Sin dagli anni della sua indisciplinata formazione, Umberto Boccioni ha fatto della scrittura il compagno fedele della propria esperienza di artista di ricerca, infaticabile sperimentatore di idee, di sensazioni, di visioni. Un compagno inseparabile e non sempre amato – «Sono stanco di scrivere: non è il mio mestiere»[1] annotava sconfortato nel 1910, peraltro annus mirabilis nella breve e folgorante carriera di Boccioni, nato a Reggio Calabria nel 1882 e morto a Verona nel 1916 per una sfortunata caduta da cavallo – con il quale l’artista ha intrattenuto un rapporto tanto costante quanto mutevole, utilizzando per i suoi testi ora i toni categorici e altisonanti del proclama («La scultura, nei monumenti e nelle esposizioni di tutte le città d’Europa, offre uno spettacolo così compassionevole di barbarie, di goffaggine e di monotona imitazione, che il mio occhio futurista se ne ritrae con profondo disgusto!» è l’incipit, davvero inconfondibile, del Manifesto della scultura futurista pubblicato nel 1912), ora il ritmo controllato e spesso sferzante che appartiene ai suoi numerosi contributi critico-teorici – uno per tutti, quel Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico) edito nel 1914 e dedicato «Al genio e ai muscoli dei miei fratelli Marinetti Carrà Russolo»[2] – riservando invece ai suoi scritti privati il respiro accorato e coinvolgente di una prosa rotta e spesso dolente, solo apparentemente senza ambizioni. Una scrittura intima e spezzata – «Lavoro nulla! Studio nulla! Amore nulla, in nessun modo. Quanto durerà così?» (17 marzo 1908) – con la quale l’artista ha in anni cruciali riempito i suoi taccuini[3], strabordanti di notazioni, appunti, citazioni, riflessioni, dubbi. Parole e, più rari, disegni – e proprio il disegno, come ha evidenziato la mostra promossa a Milano e a Rovereto per il centenario della morte dell’artista[4], è il filo che lega e sostiene ogni aspetto della multiforme produzione di Boccioni – che, insieme, restituiscono il profilo tormentato di un uomo profondamente consapevole dell’urgenza della propria ricerca, della responsabilità e dell’inquietudine a cui non può sottrarsi un artista che voglia davvero appartenere al proprio tempo e che al proprio tempo deve, quindi, saper dare forma e direzione: «Bisogna che mi confessi che cerco, cerco, cerco e non trovo. Troverò? Ieri ero stanco della gran città, oggi la desidero ardentemente. Domani cosa vorrò? Sento che voglio dipingere, di nuovo, il frutto del nostro tempo industriale» (14 marzo 1907).
A sfogliare le pagine senza margine di quei pochi quaderni a cui l’artista ha consegnato le esperienze e le domande della sua stagione d’esordio per poi, dopo una lunga e certamente significativa interruzione[5], raccontare in esclamative parole libere – «Sonno! Letto! Mangiare!» (27 ottobre 1915) – le speranze e le rapide disillusioni dell’incontro, voluto e presto rimpianto, con la guerra, appare inequivocabile come negli scritti in prima persona, dove si assottiglia senza cadere la maschera che comunque separa l’io che scrive dall’io che viene scritto – e non a caso Michel Leiris, che dell’autobiografia ha sostenuto e sperimentato con ostinazione la necessaria crudeltà, ha definito suicida ogni forma di scrittura del sé, il cui esito (la cui condizione) è proprio la lacerazione e la dolorosa distanza – l’artista abbia voluto dar voce alle incertezze e alle esitazioni, alle sofferenze e ai, più rari, entusiasmi che trovano appena spazio nei suoi testi pubblici, dove la vita fa un passo indietro per lasciar passare l’arte, le sue sonore promesse e i suoi severi precetti.
