Nel poco di luce della stanza
la pausa che trasale
di assenza-presenza
Agostino Bonalumi, Pausa
Mark Rothko fu uno dei maggiori artisti del Novecento. Nato nell’odierna Lettonia nel 1903, di origini ebraiche, cambiò il suo cognome Rotkovitch durante l’espatrio negli Stati Uniti, morì suicida nel febbraio 1970. Esattamente un anno dopo veniva inaugurata a Houston la Rothko Chapel, un edificio nella cui aula interna a base ottogonale sono allestiti sui lati 14 grandi pannelli dipinti, ai quali Rothko cominciò a lavorare dal 1964; un oculus sul soffitto dà quel “poco di luce della stanza” sufficiente ad una visione “di assenza-presenza”.

Sorta di cappella laica, espressamente “non-denominational”, cioè a-confessionale, ma luogo di preghiera e di riflessione per le più diverse fedi, ancora oggi la Chapel ospita momenti di incontro e meditazione aperti a tutti.
Alessandro Carrera, che a Houston insegna, in un recente saggio (Il colore del buio, “Icone” / Il Mulino, Bologna 2019, pp. 136, 12€), ricostruisce non tanto la vicenda della celebre struttura, quanto il senso del percorso artistico e filosofico di Rothko che in tale opera culmina. Proprio questa prospettiva ripercorreremo qui brevemente, perché permette di evidenziare il problema, l’aporia appunto, che fu peculiare del grande artista americano.

Carrera, per dare meglio il senso del salto che ad un certo punto si realizza nell’estetica di Rothko, mette a confronto i pannelli della Chapel con i celebri Seagram Murals che alla fine degli anni Cinquanta l’artista aveva concepito a seguito di una commessa per un importante ristorante newyorkese. Vengono così evidenziati due periodi e due orizzonti di senso affatto diversi. Nei pannelli newyorkesi infatti, con campiture grandi e “accesissime”, traspare l’ideologia nietzschiana che Rothko allora privilegiava, fatta di conflitto, senso del “tragico”, “violento sommovimento dionisiaco” ecc. Si trattava di una cifra tipica della prima fase della produzione di Rothko, che già in una lettera del 1943 aveva definito la sua poetica come “arcaica e primitiva”, “violentemente opposta al buonsenso” (tanto che alla fine avrebbe rifiutato la commessa del Four Seasons) e il cui “unico soggetto autentico è quello tragico ed eterno”. In questo Rothko di “riconciliazioni dialettiche” non si trova traccia.
Carrera si domanda però se quello ancora degli ultimi anni Cinquanta sia da considerarsi davvero il “Rothko maggiore”. A dire evidentemente che quello maggiore è il successivo, l’estremo anzi, quello appunto della Chapel. Che però con altrettanta evidenza si poneva proprio il problema di nuove “riconciliazioni” o comunque di un senso della filosofia e dell’arte che non poteva essere più quello di Nietzsche, men che meno quello ispirato all’“arte primitiva” con le sue “immagini demoniache e brutali”.

E in effetti i pannelli di Houston sono per lo più di colori scuri, tetri, per quanto l’insieme dell’ambientazione tradisca il bisogno di emancipazione dalle tenebre, la ricerca di una “religione della luce” che porti a cogliere “il colore del buio”. Perché dal buio, dal nero, dal male ci si può sempre emancipare: “persino nella cosa nera risiede intatta la possibilità del rosso e del blu”, di altro colore, altra luce, altra “possibilità”. Del resto come risulta da una serie di appunti presi da Dore Ashton in margine ad una conferenza di Rothko a New York del 1958, la sua arte era animata da “una chiara consapevolezza della morte” che però non era mai concessione al nichilismo e al pantragismo, attesa la convinzione che “tensione, ossia conflitti e desideri nell’arte sono dominati nel momento stesso in cui si manifestano”. Nessuna retorica del tragico dunque, ma continua tensione a dominare i “conflitti”, a mediare, trovare un equilibrio fra opposte tendenze e pulsioni.
Proprio al riguardo Carrera sottolinea a ragione l’influenza che i viaggi in Italia ebbero sulla Weltanschauung di Rothko. Il senso della misura, dell’equilibrio, della bellezza trasmessogli dalla visita alla Biblioteca Medicea di Firenze, in genere dall’opera di Michelangelo, ma poi anche dagli “incantevoli azzurri del Beato Angelico” o dalla “cattedrale bizantina di santa Maria Assunta a Torcello”.

Così può accadere che nella Rothko Chapel la abbagliante luce texana perda la sua nietzschiana violenza e per così dire “rallenti”, si riduca ad una “luminosità inclinata, circolare e diffusa”. Si faccia incerta dunque, ma anche più autentica.

La “nuova fase” di Rothko, l’ultima, consuma insomma ogni senso della “trascendenza”, “il desiderio di trascendenza che ancora agitava i Seagram Murals si è ormai allontanato”, la prospettiva diviene quella della “pura immanenza del tempo – tutto il tempo”, di una “immanenza assoluta”. Perché dunque parliamo di aporia? Perché il tentativo non poteva non fallire. Mancavano probabilmente a Rothko i presupposti teorici e culturali per una reale sintesi, che con tutta evidenza non poteva consistere né nella “luce oscura” dei cabalisti, né nella “luce nascosta (ha-ganuz)” della mistica ebraica, ma anche cristiana.
Carrera fa bene a concluderne che “certamente Rothko è partito da premesse contraddittorie, platoniche e dionisiache allo stesso tempo, in una sovrapposizione di poetiche per nulla facili da districare”, a rigore impossibili. Il destino dell’operazione-Houston era segnato, stante l’incombente senso “di un abisso senza nome al quale l’uomo Rothko poté sfuggire solo tagliandosi le vene il 25 febbraio 1970”.
(Questo articolo è apparso, in forma più breve, su “Left”, 51, 26 dicembre 2019)