, e che quello era il vero fiore, parte terra, parte fiore. Fu un pensiero che misi da parte, con la sensazione che mi sarebbe potuto tornare molto utile in seguito. Anche il terzo episodio accadde a St Ives. C’erano certi signori, i Valpy, che avevano soggiornato a St Ives, ma che erano poi andati via. Una sera stavamo aspettando di cenare quando sentii per caso mio padre o mia madre dire che il signor Valpy si era tolto la vita. Dopo di che ricordo solo che mi trovavo in giardino, la sera tardi, e camminavo lungo il sentiero, accanto al melo. Avevo l’impressione che il melo fosse in qualche modo collegato all’orrore del suicidio del signor Valpy. Non riuscivo a oltrepassarlo. Rimasi lì in piedi, a fissare le crepe grigio-verdi della corteccia (era una notte illuminata dalla luna), come ipnotizzata dall’orrore. Mi sentivo risucchiata, inesorabilmente, in un baratro di disperazione assoluta, da cui non potevo risalire. Il mio corpo era come paralizzato.

Virginia Woolf e suo padre Leslie Stephen
Virginia Woolf e suo padre Leslie Stephen

Questi sono tre esempi di momenti eccezionali. Ci ripenso spesso, o meglio, sono loro che, inaspettatamente, affiorano alla superficie. Ma ora che per la prima volta li ho messi per iscritto, ho capito una cosa di cui non mi ero mai resa conto prima. Due di questi momenti si conclusero con uno stato di disperazione. L’altro, invece, con uno stato di soddisfazione. Quando, davanti al fiore, dissi: “Ecco il tutto”, sentii di aver fatto una scoperta. Sentii di aver trovato qualcosa da custodire dentro di me, a cui sarei dovuta tornare, per poterlo osservare da un altro punto di vista ed esplorare meglio. Vi era una grande differenza, me ne rendo conto ora. La differenza, innanzitutto, che esiste tra disperazione e soddisfazione. Credo che questa differenza nascesse dalla mia incapacità di gestire il dolore insito nello scoprire che le persone si fanno del male, che un uomo che avevo conosciuto si era tolto la vita. La sensazione di orrore mi rendeva impotente. Nel caso del fiore, invece, capivo che c’era una ragione. Ed ero quindi in grado di far fronte alla sensazione. Non ero impotente. Ero consapevole, seppur lontanamente, che con il tempo avrei saputo trovare una spiegazione. Non so se fossi più grande quando vidi il fiore, rispetto alle altre due esperienze. So solo che molti di questi momenti eccezionali erano accompagnati da un preciso senso di orrore, e da una sensazione di crollo fisico. Mi sentivo dominata, passiva. Questo sembra suggerire che, crescendo, si acquisisca una maggiore capacità di trovare spiegazioni attraverso la ragione. Spiegazioni che attutiscono la tremenda violenza del colpo. Sì, penso che sia così, perché, pur continuando ad avere questa particolare predisposizione a subire tali scosse improvvise, ora le accolgo con piacere; dopo la sorpresa iniziale, sento all’istante quanto possano essere preziose per me. E così sono portata a credere che sia proprio la capacità di ricevere queste scosse a fare di me una scrittrice. Mi azzarderei a motivare questa affermazione con la constatazione che, nel mio caso, ognuna di queste scosse è immediatamente seguita dal desiderio di trovarvi una spiegazione. Sento di aver ricevuto un colpo, ma non è più, come credevo da bambina, semplicemente un colpo sferrato da un nemico che si cela dietro l’ovatta di cui è fatto il quotidiano. È, o diventerà, la rivelazione di un altro ordine di realtà. È il segno di qualcosa di reale, oltre le apparenze. E sono io che lo rendo reale attraverso le parole. Solo esprimendolo in parole posso restituirne la pienezza. Una volta conquistata questa pienezza, il colpo perde il potere di farmi del male. Mi dà anzi grande gioia – forse proprio perché è così che allontano il dolore – ricomporre i frammenti dispersi. È forse il piacere più intenso che io conosca. È la stessa estasi che provo quando, scrivendo, mi sembra di scoprire le giuste connessioni tra le cose. Completare efficacemente una scena. Riuscire a dare compiutezza a un personaggio. Da ciò deriva quella che potrei definire una filosofia. O perlomeno un’idea che mi ha sempre accompagnato. Che sotto l’ovatta si nasconda un disegno; che noi, tutti noi esseri umani, siamo connessi a questo disegno; che il mondo intero sia un’opera d’arte, di cui noi facciamo parte. L’ Amleto, o un quartetto di Beethoven, è la verità su questa immensità che chiamiamo mondo. Ma non c’è nessuno Shakespeare, nessun Beethoven, sicuramente e chiaramente nessun Dio; noi siamo le parole; noi siamo la musica; noi siamo le cose stesse. È quando la scossa si abbatte su di me che vedo tutto questo.

(Il brano qui riprodotto è tratto da Virginia Woolf, Tracce del passato, a cura di Alessandra Salvini, Lanfranchi, Milano 2018)

In copertina: Heinrich Kühn, “Lotte, Hans e Walther Kühn vicino all’acqua”, 1907

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