Arte e vita, invece, sono sempre intrecciate, complici e, insieme, rivali, nei diari di Boccioni, esemplari di quella natura ambigua, sempre al confine incerto fra impietosa verità e indulgente finzione, che definisce ogni journal intime, anche quello che si vorrebbe più brutalmente sincero e spietato. Del resto, l’autore degli Stati d’animo, opere in cui inestricabilmente si fondono e agiscono linee di forza che hanno la solidità dell’energia e la tensione soggettiva della sensazione, non poteva non dare anche alle proprie privatissime confessioni – «Se tutto quello che scrivo l’avessi confidato a qualcuno credo fermamente che già dovrei piangere per averlo detto» (13 febbraio 1908) – una studiata curvatura letteraria, attingendo a modelli alti (tra le tante letture ricordate nei diari ci sono Le mie prigioni di Pellico, un libro che «merita la fama che ha», l’epistolario di Wagner, il De profundis di Oscar Wilde) e non dimenticando di segnalare in più occasioni le difficoltà di una scrittura ben poco spontanea e improvvisata: «Tenere un diario è più difficile che non sembri a prima vista» (6 novembre 1907), «Diciotto giorni che non segno niente. Si chiama questo tenere un diario?», (13 maggio 1908), «Giornata un poco vuota. Anzi molto (curioso è il fatto che scrivendo cerco di dire certe parole perché penso che un giorno potranno esser lette e discusse. Il pensiero è quasi sempre spontaneo, la forma cerco curarla per… i posteri)» (27 settembre 1907).
La scrittura del diario è dunque un esercizio di stile, una prova a cui Boccioni consapevolmente si sottopone, accettando i vincoli e le convenzioni che appartengono e definiscono questo genere letterario. Nelle pagine indimenticabili di Le journal intime et le récit (1959),Maurice Blanchot a questo propositoha definitivamente chiarito che, nonostante la sua apparente libertà, il diario intimo, il cui vero interesse sta nell’irrilevanza, ha l’obbligo, per nulla trascurabile, di «rispettare il calendario»[6], un obbligo che non è affatto, banalmente, garanzia di verità, oggettività, ma regola che, lo ha chiarito Raymond Roussel nel suo Come ho scritto alcuni miei libri[7], sola rende possibile l’invenzione, l’invenzione, in questo caso, del quotidiano. Se poi a misurarsi con la scrittura autobiografica – scrittura appunto quotidiana –[8] è un artista, la faccenda, lo ha evidenziato Angelo Trimarco[9], si complica ulteriormente, non solo per la presenza di elementi grafici, schizzi e disegni, e per i rapporti certo non lineari che questi intrattengono con il testo scritto, ma perché, diventando inevitabilmente anche il luogo di una riflessione (auto)critica e lo spazio di elaborazione di una poetica, il diario d’artista è teatro di un ulteriormente frammentazione del soggetto: chi è l’io soggetto che scrive, l’uomo, l’artista, il critico? e quale è davvero l’oggetto della sua scrittura? Non fanno in questo senso eccezione i taccuini di Umberto Boccioni, dove i dati biografici – gli incontri, i viaggi, le mostre visitate, le donne amate – sono affiancati o, forse meglio, attraversati da elementi di teoria, da spunti critici e di poetica, da immagini che rimandano alla produzione dell’artista, alle singole opere o, più spesso, a progetti e intenzioni che non sempre troveranno concreta materia e forma. Così, i taccuini di Boccioni forniscono allo storico dell’arte dati importanti per ricostruire momenti meno noti dell’opera dell’artista – è quanto avvenuto per il dipinto Beata solitudo sola beatitudo –[10], per ricostruire vicende di committenza[11] ed espositive o, ancora, per individuare fonti non ancora sufficientemente approfondite. A questo proposito, molto si è discusso negli ultimi anni del rapporto che il «vice-re» del Futurismo ebbe con l’arte antica, rapporto ben documentato oltre che dalle note dei taccuini, da un album recentemente riscoperto tra le carte del fondo Callegari-Boccioni della Biblioteca Civica di Verona. Si tratta di una sorta di «atlante della memoria» – così lo ha descritto Francesca Rossi, che con ne ha curato con Agostino Contò l’edizione –[12] in cui sono stati raccolti oltre 200 ritagli, riproduzioni di opere che in molti casi «denotano strette relazioni con i contenuti dei tre Diari […] e se da un lato sfogliamo le pagine di questi taccuini e dall’altro scorriamo le riproduzioni composte sulle grandi tavole, ci accorgiamo che esiste una comunione profonda tra le due forme di espressione, una per parole l’altra per immagini, e che a renderle simili è la struttura stessa del pensiero che le ha volute, l’architettura interna che regge il meccanismo di ricezione delle fonti, un meccanismo disordinato, intuitivo, accidentale e azzardato»[13].
