Gli occhi rovesciati

Bernini, Santa Teresa d'Avila

C’era in lui un che di stonato. Spesso, quando non stava rintanato in casa ed era costretto a frequentare la società, si poteva vederlo appartarsi e restare silenzioso, anche per ore. Era come se non fosse mai davvero a suo agio, in nessun luogo e con nessuno. Quasi che tra lui e coloro con cui aveva relazioni di amicizia e stima vi fosse una distanza che percorreva tutta l’ampiezza di un equivoco, di una incomprensione profonda. Sentiva, quando ascoltava le parole d’ordine del proprio tempo, anche se pronunciate con arguzia e finezza dagli amici, colti e raffinati, accumulati nel corso degli anni, che quel che davvero contava per lui era altrove, non faceva parte di questo mondo. Nel silenzio della sua solitudine, sentiva risuonare un vuoto che lo strappava da questo mondo e lo spingeva verso un altro; o meglio, gli sembrava di essere come lacerato da una doppia appartenenza: non era a suo agio né di qui né di là. Non aveva mai conosciuto la fortuna di quelle forme di ascesi o di illuminazione che proiettano alcuni verso la trascendenza, strappandoli per sempre a questo mondo. Ma non era nemmeno mai stato capace di vivere davvero fino in fondo, e senza resti, la realtà, la cruda realtà. Il suo era un mondo interstiziale. Viveva, come sospeso, tra il cielo e la terra, tra lo spirito e la carne, tra la ragione e l’estasi. In fondo, quando si chiedeva chi fosse – e capita a chiunque che arrivi il giorno in cui si è costretti a porsi questa domanda – la sola risposta possibile era che lui, nonostante tutto quello che aveva fatto, che aveva “costruito”, non era nulla. Non aveva mai trovato una propria identità. Aveva sempre avuto grande facilità in quasi tutto. In ogni cosa, sapeva ben presto arrivare al nucleo. Ma poi, inevitabilmente, aveva la sensazione che l’essenziale fosse altrove, che il senso non potesse esaurirsi lì, in quel che aveva potuto imparare. Sì, il senso delle cose non gli bastava. Forse, aveva compreso, ed era la sola cosa che davvero gli sembrava di aver compreso, il senso della vita non era dell’ordine del possesso né della padronanza. Non era possibile afferrarlo, né stringerlo a sé. Si trattava, piuttosto, di lasciarsi trasportare e sradicare, ogni volta di nuovo, dal luogo in cui si era creduto di poterlo individuare. Questo atto di sradicamento, però, non dipendeva dalla volontà, come invece era per ogni forma di radicamento, ma da una forza che, inaspettata, ma inesorabile, mandava in frantumi tutte i suoi legami e le sue certezze e lo rapiva, trasportandolo altrove, là dove mai avrebbe immaginato di dover andare o, per dir meglio, di essere trasportato, catapultato, gettato con una violenza, non brutale, ma decisa e senza possibilità di replica. D’un tratto, si ritrovava altrove.

In gioventù, non aveva mai avuto una vera educazione religiosa, poiché i suoi genitori erano rappresentanti di quel comunismo militante ed extraparlamentare che non lasciava nessuno spazio a Dio. Solo le nonne, prima quella paterna, poi quella materna, gli avevano dato un battesimo, da cui quel suo secondo nome, Maria, così pio e così lombardo, e poi la frequentazione delle funzioni e della liturgia. Tutto era, però, rimasto sullo sfondo, mentre la sua vera educazione era stata incentrata, più che sul marxismo, su una forma di illuminismo raffinato ed estetizzante. I suoi primi eroi erano stati Federico II di Svevia e, forse solo per assonanza dei nomi o forse per una risonanza nascosta che gli faceva presagire una storia segreta al di sotto di quella visibile, Federico II di Prussia e il suo fido Voltaire. A queste figure si sovrapponevano le immagini della grande arte cristiana che i suoi genitori gli avevano fatto conoscere, fin dalla più tenera età, trascinandolo per tutti i musei e le chiese d’Europa. Per non parlare della musica di Bach, non solo di Johann Sebastian, ma di tutta la sua famiglia, e di tutto il repertorio barocco che l’aveva accompagnato fin da prima della nascita, essendo sua madre musicista. Già dall’infanzia, dunque, più visioni del mondo si erano sovrapposte nella sua testa e nel suo sentire. Si trattava di qualcosa di più di un semplice costrutto ideologico. La sua formazione, proprio perché mai davvero appresa attraverso lo studio, ma piuttosto assorbita con il suo semplice esistere in mezzo ad essa, era penetrata così in profondità nel suo modo di sentire e di affrontare la realtà che non ne aveva alcuna consapevolezza. Per lui, il mondo esisteva come questa coabitazione impossibile tra l’ateismo e la religiosità più profonda.