Nel dialogo con le immagini ordinate nell’album, il quale sfugge, vale la pena sottolinearlo, alla implacabile dittatura del calendario, le notazioni raccolte nei taccuini acquistano ulteriore peso e complessità, e non soltanto dal punto di vista filologico perché, al di là delle date e dei dati, pur fondamentali, esse testimoniano di una sensibilità e di un’intelligenza critica che illumina l’intero percorso di Boccioni. La sua convinta partecipazione al Futurismo, ad esempio, nei taccuini giovanili è anticipata, certo, dall’insofferenza per ogni forma di passatismo («Sono nauseato di vecchi muri, di vecchi palazzi, di vecchi motivi di reminiscenze: voglio avere sott ’occhi la vita di oggi» (14 marzo 1907), ma anche dalla necessità di una proposta artistica di respiro «universale» che sapesse raccogliere ed esprimere quanto la scienza aveva svelato: «Manca sempre l’universalità […]. Ci vuole un ingegno che accettando tutto ciò che la scienza moderna ha rinnovato nell’Arte dia il volo che sintetizzi il sogno dell’anima moderna» (12 luglio 1907). Un ingegno, e Boccioni pensa naturalmente al proprio, che sia «più concorde con la poesia matematica e d’acciaio dell’umanità di oggi» (21 settembre 1907), capace di recepire e, soprattutto, di esprimere le trasformazioni che segnano la contemporaneità. Nei taccuini trovano spazio poi notazioni tecniche anche molto accurate, vere e proprie ricette che confermano l’importanza attribuita dall’artista ai materiali e alle tecniche pittoriche: «Sono assolutamente contrario che in pittura l’idea soverchi la tecnica. Io sono convinto che solo un sano e giusto equilibrio tra l’esecuzione tecnica e l’Idea formi la vera opera d’arte» (31 marzo 1908). Dichiarazione, questa, che getta una luce importante sulla ricerca di Umberto Boccioni, il quale certamente non si è sottratto al lavoro teorico e alla riflessione critica senza per questo però mettere in questione la centralità dell’opera, frutto prezioso di una sapienza che è (anche) della mano «Preferisco al leggere stare in mezzo ai miei arnesi pulire, raschiare, ordinare, preparare… Affilare le armi!» (26 luglio 1907).
La pittura, la scultura sono infatti per Boccioni lo spazio di un combattimento, un combattimento che, i taccuini lo rivelano senza ambiguità, innanzitutto oppone l’artista a se stesso, alle esitazioni e alle fragilità, ai tanti pentimenti, agli eccessi e alle troppe ambizioni che lo bruciano e lo rendono insofferente, talvolta fino all’apatia. Proprio di questa mai risolta tensione, sospesa tra le lusinghe del sogno e le asprezze della realtà quotidiana, vivono i diari e le opere di Boccioni, scritture dipinti e sculture che sono l’approdo, ogni volta sorprendente e mai definitivo, di una ricerca appassionata e spesso dolorosa, proprio come dolorosa e appassionata è, per Umberto Boccioni, l’esperienza della vita: «In qualche modo la vita mi pare sciupata quando non è vissuta intensamente» (4 luglio 1907).
[1] U. Boccioni, La grande madre. Pensieri sull’arte, a cura di F. Zollo, Via del Vento Edizioni, Pistoia 2014, p. 18.
[2] U. Boccioni, Pittura e sculture futuriste, Abscondita, Milano 2006, p. 11.
[3] Si tratta di tre piccoli taccuini che coprono un arco di tempo che va dal gennaio 1907 all’agosto 1908 e di un taccuino – un breve Diario di guerra – che raccoglie note che vanno dal 7 agosto al 27 ottobre 1915
(https://rosettaapp.getty.edu/delivery/DeliveryManagerServlet?dps_pid=IE648615). I quattro taccuini sono stati pubblicati nel 1971 a cura di Zeno Birolli nel volume Umberto Boccioni, Scritti editi e inediti (Feltrinelli, Milano) riproposto in anastatica nel 2011 (Mimesis, Milano), e sono stati più volte ripresi, parzialmente o integralmente, in volume. Tutte le citazioni dai taccuini, per le quali si è preferito indicare sempre la data, si riferiscono all’edizione del 1971.
[4] Umberto Boccioni (1882-1916) Genio e Memoria, Palazzo Reale, Milano 23 marzo-10 luglio 2016; Mart, Rovereto, 4 novembre 2019-19 febbraio 2017, catalogo a cura di F. Rossi, Electa, Milano 2016.
[5] Gabriella Di Milia sottolinea come la lunga interruzione coincida con la partecipazione all’esperienza futurista, che condurrà ad un uso diverso della scrittura Boccioni, il quale firmerà nei primi anni dieci Manifesti e scritti critici di grande impegno teorico e polemico. «Alla scrittura diaristica, non a caso, Boccioni ritornerà nel 1915, quando l’eccitante avventura del futurismo, che ha richiesto una tensione estrema, non lo soddisfa più». G. Di Milia, Il cammino accelerato di Boccioni, in U. Boccioni, Diari, a cura di G. Di Milia, Abscondita, Milano 2003, p. 147.
[6] M. Blanchot, Il libro a venire [1959], traduzione di G. Ceronetti e G. Neri, Il Saggiatore, Milano 2019, p. 211.
[7] R. Roussel, Locus solus seguito da Come ho scritto alcuni miei libri, traduzione di P. Decina Lombardi, Einaudi, Torino 1982, pp. 264-285.
[8] Cfr. Par écrit. Etnologie des écritures quotidiennes, a cura di D. Fabre, Editions de la Maison de Sciences de l’homme, Paris 1997.
[9] Alle differenti declinazioni dell’autobiografia d’artista Angelo Trimarco ha dedicato il volume Le carte dell’arte. Forme della scrittura autobiografica, Euno Edizioni, Leonforte 2017, nel cui preambolo l’autore chiarisce, sulla scorta di Derrida, come «sarebbe ingenuo e fuorviante immaginare una simmetria del biologico con il biografico e, per questo, considerare l’autobiografia quasi una narrazione, diretta o indiretta, della “vita” dell’artista» (p. 8). Sull’utilizzo, nell’ambito della critica d’arte, delle scritture private degli artisti cfr. anche In prima persona. Scritti d’artista e critica d’arte, a cura di S. Zuliani, La città del Sole, Napoli 2009.
[10] F. Rovatti, Umberto Boccioni. Beata solitudo sola beatitudo, Scalpendi, Milano 2013.
[11] Nei taccuini ritorna spesso la figura di Gabriele Chiattone, titolare di uno stabilimento tipografico e fra i primi collezionisti e sostenitori di Boccioni. Cfr. E. Coen, Gabriele Chiattone e Umberto Boccioni: committenza e mecenatismo, in Opere d’arte della Città di Lugano: la donazione Chiattone, catalogo della mostra, a cura di C. Sonderegger, Lugano 2016, pp. 45-54.
[12] Umberto Boccioni Atlas. Documenti dal fondo Callegari-Boccioni nella Biblioteca civica di Verona, a cura di A. Contò, F. Rossi, Scalpendi, Milano 2016.
[13]. F. Rossi, La “Gioconda di Boccioni”. Le fonti passatiste tra diniego e fondamento, in Umberto Boccioni (1882-1916) Genio e Memoria, cit., p. 53. Il catalogo si apre con una riproduzione delle tavole che compongono l’album.