Da bambino, aveva passato lunghissime estati sul lago, nella casa di famiglia dei nonni materni. Le ore erano spesso interminabili e scandite da lunghe passeggiate sulle montagne che separano l’Italia dalla Svizzera. Assieme all’allegra combriccola di ragazzi e adolescenti del piccolo paese in cui si trovava, si inerpicava per i sentieri e non era difficile, nemmeno per un bambino quale allora era o forse proprio per il bambino che era allora, percepire un sentimento di coappartenenza tra sé e il mondo misterioso di animali e piante che li circondava. In ogni cosa, riverberava un unico principio, una vibrazione che si estendeva dalla lucertola allo stagno in cui si abbeverava, per poi ricomparire nei movimenti quasi impercettibili dei caprioli nascosti tra la boscaglia fino a giungere, attraverso le viole del pensiero, a lui. Tutto era. E lui ne era a sua volta parte. Un giorno, proprio rientrando da una di queste lunghe e coinvolgenti passeggiate, la sua attenzione fu attratta, per la prima volta, su un gesso che, da sempre, era collocato nell’umbratile e fresco atrio della casa. Si trattava di un volto di donna. La donna aveva un velo che le copriva la chioma, lasciandole in piena luce il viso. Gli occhi erano come rovesciati all’indietro. La bocca aperta, quasi in uno spasmo. C’era un ché di inconsueto in quella smorfia. Ma, allo stesso tempo, quel bambino, che già da molti anni era avvezzo a confrontarsi con l’arte, vi colse un qualcosa di strano, quello che, in un linguaggio da adulti, potremmo definire un rapimento. Sì, quella donna doveva essere stata rapita e trasportata altrove. In un altrove che le aveva permesso di uscire da sé ed entrare in una dimensione fuori dallo spazio e dal tempo o, forse, in una dimensione dello spazio e del tempo più profonda o più originaria o più vera, comunque altra. Gli parve di vedere in quello sguardo assente quel che lui stesso aveva visto tante volte nel bosco e che non trovava poi una propria dimensione nella parola. Come parlarne alla mamma o agli amici, si era sempre chiesto. In quello sguardo assente, invece, gli parve di trovare la spiegazione a tutto quello che aveva visto. Gli sembrò di comprendere una cosa semplicissima eppur così difficile da afferrare: che noi siamo qui ma siamo sempre anche altrove. E che tutto è legato da un’unica forza che ci avvolge, ci compenetra e ci muove. E che noi, in fondo, siamo quella forza. Attraverso lo sguardo rovesciato di quella donna, vide quello che solitamente non si può vedere. Vide il nulla di ogni visione, il suo punto cieco, l’abisso in cui ogni cosa sprofonda. Vide l’inizio, la fine e il loro rincorrersi infinito. Guardando la smorfia di quella bocca, in bilico tra il dolore e l’estasi del piacere, sentì che aveva toccato qualcosa di raro, qualcosa che lo avrebbe accompagnato per sempre. Se ne rimase a lungo silenzioso in giardino. Guardava le formiche e non pensava a nulla.  Era totalmente lì, ma anche altrove. Poi arrivò la mamma e  lui le chiese chi era quella donna del gesso. La mamma, trattandolo come sempre da adulto, cosa che a lui dispiaceva perché lo rendeva diverso dagli altri bambini, gli rispose “Santa Teresa d’Avila, una grande mistica”. Non ne parlarono mai più.

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell'arte” (Sossella, 2021) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

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